La cultura dell’audacia non cambia nulla, il dopo-coronavirus è fatto di domande e non di risposte

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    Proprio mentre stavo iniziando a scrivere questo articolo è uscito su la Repubblica del 27 marzo un’intervento di Alessandro Baricco in cui si esortano gli intellettuali a fare il loro lavoro, e cioè «pensare, capire, leggere il caos e prenderci il rischio di dare a tutti qualche certezza», definendo tutto il suo lungo ragionamento “il momento dell’audacia”.

    In effetti in questi giorni in molti stanno affermando come la prospettiva del “dopo” vada affrontata con la giusta dose di determinazione per offrire una narrazione adatta a quello che si dovrà affrontare. È un pensiero positivo e risoluto che man mano che i giorni passano e i confini della quarantena diventano sempre più incerti, mentre anche gli eventi previsti per l’estate iniziano a scricchiolare e ogni rinvio sembra più un tentativo di prendere tempo che non una vera ipotesi di certezza, sembra perdere però di vista due punti.

    Il primo, come possiamo iniziare a costruire il “dopo” se non sappiamo cosa questo “dopo” sarà rischiando così di appiattire un’istanza di cambiamento dentro i ritmi della consuetudine? Il secondo, è giusto definire questo atteggiamento “audacia” ed è altrettanto giusto che gli intellettuali — dove qui definiremo qualsiasi persona il cui pensiero produce un qualcosa di relativo alle arti e alla cultura — debbano dare “certezze” in un’epoca storica che sta crollando forse proprio per via delle troppe certezze di cui, anche nella cultura, si è auto-convinta?

    La cultura è da sempre il termometro principale di umori, tendenze, cambiamenti

    Molti in questi giorni si stanno interrogando sugli aspetti e le conseguenze profonde della pandemia sull’apparato psichico della persona, sulla riconfigurazione delle nostre abitudini sociali ora che saremo costretti chissà fino a quando a vivere a un metro di distanza gli uni dagli altri, su cosa porterà in termini anche di contenuto la frattura epocale che stiamo vivendo.

    Qualcuno sta sussurrando — probabilmente esagerando — che tutto quello che è stato prodotto fino a l’altro ieri è ormai inutile e invecchiato: di contro ovviamente agenti, editor, ma anche produttori discografici stanno lamentando la prevedibile cascata di proposte di libri, romanzi, saggi, canzoni, dischi a tema “coronavirus”.

    La cultura è da sempre il termometro principale di umori, tendenze, cambiamenti che si muovono nel tessuto sociale ed è evidente che configurando una situazione tra un “prima” e un “dopo” si dovrà fare i conti con tutto ciò che è cambiato senza aver paura di affrontare anche gli aspetti negativi, quello che si è perso e anche l’improvvisa inutilità di approcci, linee di pensiero, tendenze argomentative.

    Quindi sì, una riflessione sul ruolo degli intellettuali — anche se “discussione sul ruolo degli intellettuali” è ormai una categoria narrativa molto in voga in un dibattito ombelicale eterno fatto tra, ehm, intellettuali ormai sempre più simili a micro-bolle personali che non a un tessuto che crea qualcosa — è necessaria ma forse non nei termini di audacia posti da Baricco.

    Prima di tutto perché questa retorica rischia di essere semplicemente una replica della normalità esistente e se qualcosa avremo imparato da questo periodo di pandemia e quarantena sarà non tanto un nuovo manuale d’istruzioni per vivere in una ritornata normalità (ci sentiamo quindi qui di recuperare quello slogan proiettato sui muri di Santiago del Cile durante le proteste dello scorso Ottobre: «Non vogliamo il ritorno alla normalità perché quella normalità era il problema»), ma un nuovo prontuario di stimoli per affrontare qualcosa che se non è completamente nuovo, sarà inevitabilmente diverso. Poi perché uno dei problemi della produzione culturale degli ultimi vent’anni (teniamoci stretti) è stato proprio quello di essersi allineata alla produzione di ‘certezze’ e, quindi, di aver appiattito qualsivoglia fermento e dibattito.

    Non c’è mai stato quel sogno di emancipazione borghese della cultura come strumento di liberazione degli oppressi

    È un problema che ci portiamo dietro come una scoria di cui siamo inconsapevoli. Quello che da sempre gli ottimismi — o i politici in campagna elettorale — indicano come antidoto a qualsiasi bruttura (dal populismo al fascismo, dall’ignoranza al consumismo di massa), e cioè la cultura, è diventata man mano un radicato giardino della consolazione di chi già ne aveva accesso e produttore incessante (e sempre più isterico) di bias di conferma ad uso e consumo di chi ne faceva parte.

    Una sorta di rassegnazione all’inevitabilismo — parente stretto di quel “realismo capitalista” la cui logica ci aiuta a interpretare l’esistente oggi come non mai — frutto di processi maturati lungo anni che hanno portato a un mix letale di una cronica mancanza di soldi e una sempre più marginale capacità di incidere nel reale e nel quotidiano delle persone.

    Per onestà dobbiamo dire che non c’è mai stato quel sogno di emancipazione borghese della cultura come strumento di liberazione degli oppressi, ma anche quel piccolo spazio di influenza che questa poteva esercitare presso alcuni circoli (o bolle allargate, se vogliamo usare un vocabolario più contemporaneo) è ormai morto.

    Questo mix letale ha generato una produzione seriale di cultura consolatoria che anche nel suo tentativo alto si limitava a costruire scatole di certezze pronte all’uso. Un passo precedente a quella dinamica social che identifichiamo nel narcisismo di chi predica ai convertiti (l’intellettuale trasformato in influencer di nessuno), un passo ancora precedente rispetto alla trasformazione di Facebook in spazio in cui riversare il flusso di brainstorming secondo una logica sempre più simile allo spettacolo e all’intrattenimento che non alla speculazione e alla riflessione.

    Si tratta quindi di un meccanismo ormai radicato e ormai visto come normale in cui tutta la produzione culturale diventa semmai una produzione di certezze a buon mercato, riconoscibili, vendibili e, si spera, remunerative anche per chi le scrive. Da qui un ulteriore problema, quello della “conservazione” e della curatela: sempre più lo spazio dell’Evento diventa il terreno naturale della vita dell’opera, del testo, che giustamente non può vivere in se stesso.

    L’Evento negli anni ha smesso — se lo è mai stato — di essere un generatore di senso ulteriore

    Quell’Evento però negli anni ha smesso — se lo è mai stato — di essere un generatore di senso ulteriore per cui l’incontro tra varie parti produce un risultato inaspettato, ma diventa solo ed esclusivamente la vetrina attraverso cui la cultura e il lavoro intellettuale conferma il suo ruolo ‘esclusivo’ e fuori dalla società. Come se da un certo punto di vista si sia rinunciato a intervenire proprio per un insieme di mancanza di voglia e di rassegnazione dell’“a nessuno importa”.

    Veniamo poi all’idea di dopo. È vero, questo è il momento in cui una persona che lavora con il suo pensiero deve studiare e interrogarsi su quello che sta succedendo, ma più che per dare certezze e delineare lo scenario del dopo, per tornare a mettere al centro l’azione politica del pensiero e la sua capacità di incidere.

    Proprio su queste pagine Federico Nejrotti ha invitato qualche giorno fa a «negare, ovunque sia possibile, questa richiesta di proposte per il futuro perché è importante oggi esercitare un’assenza chiara e rumorosa: siamo in crisi da ben prima della pandemia, e uscire da questo momento per tornare a quello precedente non sortirà alcun effetto, se non renderci ancora più affaticati e logorati. Invece, dobbiamo entrare in contatto con il dolore di queste settimane e renderlo definitivamente parte di uno spirito del tempo che sarà fondativo del futuro: dobbiamo marchiarci a fuoco con le nostre emozioni.»

    La proposta per il futuro come nuovo inevitabilismo rischia di tradursi in uno sterile aggiustamento di qualcosa non porterà mai a nessun cambiamento

    È un sacrosanto richiamo all’umiltà di un ruolo che di certezze di arroganza — la proposta per il futuro come nuovo inevitabilismo che rischia di tradursi in uno sterile aggiustamento di qualcosa che c’era già prima e che quindi non porterà mai a nessun cambiamento di sorta.

    Nessuno sa cosa sarà il dopo, ed è inutile lanciarsi in una speculazione fine a se stessa che potrebbe produrre solo rumore inutile e testi nati morti. Questo non è il momento delle risposte, è il momento delle domande. Non è solo un payoff facile, ma uno stato mentale che dobbiamo fare nostro, anche questo, per uscire dall’inevitabilismo della cultura della consolazione (anche quella che vuole “proporre il futuro”), dalla messa a (scarso) profitto di quel poco di cultura che abbiamo dentro il giardino della conservazione tutta uguale a se stessa e ormai nemmeno più buona a fare da colonna sonora alla definitiva evaporazione del concetto novecentesco di borghesia, e provare a costruire un pensiero e una cultura che sia sinceramente alternativo e ambizioso, che non renda cioè vano il periodo che stiamo vivendo e l’occasione di ripensare autenticamente a tutto, che si sganci dalle logiche esistenti di riconoscibilità e soddisfazione immediata, tendenza all’omologazione (anche “contromologazione”), allineamento a trend esistenti altrove e abbandono alla consolazione come forma di riconoscibilità reciproca.

    Note