Crowd-work: il futuro del lavoro

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    Il crowdwork [lavoro-folla] è una delle forme di lavoro digitale. I committenti postano su una bacheca virtuale i lavori disponibili e si rivolgono a una platea molto vasta, anche globale. Il sociologo britannico Guy Standing lo ha definito il lavoro a chiamata di nuova generazione: disponibilità in rete a tutte le ore, tutti i giorni. Oltre al cellulare, simbolo vent’anni fa del lavoro a chiamata di prima generazione, oggi c’è il profilo su facebook e il DM su twitter.

    È cambiato anche il committente: prima di solito era l’agenzia interinale, oggi l’intermediario può essere anche una piattaforma. Nel lavoro-folla il lavoratore è indistinto. Potenzialmente, tutti potrebbero svolgerlo. Dipende da chi risponde prima alla chiamata. Poi, certo, contano le competenze e le opportunità. Ad esempio, se sei proprietario di un auto, e non necessariamente di una Mercedes, puoi fare l’autista di Uber nel tempo libero. Se tieni alla reputazione online, puoi mettere a disposizione il tuo veicolo per un viaggio su Bla Bla Car.

    Sono due esempi diversi: quello di Uber è un cottimo postmoderno: la remunerazione dipende anche dall’apprezzamento del cliente; le spese fisse e la manutenzione sono a carico del lavoratore che tuttavia lavora per una piattaforma informatica. In più questa piattaforma può “disattivare” il lavoratore che non riscontra il gradimento degli utenti-clienti.

    Non solo l’America

    Il lavoro-folla non è un’esclusiva americana, riservata a una forma di capitalismo ancora al di là dal venire, anche se in Italia se ne parla molto. È una modalità di gestire la divisione del lavoro, un’evoluzione di quella che in italiano si chiama “esternalizzazione”, pessimo neologismo che non contribuisce a creare un interesse per le questioni del lavoro. A cominciare dai diretti interessati.

    Standing sostiene che Mechanical Turk, un internet marketplace creato da Amazon per risolvere quesiti posti dai clienti al sito di e-commerce, solo nel 2012 ha assunto oltre mezzo milione di lavoratori-folle in più di 100 paesi: il 70 per cento sono donne. oDesk, una piattaforma che mette in contatto freelance o lavoratori indipendenti che cercano piccoli lavori o mansioni specifiche ha contrattualizzato 14 milioni di persone in India, molte altre negli Stati Uniti, Bangladesh e altrove. Mezzo milione di filippini è iscritto alla piattaforma ed è impiegato nell’outsourcing aziendale. Quest’ultimo non è un’eccezione, ma la regola. Al punto che è diventato un “comparto”, per usare il sindacalese. Il comparto del crowd-work.

    I governi dei cosiddetti “paesi emergenti” puntano su questo settore ancora oggi. L’Europa è in ritardo. Ma non molto. Il lavoro digitale – questo è probabilmente il nome più adatto per descrivere la trasformazione colossale in corso – è una realtà dappertutto. Al di là dell’etichetta che possiamo assegnargli.

    L’altra faccia del lavoro-folla

    Accade in Gran Bretagna, ad esempio. Una recente ricerca della Foundation for European Progressive Studies (FEPS) sostiene che siano 5 milioni i lavoratori sono pagati dalla cosiddetta “gig economy, confusa sempre più spesso con la “sharing economy” che è fenomeno molto più vasto. Tre milioni sono regolarmente impegnate nel lavoro-folla. I giornalisti parlano anche di “uberizzazione dell’economia”. Fuori dalle metafore, si parla di “capitalismo di piattaforma” [Platform capitalism]. Il lavoro dello studioso Trebor Scholz ne descrive perfettamente le caratteristiche. Scholz interverrà su questi temi con Tiziana Terranova a Bellissima Fiera a Milano domenica 20 marzo.

    La Feps, con l’aiuto dell’università dello Hertfordshire, ha fatto delle domande a chi lavora su piattaforme come Upwork, Uber o TaskRabbit. E ha fatto una scoperta: più di un quarto (26%) dei lavoratori-folla sostiene di guadagnare metà del proprio reddito annuale attraverso le piattaforme online. Sono interessanti le stime effettuate sulla base dell’ampio campione esaminato: il 21% (nove milioni di persone) ha usato le piattaforme per cercare un lavoro-folla pagato. Il 42% (18,5 milioni di persone) considera la piattaforma come una necessità quotidiana. Parliamo di tassisti, lavoratori edili, graphic designers, contabili. E molti altri.

    “C’è il rischio reale che la proliferazione del lavoro digitale online porti all’erosione degli standard lavorativi e dei diritti del lavoro, colpendo anche il fisco – sostiene Ursula Huws, docente di lavoro e globalizzazione all’università dello Hertfordshire – Viene etichettata come sharing economy, ma molti dei partecipanti ci lavorano non per ragioni altruistiche o nel tempo libero, ma perché si sono affidati a questo sistema per guadagnare un reddito”.

    “Le piattaforme online rappresentano indubbiamente un’apertura a nuove opportunità – sostiene Elva Bova, economista della Feps – Permettono di trovare lavoro più facilmente in nuovi campi e alle aziende di trovare qualcuno per lavori strani e specifici. La loro crescente egemonia potrebbe portare i veri lavoratori indipendenti fuori dal mercato, riducendo il costo del lavoro e costringendo le persone in condizioni lavorative insicure senza le tutele contro le paghe misere, la pensione, i contributi, o le garanzie del reddito minimo”.

    Le parti in gioco

    Un’altra ricerca della Feps condotta con i sindacati europei riuniti in UniEuropa, presentata a Roma di recente davanti a mille dirigenti sindacali provenienti dal continente, ha esteso la ricerca ad altri paesi europei. Sono stati forniti i dati sulla Svezia, presto verranno quelli sull’Italia, la Germania, la Spagna, l’Austria e i Paesi Bassi. Un dato interessante emerge dalla realtà svedese: il 12% della popolazione (737 mila persone) lavora nell’economia digitale, un settore quasi completamente non regolamentato in cui emergono le prime istanze sulla coesione sociale e un’idea di crescita sostenibile.

    “I promotori delle economie di piattaforma sottolineano il valore dell’auto-regolazione – sostiene Peter Hellberg, vice-presidente del sindaco svedese Unionen – Il mercato del lavoro svedese è già autoregolato attraverso le regole stabilite dalle parti sociali. Estendere questo dialogo sociale alle piattaforme significa che potremmo assicurare la neutralità della competizione tra le aziende tradizionali e le piattaforme, evitando il dumping sociale, istituendo regole di cui potrebbero beneficiare sia i lavoratori che le piattaforme”.

    “In questo momento vediamo solo l’aspetto negativo di questo mercato del lavoro – ha aggiunto Susanna Camusso, segretario della Cgil – E’ la dimostrazione della necessità di modificare il modello di sviluppo, di lottare per un lavoro davvero dignitoso e di chiedere all’Ue il varo di standard minimi comunitari da applicare ai paesi europei”.

    L’incontro romano dei sindacati può essere considerato una prima risposta alla lettera inviata dai 47 colossi americani della sharing economy alla Commissione Europea. Il capitalismo di piattaforma Usa chiede a Bruxelles di essere tutelata contro gli Stati membri che la penalizzano dal punto di vista della concorrenza: il caso Uber-pop è significativo. In cambio le autorità europee chiedono di pagare il fisco. Il dibattito è teso, al punto che l’Ue ha rimandato a giugno l’approvazione delle linee guida che dovrebbero regolare il settore.

    Auto-regolarsi, ma come?

    In Europa, la sharing economy si trova stretta da tre richieste di regolazione: quella avanzata dalle piattaforme, dei sindacati e degli Stati. Nel primo caso si tratta di un’autoregolazione che usa gli strumenti bottom-up, cioè dal basso verso l’alto. I clienti di un servizio valutano online la reputazione o la qualità del servizio, le piattaforme mantengono un controllo sulle classifiche e mirano alla soddisfazione dei clienti. I sindacati intendono applicare la concertazione per fare “dialogare” i lavoratori con le piattaforme.

    Nel caso degli Stati l’autoregolazione viene affidata alle piattaforme a condizione che rispettino le regole della concorrenza e quelle del fisco. In questo caso l’esempio è la proposta di legge presentata da un intergruppo parlamentare in Italia. Una proposta singolare, avanzata prima della presentazione delle regole europee, tutta incentrata sulla questione della concorrenza e che esclude dalla sharing economy gli interrogativi sul lavoro autonomo, oggetto di un altro provvedimento del governo Renzi. Il testo è possibile discuterlo qui.

    Sono tre criteri diversi, e non del tutto antagonisti. Nei primi due è assente il punto di vista dei lavoratori. Conta la piattaforma e le sue interazioni. E poi il mercato. Nel caso dei sindacati si propone di applicare lo strumento della concertazione – tipico dell’economia fordista – a un mondo dove non è nemmeno chiara la natura del lavoro: se dipendente, autonomo, occasionale, freelance. Anzi, è in discussione proprio la categoria di lavoro in quanto produzione, fornitura di servizi. Quello che è sicuro è il soggetto: il freelance che può agire come “contrattista indipendente”, oppure da lavoratore autonomo, e ancora come libero professionista. In altri casi, come in quello di Uber, si configura un rapporto di lavoro dipendente. Ma non sempre è così.

    Oltre il lavoro-folla

    È problematico applicare le normative del lavoro fordista, e la contrattazione sindacale, a un mondo dove le parti sociali si formano “dal basso” e si auto-generano in base ai rapporti professionali, di mutuo aiuto, cooperativi, personali. E poi in base agli obiettivi, ai contesti, alle tecnologie. Nel lavoro-digitale si affermano elementi di intelligenza collettiva, competenze e inventività, oltre alla capacità di auto-organizzazione e cooperazione che mancano nella descrizione del “crowd-work”.

    Le piattaforme e lo Stato, al momento, non intendono riconoscere né il lavoro-folla, né il più ampio ventaglio delle possibilità del lavoro digitale. In questo orizzonte manca del tutto un’idea del lavoro che non sia un elemento della concorrenza sul mercato, oppure un equivalente del fare impresa o start-up tecnologica.

    I sindacati rischiano di interpretare questa attività operosa con le lenti di un altro lavoro, quello dipendente. Il dibattito è tra un’auto-regolazione centralizzata e un’altra distribuita nelle reti. Bisogna capire quali sono gli strumenti della contrattazione sul lavoro e nella società. Il contratto non è più l’unico strumento per realizzarla.

     

    Note