Il modello Parasite: quando i big data vanno bene per correre, ma non per la salute

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    In una delle prime scene di Parasite di Bong Joon-ho, premiato con la Palma d’oro a Cannes e l’Oscar come miglior film ad Hollywood, vi sono Ki-woo e la figlia e Ki-jeong che ispezionano il soffitto del sottoscala in cui vivono in cerca di una connessione WiFi.

    La parabola del film e dei due giovani coreani sembra partire necessariamente dall’accesso alle tecnologie, verrebbe da dire che in quella scena internet appare subito come opportunità e nuovo ascensore sociale. Parto da questa particolare scena di Parasite per provare ad abbozzare una descrizione di quanto è stato fatto in Corea del Sud per fronteggiare l’incedere del Covid-19 e del perché quelle stesse scelte siano state rigettate in Italia.

    Perché non avviamo una discussione sull’etica dell’uso collettivo dei dati e delle informazioni che produciamo quotidianamente?

    In realtà quella scena, rivista in questo momento, apre a una serie di domande sull’etica dell’uso dei media che tutti insieme, forse, dovremmo iniziare a considerare. Partiamo da pochi dati che non hanno a che vedere con il Covid-19, la Corea del Sud è uno stato della penisola coreana con oltre 51 milioni di abitanti e al momento è il paese in cui vi è la connettività mobile più veloce del mondo.

    Il fatto che la famiglia Kim, protagonista di Parasite, si affanni alla ricerca di una connessione WiFi disponibile, dice molto di quanto Bong Joon-ho abbia voluto sottolineare il ruolo della connettività quale strumento basilare in questa nuova lotta di classe. La mia riflessione nasce all’interno dei media e tra le righe di questa bulimia da digitale in cui siamo piombati a partire dalle misure restrittive e di contenimento messe in atto dal governo italiano all’insorgere dell’epidemia di Covid-19.

    Come molti altri, anche io mi sono barcamenato tra liste di film in streaming, assaporando, non senza vergogna, l’alienazione da video-ideozie in autoplay. Una di queste notti sono poi piombato in una ossessione fatta di grafici, trovandomi, quasi per caso, a mettere a confronto l’avanzamento del contagio tra Italia e Corea e del Sud.

    Subito alcuni paesi asiatici hanno avviato azioni di contenimento in cui i big data sono stati impiegati per tracciare e isolare i casi positivi

    Quello che ho notato è che dal 29 febbraio al 13 di marzo le persone contagiate in Corea del Sud sono passate da poco più di 3000 a 8000. Nello stesso periodo invece in Italia i contagiati sono passati da 1700 a più di 17000. Il perché di questa crescita anomala va cercata nelle diverse misure di contenimento dell’epidemia adottate dai due paesi e sulla ricezione da parte dei cittadini delle misure restrittive a loro imposte dai rispettivi governi. Sin da subito alcuni paesi asiatici hanno avviato delle azioni di contenimento in cui i big data sono stati impiegati per tracciare e isolare i casi positivi, le persone venute a contatto con questi e quelle potenzialmente infette.

    Dinnanzi a un virus per il quale non abbiamo ancora rimedi farmacologici, la condotta sociale sembra essere l’unica arma a disposizione. Ma come è immaginabile, pur esistendo diversi modi di orientare e disciplinare i corpi, è altrettanto scontato constatare che quasi sempre la scelta ricada su modelli autoritari. La possibilità di utilizzare il contact tracing dei pazienti attraverso i big data prodotti dagli smartphone è un’opzione proposta ai vertici della regione Lombardia subito dopo l’isolamento del focolaio di Codogno e immediatamente rigettata come antiliberale da parte degli amministratori della Regione.

    Si è preferito avanzare diversamente nella lotta alla diffusione del virus, optando prima per una misura localizzata e poi per un isolamento generalizzato e semi-militarizzato dell’intero territorio nazionale. Partiamo da un dato di fatto, i fattori critici per rintracciare e controllare la diffusione di un virus sono il tempo e le informazioni.

    Per raccogliere informazioni sulla posizione dei pazienti infetti e sulla loro TOCC (Travel, Occupation, Contact, Cluster) sono necessarie rapide segnalazioni da parte di individui, ospedali e governi locali dirette a un comando centrale in grado di coordinare le azioni. Questo aiuta il governo a controllare l’epidemia e ad adottare politiche di risposta il più rapidamente possibile. Per attuare questa politica abbiamo sostanzialmente diverse strade: quella di una tracciabilità libera dei flussi di informazioni e la condivisione di informazioni pubbliche, e una risposta autoritaria fatta di controllo e limitazione collettiva delle libertà personali mediante indagini repressive.

    Ha fatto discutere un articoletto pubblicato da Giorgio Agamben qualche giorno fa, in cui il filosofo italiano parlava dello stato di eccezione italiano come di un’emergenza immotivata. A prescindere dalla considerazione sbagliata di Agamben sull’impatto effettivo dell’epidemia, è interessante notare come il filosofo facesse notare una cosa sullo stato di eccezione, ovvero di come questo si elevi a paradigma normale di governo.

    La discussione che vorrei si aprisse riguarda come sia possibile utilizzare a nostro vantaggio i data

    Il decreto-legge approvato dal governo “per ragioni di igiene e di sicurezza pubblica” si risolve, secondo Agamben, in una vera e propria militarizzazione del territorio nazionale. Il filosofo in realtà prosegue ad applicare un suo personalissimo discorso, quello della società biopolitica di derivazione post-foucaultiana, che, messo in questi termini, sembra essere quasi interiorizzato e inefficace, ma che in realtà ci serve per aprire delle considerazioni che vanno oltre l’epidemia di Covid-19. Sto parlando nello specifico della gestione delle nostre informazioni personali nelle società ipermedializzate.

    La discussione che vorrei si aprisse è diretta a esplorare il modo in cui sia possibile utilizzare a nostro vantaggio i data che al momento contribuiscono a definire le nuove forme del dominio oltre la società del controllo e al di là della biopolitica. Al tempo dei social network e dei big data, le informazioni sull’epidemia, infatti, sono un altro elemento di riflessione su fenomeni politici che hanno un impatto diretto sulla vita biologica degli uomini.

    Volendo distinguere, tra le posizioni adottate da Italia e Cina e da quelle invece assunte da altri paesi asiatici come Corea del Sud e Taiwan e tracciando una grossa linea e tante piccole aree ci ritroveremmo sostanzialmente divisi tra un’opzione tradizionalmente autoritaria e un’altra di tipo “libertario” e intrusiva.

    All’interno di queste posizioni, quella cinese e quella italiana sono a loro volta differenti e sembrano dimostrarsi efficaci solo in maniera relativa. Attenzione, non sto dicendo che l’isolamento sia inutile, sto affermando che sia efficiente solo nella misura in cui venga fatto eseguire in regime autoritario, come avvenuto in Cina.

    L’obiettivo primario in questi paesi che hanno scelto la chiusura restrittiva è sembrato quello di affermare, una volta ancora, delle forme di governance molto restrittive al fine di mantenere la stabilità dello stato con strumenti biopoliticamente già conosciuti. Non sarà certo un caso se le prime misure di quarantena (quaranta giorni di isolamento per le navi provenienti da oriente) siano state adottate dai veneziani durante gli anni della peste nera.

    I governi di Cina e Italia hanno mobilitato rapidamente le risorse nazionali in opere di soccorso con massicce squadre mediche, eppure, nonostante la rapidità di esecuzione, i numeri sembrano non essere tanto positivi, a testimonianza che questo tipo di mobilitazioni potrebbero non servire a contenere del tutto l’epidemia. In Cina e soprattutto nell’area di Wuhan, quando hanno compreso la gravità del problema hanno fatto ricorso a misure quasi crudeli di repressione, facendo spesso uso della violenza per far’ rispettare la quarantena e per ridurre la crescita dell’epidemia.

    Perché condividere i propri spostamenti con una app che aiuta a ottimizzare il running e non per fini sanitari?

    Mentre in Italia le forze dell’ordine stanno ricorrendo a sanzioni amministrative per far rispettare il blocco totale e l’isolamento. A queste posizioni fanno da contraltare quelle di Corea del Sud e Taiwan, in cui la possibilità di adottare misure di isolamento precise e capillari, supportate dalle informazioni estratte dal contact tracing, sembrano essere state più efficaci nel contenimento dell’epidemia.

    A margine dell’esperienza di Corea del Sud e Taiwan credo che si apra un discorso sulla scelta dei due paesi asiatici di affrontare il problema orientandosi su soluzioni data-driven che, pur nel loro essere invasive per le libertà personali, sembrano figlie di una riflessione etica sull’utilizzo dei big data.

    Infatti, la domanda che mi faccio e che ripropongo a chi mi legge è: per quale motivo allo stato delle cose ogni cittadino si sente tranquillo nel condividere i propri spostamenti mediante una semplice app che aiuta a ottimizzare le prestazioni dei runner, ma allo stesso tempo vede minacciata la propria libertà se gli viene chiesto di condividere anonimamente i propri spostamenti e i propri incontri a fini sanitari?

    Per quale motivo abbiamo accettato di fatto una cyber-biopolitica o una biopolitica del digitale impostaci surrettiziamente nelle condizioni d’uso dei social media, o dalle sue logiche di intrattenimento e gaming, ma invece non accettiamo che quegli stessi dati possano essere condivisi per fini di contenimento sanitario? Perché non avviamo una discussione sull’etica dell’uso collettivo dei dati e delle informazioni che inevitabilmente produciamo quotidianamente? Per quale motivo preferiamo alimentare una contraddizione in cui da un lato rifiutiamo il tracciamento dei nostri spostamenti da parte degli enti sanitari, perché ci sembrano misure illiberali e intrusive della nostra privacy e dall’altro sottostiamo a una prigionia generalizzata e vetero-biopolitica?

    Le risposte sembrano non poter arrivare, se di fronte a nuovi problemi ci ostiniamo ad adoperare vecchi strumenti e se continuiamo ad accettare che questioni collettive, quali quella dei big data, restino nella disposizione esclusiva di media-corporation.

    Note