Conflitto e partecipazione nella gestione delle risorse naturali. Il caso del fiume Seveso

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    Ormai periodicamente, riemerge la questione delle esondazioni del fiume Seveso, e in particolare la problematica legata alla realizzazione delle famose ‘vasche di laminazione’ nella zona del Parco Nord e a Senago. Di fatto, a causa delle annose esondazioni nei quartieri milanesi di Niguarda e Isola, da ormai parecchi anni sono stati messi in atto una serie di progetti utili a contenere le acque in eccesso del fiume. Il Seveso – di fatto considerato un torrente per via della sua modesta portata (1,8 m³/s) e della sua lunghezza (57 km) – è stato capace negli anni di causare esondazioni repentine e distruttive (raggiungendo la portata di 40 m³/s in area milanese), rappresentando un problema (più che una risorsa) per i territori.


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    Il progetto risolutivo, dopo molti anni di stallo, ha preso forma delineando delle priorità idrauliche: la costruzione di bacini di laminazione [BdL] (o ‘vasche di laminazione’), ovvero invasi utili a ridurre le portate in eccesso durante le piene tramite lo stoccaggio temporaneo delle acque. Le progettualità emerse hanno previsto la costruzione di quattro invasi lungo tutta l’asta fluviale. Partendo da Nord il primo invaso previsto sarebbe da realizzare a Lentate sul Seveso in un’area rurale; il secondo in aree dismesse nei pressi di Paderno Dugnano/Varedo (aree Ex Snia); un terzo a Senago, in area verde; e un quarto nel Parco Nord in territorio milanese, al confine con il territorio di Bresso. Sullo stesso corso d’acqua, già dal 2006, la Regione Lombardia ha coordinato un progetto di ‘Contratto di Fiume’ (CdF), ovvero un protocollo che prevede forme di accordi volontari tra attori locali per una mobilitazione strategica atta ad affrontare problematiche ambientali. L’obiettivo della Regione era di creare nuove condizioni di partecipazione e sinergia per la gestione sostenibile delle risorse idriche a livello di bacino idrografico. Gli obiettivi principali erano la riduzione dell’inquinamento delle acque, la difesa idraulica/rischio idrogeologico, la ri-naturalizzazione e il miglioramento paesaggistico.

    Il Contratto ha dato i suoi frutti fungendo da tavolo di confronto fra i territori in maniera innovativa, e riuscendo a ottenere una serie di sinergie e processi virtuosi all’interno del sistema di governance istituzionale. Contemporaneamente però, sono nati i primi conflitti legati alla costruzione dei BdL: le proteste sono state portate avanti da gruppi di cittadini (comitati) e da soggetti istituzionali (sindaci e comuni).

    I comuni coinvolti sono quelli di Senago e Bresso, prime due aree in cui i progetti hanno preso la forma più concreta: i motivi principali del conflitto sono legati alla costruzione dei BdL in aree “verdi”, la prima agricola (Senago) e la seconda di Parco Regionale (Milano-Bresso). Le principali ragioni della protesta si articolano relativamente a due temi: la contraddizione del sottrarre territorio ‘libero’ per un’ulteriore ‘urbanizzazione’ (consumo di suolo); la pessima qualità delle acque del fiume e il loro stoccaggio in aree prossime ad abitazioni. S

    ebbene i conflitti abbiano rallentato lo svolgimento dei lavori, hanno avuto al contempo il merito di rendere visibili le attuali contraddizioni dei rapporti socio-ambientali territoriali, rappresentando per questo possibili spazi di apertura e discussione per nuovi scenari socio-ecologici. In un’ottica di rapporto diseguale tra centro e periferia, cioè come disequilibrio fra aree territoriali interdipendenti, viene messo in luce un ‘rapporto parassitario’ fra comunità spaziali con diverso potere e diverse vocazioni territoriali, come già Carrosio (2013) faceva notare relativamente ai conflitti sul fiume Po. Inoltre questo caso mette in luce la questione della reale inclusività degli strumenti di governance – quali il CdF – e della loro capacità di diventare strumento di ‘consenso pacificatore’ che, pregiudicando un eventuale dibattito/confronto utile a innovazioni e immaginari territoriali alternativi, spesso riproduce configurazioni socio-ambientali insostenibili, privilegiando attori già in posizioni privilegiate e traspone il conflitto in altri contesti e sotto altre vesti.

    Per capire fino in fondo la vicenda dei CdF e dei conflitti che hanno generato è necessario ripercorrere la storia del Seveso a Milano, a partire dal suo complesso sistema di smaltimento delle acque urbane.

    Il 13 Gennaio 1886 il Consiglio Comunale di Milano si riunisce per nominare una commissione, presieduta dall’ing. Tagliasacchi, di “persone competenti” per risolvere il problema della mancanza di un reticolo fognario. Tra i 1710 pozzi neri censiti in città, più di mille risultano essere insalubri: per questo motivo il consiglio ritiene in ultima analisi che sia un “bisogno indiscutibile e urgente nascondere, disperdere, cacciare lontano dall’abitato le feci umane e gli altri rifiuti”, come scrisse lo stesso ing. Tagliasacchi nel 1889. Nei documenti comunali si denunciava la “barbara” situazione del ristagno del fiume Seveso, che doveva essere coperto in modo da efficientare il sistema fognario, dando spazio alla viabilità e ai nuovi quartieri in costruzione (Piazza D’armi). Il fiume Seveso all’epoca delimitava la parte orientale della cinta di mura spagnole, entrava in città da quella che oggi è piazza San Babila, confluendo poi nella Vettabbia e successivamente nel Lambro a Melegnano.

    Nel 1893 il progetto della fognatura era pronto e nel 1897 venivano costruiti i primi 60km di fognature: nel 1911 l’Ing. Poggi impostò un piano di ampliamento prolungatosi fino al 1923: nel 1924 Codara redagì un nuovo piano per l’ampliamento e l’espansione della fognatura ai nuovi territori entrati nell’area metropolitana. Il vasto groviglio di canali che si andava delineando sotto la città venne ulteriormente allargato tra gli anni 1950 e gli anni 1980, arrivando a un’estensione fognaria complessiva di più di 1200 km. Man mano che la città si espande, la copertura e la tombinatura del fiume Seveso avvengono di pari passo: dalla Martesana a Porta Nuova si passerà alla tombinatura dei Bastioni fino a via Melchiorre Gioia, per poi – dagli anni 1950 – proseguire fino al quartiere Niguarda e via Ornato (al confine col Comune di Bresso) in seguito alla realizzazione del capolinea della Metrotranvia Nord.

    È qui, nei quartieri nord di Milano (Niguarda e Isola) che il fiume Seveso esonda periodicamente, con il record toccato nel 2010 (8 volte) e nel 2104 (6 volte) e un ammontare di danni valutati per circa 100 milioni di euro. Conosciuta come una delle aree più urbanizzate d’Europa, l’area Milanese, e in particolare il nord di Milano, raggiunge picchi di urbanizzato dell’80% in alcuni Comuni: lo straordinario sviluppo economico di quest’area infatti è stato accompagnato da un’impermeabilizzazione del suolo legato allo sviluppo industriale e al processo di urbanizzazione. Il corso d’acqua, trascorsa l’epoca romantica, ha assunto la funzione di fiume dell’industria dapprima fornitore di energia e subito dopo di ricettore dei reflui industriali. Le funzioni storiche avute in diverse epoche si sono quindi ormai esaurite così che il fiume si presenta oggi come un rigagnolo ricco di inquinanti di scarichi industriali, spesso incassato tra edifici.

    Risultano chiare, da questo breve excursus storico, le due questioni cruciali che vogliamo affrontare: anzitutto, che il problema di acqua è in realtà un problema di terra, e cioè di uso del suolo; inoltre che questo è un problema della città di Milano, che deriva da un processo, avvenuto per la verità in tutti i centri urbani europei, che, seguendo una visione tecno-modernista, ha fagocitato le acque nel processo di urbanizzazione della natura e di ‘sanificazione’ dello spazio urbano.

    Torneremo più avanti su questi punti, riprendiamo ora la questione del Contratto di Fiume e dei conflitti che si sono generati attorno a questo strumento.

    Il Contratto di Fiume Seveso, nato nel 2006, è stato il tentativo da parte delle istituzioni di risanare la situazione dell’intero bacino: ha avuto come risultato principale quello di creare un dialogo (anche se conflittuale) tra attori istituzionali e portatori di interesse locali. L’ambizione è stata quella di riuscire a integrare tutte le attività delle politiche regionali e quelle degli enti locali e orientarle in una visione per il bacino idrografico, con l’obiettivo di migliorare le condizioni del corso d’acqua, migliorare la riqualificazione, aumentare la biodiversità e sicurezza. Il contratto, di fatto, ha funzionato principalmente come incubatore di decisioni tecniche e di formazione per gli attori istituzionali.

    Dopo il 2009, anche a causa di eventi alluvionali straordinari, Regione Lombardia, Comune di Milano e Agenzia di Bacino del Po, hanno accelerato i progetti per risolvere la questione ‘emergenziale’ delle esondazioni in Milano. I primi contrasti tra la Regione e il Comune di Senago insorgono non appena i progetti di laminazione diventano ufficiali. A Senago, comune di 21.000 abitanti (18 km a nord ovest da Milano), si è individuata la costruzione di un bacino sia perché risulta avere ancora ampie superfici libere di verde agricolo – diversamente da tutta l’area nord-milanese –, sia perché è attraversato dal Canale Scolmatore Nord Occidentale (CSNO).

    I motivi di contrarietà al progetto sono principalmente due: la non appartenenza al bacino del Seveso e la compromessa qualità delle sue acque e quindi il potenziale rischio di inquinamento delle falde acquifere. Spesso le comunità locali sostengono di non avere alcun rapporto storico-ambientale col Seveso, ma di subire le scelte di Regione Lombardia e Comune di Milano: Senago a conti fatti è l’unica area con ampia superficie disponibile rimasta a nord di Milano, costruire le vasche e un’eventuale chiusura degli scarichi abusivi risolverebbe anche il problema idraulico. Le vasche inoltre sono percepite come opere che diventeranno obsolete fra pochi anni e non in grado di risolvere il problema di base per Senago, cioè la depurazione delle acque. Infine, la fase progettuale dell’operazione è stata segnata da una forte retorica partecipativa che, nei fatti, si è però esaurita in una mera questione informativa.

    Anche a Bresso si è acceso un conflitto. Si tratta di un comune alle porte di Milano con circa 26,000 abitanti e un territorio comunale per la quasi totalità urbanizzato, ad eccezione della zona del Parco Nord Milano, che ha rappresentato negli ultimi dieci anni un importante motivo di riscatto per uno dei territori più urbanizzati d’Europa. Le motivazioni di contrarietà al progetto delle ‘vasche’ sono legate all’eliminazione di circa 4 ettari di parco (Parco Nord) e alla qualità delle acque che verrebbero stoccate a pochi metri dai caseggiati limitrofi.

    I comitati cittadini locali qui lamentano lo scarso supporto dell’amministrazione locale e un ancor più scarso coinvolgimento nella pianificazione: più volte è stata manifestata l’esigenza di un dialogo con le istituzioni che non si basi esclusivamente su una concezone ingegneristica della catena causa-effetto, che non si concentri unicamente sul risparmio, ma che prenda in considerazione un più ampio spettro di questioni, che lavori all’interno di una concezione strutturale degli interventi e che guardi al medio e lungo periodo. Relativamente al progetto-vasche, ciò che manca, dicono, è un piano alternativo nel lungo raggio, che risolva il problema in modo definitivo.

    L’ente gestore del Parco Nord, che da anni si occupa anche delle problematiche ambientali dell’area, lamenta la mancanza di un livello territoriale di coordinamento più alto, l’assenza di qualsiasi obbligo stringente nel rispetto di politiche territoriali comuni da parte dei firmatari (firmo un contratto che posso anche non rispettare) e l’approccio ingegneristico dei progetti, di fatto ‘calati dall’alto’.

    Infine, a Lentate sul Seveso, comune dell’Alta Brianza localizzato nella zona alta dell’asta fluviale, è in progetto la costruzione di uno dei 4 bacini. Qui tira tutta un’altra aria: al contrario di Bresso e Senago, ad oggi, il progetto non è stato ostacolato. Il Comune si è subito seduto al tavolo tecnico con Regione Lombardia e AIPO per seguire la progettazione dall’inizio in modo da collaborare, sia nella progettazione, sia nell’illustrazione ai cittadini.

    I conflitti che si sono avuti hanno messo in crisi le potenzialità e le sinergie istituzionali poiché il CdF si è rivelato lacunoso nel suo principale scopo, e cioè nel momento di ‘ascoltare i territori’, includendo ad esempio nei processi decisionali le comunità lungo l’asta fluviale. Se quindi la negoziazione tra le istituzioni si è rivelata proficua, sono tuttavia emersi molti limiti dal punto di vista della partecipazione degli attori locali.

    Lo strumento del CdF nasce sulla spinta di importanti documenti europei sulla governance ambientale, come la Direttiva Quadro sulle Acque (del 2000 e del 2007/60/CE), che hanno insistito molto sulla partecipazione alle decisioni pubbliche con lo scopo di aumentare la consapevolezza ambientale delle comunità locali. Nonostante ciò, la governance sovranazionale europea in questo ambito non ha potere nello stabilire limiti ecologici generali, dovendo sempre essere soggetta a politiche nazionali.

    Queste limitazioni hanno inoltre innescato una drammatica depoliticizzazione di certi processi territoriali che, di fatto, stanno totalmente dentro l’arena politica – come l’aumento dello sprawl o l’impermeabilizzazione del suolo – naturalizzandoli in quanto ‘normali’ dinamiche legate all’attuale modello di sviluppo socio-economico e, di conseguenza, neutralizzando il dibattito

    Il CdF è stato trasformato in un mero strumento tecnico e gestionale, che ha consentito di trattare il problema delle esondazioni e della qualità delle acque in maniera totalmente slegata rispetto a quei processi territoriali più ampli e più complessi (consumo di suolo in primis) che hanno un impatto considerevole sulle problematiche legate al fiume.. La vera questione, e cioè che ciò che viene presentato come un ‘problema di acqua’ sia di fatto un ‘problema di terra’ rimane non solo irrisolta, ma nemmeno riconosciuta come tale. La forte depoliticizzazione della gestione delle acque del Seveso, serve inoltre a mantenere, paradossalmente, molto alto il consenso perché, come sostiene Osti, ha un impatto visivo notevole, e può quindi agire sull’immaginario dei cittadini, promettendo da un lato successo elettorale di amministratori e dirigenti pubblici, e, dall’altro, garantendo altresì profitti per imprese di progettazione e costruzione, permettendo agli ingegneri, di mantenere una solida supremazia intellettuale. Tuttavia, i conflitti non ‘neutralizzati’, finiranno per ripresentarsi fuori dallo strumento istituzionale CdF sotto altre vesti e in altre modalità.

    Questo caso ci permette inoltre di evidenziare una serie di nodi significativi che riprendono la seconda questione di cui si parlava all’inizio e cioè della dipendenza dei territori periferici da quello centrale.

    Di fatto, la frammentazione della governance delle acque che si è avuta a partire dagli anni 2000 ha avuto l’effetto di indebolire tutti gli attori istituzionali e disperdere la catena di responsabilità nella gestione, in particolar modo fra Regione, Comune, Autorità di Bacino e altri. In particolare, la partecipazione effettiva delle comunità locali è totalmente svuotata dal momento in cui il CdF, (così come altri strumenti partecipativi) promette inclusione e coinvolgimento quando le risorse naturali in questione sono già state ampiamente sfruttate e degradate da processi produttivi e attraverso i modelli insediativi. L’obiettivo principale del Contratto, – ‘tornare a prendersi cura della risorsa naturale’ – in questo quadro di governance frammentata, non garantisce affatto il coinvolgimento dei cittadini nella gestione della risorsa ‘a monte’ della pianificazione né, tanto meno, il loro potere decisionale. Per di più, la volontarietà del CdF limita la responsabilità (politica) delle azioni o delle omissioni degli attori istituzionali, imponendo politiche presentate dall’alto come imperativi sistemici: siamo di fronte a quello che Peck e Tickell chiamano ‘responsabilità senza potere’ .

    La relazione diseguale tra Milano e i suoi territori periferici, si manifesta soprattutto a partire dalla scelta della realizzazione delle vasche in contesti esterni al comune di Milano, per risolvere un problema che di fatto è storicamente legato alla città di Milano. La tombinatura del fiume Seveso infatti, è avvenuta in epoca recente e resta un problema urgente relativamente ai territori a nord di Milano. Quest’ultima, in forza del suo peso territoriale, e grazie alla polverizzazione delle competenze degli attori locali, riesce a penalizzare – paradossalmente – aree naturalisticamente pregiate o storicamente preservate come il Parco Nord o le aree agricole di Senago. Dal conflitto tuttavia, emergono delle contraddizioni che possono aprire nuove prospettive per riequilibrare il rapporto fra diverse aree, partendo da un cambiamento dei modelli di sviluppo territoriale. Le osservazioni relative alle leggi sul consumo di suolo e sull’invarianza idraulica possono essere lette in questa prospettiva, prefigurandosi come indirizzi utili a generare scenari territoriali più ecologici e democratici.


    Immmagine di copertina: ph. Ronaldo de Oliveira da Unsplash

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