Da poeti a impiegati sottopagati: è questo il destino dei teatranti?

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    Partiamo da un esempio, piuttosto eclatante se ne forziamo appena il valore simbolico. Il maggior teatro italiano, il più importante, famoso in tutto il mondo, ossia il Piccolo Teatro di Milano, è sostanzialmente diretto da un pensionato. Senza nulla togliere all’inossidabile forza e alla straordinaria capacità manageriale di Sergio Escobar, alla guida del Piccolo dal 1998, resta il fatto che, seppure raggiunto il limite della pensione, il direttore sia ancora saldamente al suo posto.

    Va benissimo, per carità, visti i risultati dell’ottimo lavoro che ha fatto in questi decenni, ma vale forse la pena chiedersi che tipo di “modello”, o semplicemente di messaggio, questo “tipo atipico” di lavoro rappresenti.

    Se un giovane, chissà, sognasse di diventare, un giorno, direttore del Piccolo, che speranze avrebbe? Da un punto di vista “generazionale”, dovrà aspettare di essere a sua volta in pensione? E dal punto di vista economico, cosa comporta quel “modello”?

    Escobar, correttamente, non percepisce compenso per il suo incarico: di fatto però, questo potrebbe far pensare che il lavoro nel teatro sia ormai appannaggio di chi se lo può, semplicemente, permettere. Non rischia di legittimare il dubbio che ci sia, insomma, una selezione a base di censo? È corretto? È accettabile?

    Come è a molti tristemente noto, infatti, per poter lavorare in teatro spesso non si è pagati. In tanti, per pura passione, vanno in scena sottopagati, magari in nero, o proprio non retribuiti. Capita, anzi, che gli artisti siano costretti a pagare per lavorare: affitto sala, spese promozionali, tecnica, e molto altro. Non da ultimo, avvertiamo un curioso fenomeno di “sfruttamento del lavoro giovanile”, con studenti-diplomandi di scuole e accademie che già lavorano con contratti di formazione pur in circuiti ufficiali.

    Condizioni capestro, dunque, ancora attanagliano il settore. E mentre i lavoratori incaricati dei servizi di sicurezza e di accoglienza dell’Auditorium di Roma sono in agitazioni (a fronte di una proposta di paga a 3,9eu l’ora) qualcosa, almeno pare, si sta muovendo.

    Se n’è parlato a lungo in un convegno, a fine marzo, del ciclo Buone Pratiche, organizzato a Milano da Oliviero Ponte di Pino e Mimma Gallina dell’associazione “ateatro”: oggetto della discussione proprio il lavoro.

    Racconta Mimma Gallina: «Difficile parlare di lavoro nel settore dello spettacolo dal vivo. A Buone Pratiche, in primo luogo abbiamo pensato fosse necessario inquadrare i problemi del lavoro nello spettacolo in una riflessione più generale e globale sul lavoro cognitivo».

    E per chiarire il contesto, Gallina cita il sociologo Maurizio Busacca – che ha fatto uno degli interventi introduttivi – e il libro “Lavoro totale” (edito proprio da “cheFare”).

    Non si tratta, afferma Busacca, «di demonizzare le forme di sfruttamento del lavoro cognitivo, quanto piuttosto di riconoscere le ambiguità e le contraddizioni di un movimento ambivalente: il lavoro cognitivo come spazio affettivo e relazionale di affermazione personale e al tempo stesso come spazio di auto-sfruttamento di intere vite».

    Per Mimma Gallina la questione lavoro è dunque ampia, e complessa: «per esempio si tratta di capire quanto sia estesa la dimensione dello sfruttamento e autosfruttamento, a partire dal mancato pagamento delle “prove”, che si intreccia con la dimensione dell’autoimprenditorialità, cui sono stati spinti molti giovani operatori. La scelta di fare compagnia (che c’è sempre stata, alimentata spesso da grandi convinzioni, in tutto il secondo dopo guerra del Novecento), negli ultimi dieci anni è diventata quasi obbligata: perseguita e incentivata con incoscienza, la mitizzazione dell’auto-imprenditorialità è stata per molti veri un equivoco, una trappola che ha spinto un’intera generazione fuori dalla dimensione professionistica».

    È un dato di fatto facilmente riscontrabile: basta chiedere a chiunque si barcameni in questo lavoro a dir poco “irregolare” per avere conferma. La questione non è, però, solo economico-amministrativa, piuttosto anche culturale. Il mestiere del “teatro” non è considerato tale nell’immaginario collettivo. È un gap che si conferma, ogni volta, nel famoso adagio: “sì, ma che lavoro fai?” che ogni giovane artista sente domandarsi ogni qual volta afferma il suo essere attore o attrice.

    «Vivere del lavoro di attore oggi, per un giovane – dice ancora Mimma Gallina – è quasi impossibile (più fattibile per organizzatori e tecnici), ma anche per attori già affermati può essere molto difficile: per la contrazione del mercato, delle risorse pubbliche e delle modalità di gestire entrambi, certo, ma forse anche per l’ evoluzione della funzione del teatro nello spazio della cultura». Allora, conclude Gallina «L’importante è sostenere e difendere le specificità del lavoro nello spettacolo, che richiede tempi di studio individuale, ricerca, formazione continua: la prospettiva dovrebbe essere quella degli “ammortizzatori di continuità”, come sostiene la CGIL. Ma sembra un’utopia: chi sa se ci arriveremo mai?».

    Intanto, al convegno Buone Pratiche di Milano, è stato annunciato, da Emanuela Bizi per i sindacati e Angelo Pastore per l’AGIS, anche l’accordo raggiunto tra le parti per il rinnovo del contratto Nazionale di lavoro, in discussione da quasi due anni.

    Secondo Carlotta Viscovo, attrice e Coordinatrice Nazionale della Sezione Attori della SLC-CGIL (a titolo totalmente gratuito: ci tiene a ricordarlo), il contratto che interessa lavoratori artistici e tecnici/ compagnie, con teatri di produzione, e quello dei dipendenti, impiegati e operai dei Teatri Stabili e teatri di tradizione, è una boccata d’ossigeno. «Le parti, Agis e Sindacati – spiega Viscovo – si dichiarano entrambe insoddisfatte e, si dice, che quando è così significa che si è fatto paradossalmente un buon lavoro! Comunque, grazie alla raccolta di numerosi contratti individuali, provenienti dalle più svariate produzioni d’Italia, dalle più importanti, alle realtà più piccole, abbiamo potuto dimostrare alla controparte come, ormai, il vecchio Contratto Nazionale non fosse più rispettato: forfait prove, con il conseguente mancato versamento dei contributi per tutte le giornate lavorate, riposi non pagati, contratti a chiamata, paghe corrisposte sotto forma di “diritti di immagine” e molto altro».

    Carlotta Viscovo, a conferma di quanto detto, ricorda anche i dati raccolti nella articolata indagine “Vita da Artisti”, la ricerca sullo spettacolo dal vivo creata e promossa dal Sindacato SLC-CGIL con la Fondazione Di Vittorio, riguardante gli anni 2014 e 2015, dalle quale sono stati elaborati dati reali su un campione di 2090 rispondenti: «Se da un lato vi è un esplicito riferimento al lavoro nero “tout court” (il 35,7% degli attori dichiara di lavorare spesso o sempre in nero) dall’altro vi sono modalità diversificate con cui il lavoro non è regolamentato. Ad esempio, il 40,8% dichiara di svolgere spesso o sempre mansioni non previste dal contratto/commessa; il 60,6% dichiara di svolgere spesso o sempre ore di lavoro in più non retribuite rispetto a quelle concordate; il 69,8% svolge prove non retribuite. Considerando il 2015, il 43,9% dichiara di non avere avuto riconosciuto nei contratti il numero di giornate effettivamente lavorate».

    Una novità introdotta dal Contratto Nazionale è l’Osservatorio Nazionale, che si occuperà di controllare che davvero il CCNL venga rispettato: «Le produzioni – conclude Viscovo – saranno tenute a inviare i contratti individuali che stipuleranno, ma inizialmente ci sarà bisogno di un grosso aiuto da parte dei lavoratori, affinché davvero funzioni. Per questo è necessario che gli scritturati siano informati al meglio sulle nuove regole e, per aiutare ciò, il sindacato si occuperà di creare occasioni di “formazione” nelle varie città d’Italia (il primo appuntamento è previsto il 16 aprile a Milano)».

    Una ricaduta sul lavoro avranno sicuramente anche i Decreti Attuativi del Codice dello Spettacolo, approvato alla fine della scorsa legislatura: su questo tema le preoccupazioni sono piuttosto diffuse, non solo per l’attuale situazione politica (il “codice” è una legge delega al governo, e restiamo in attesa di capire che governo sarà), ma per la vastità della materia che si intende disciplinare, e per la esiguità delle risorse.

    La questione risorse, ovviamente non è indifferente.

    Il Fus, il Fondo Unico dello Spettacolo che foraggia il comparto, è davvero esiguo. Da tempo sosteniamo – del tutto inascoltati, va da sé – la necessità di un sostanziale adeguamento del Fondo, se non addirittura il suo raddoppiamento: ipotesi remota, quasi folle, che pure darebbe respiro, e risposte, a tutti coloro che lavorano nel settore dell’Opera, della danza, del teatro, del circo, della musica…

    E se lo Stato nicchia, come al solito piangendo miseria, altrettanto fanno alcune Regioni, interlocutori diretti per lo spettacolo dal vivo, al pari del Governo nazionale.

    Le politiche regionali, si sa, son mutevoli, cambiano di giunta in giunta. È quanto accade, ad esempio in Puglia. Un recente comunicato dell’Associazione CRESCO, che raccoglie numerose strutture produttive per lo più giovani di tutta Italia, ha ricordato come «La Puglia è una delle Regioni riconosciute tra le più virtuose degli ultimi anni nel campo delle Politiche Culturali. Il dato appare riconfermato dalle ultime notizie che arrivano dall’Assessorato all’industria turistica e culturale della Regione Puglia, che dichiara un “investimento complessivo nel triennio 2017-2019 che supera i 75 milioni di euro, pari a oltre 25 milioni di euro l’anno”.

    Il quadro si prospetta dei migliori, e sicuramente poche sono le Regioni italiane che vantano lo stesso investimento in Cultura. Eppure, nonostante queste premesse, le condizioni in cui versano le imprese dello spettacolo dal vivo pugliesi destinatarie di parte di queste risorse sono al limite della sopravvivenza. L’ambiziosa sfida della Regione di impostare la programmazione su base triennale, “al fine di mettere l’industria culturale e creativa nelle condizioni di poter programmare i propri investimenti e, dunque, lavorare con maggiore tranquillità su un orizzonte pluriennale” si trova a fare i conti con una tempistica fortemente dilatata anche rispetto alle previsioni dell’Amministrazione stessa».

    Che vuol dire? Tradotto in soldoni significa che «le imprese, che hanno avviato e sostenuto interamente da gennaio 2017 le attività descritte nel progetto triennale, si trovano nella condizione di non poter assicurare diritti e retribuzioni ai lavoratori per assenza di liquidità e di non poter garantire con continuità i servizi offerti ai cittadini, compromettendo proprio quell’ “orizzonte pluriennale” che ha guidato l’investimento triennale della Regione. In ultimo, l’assenza di liquidità nelle casse delle imprese comporta l’impossibilità di versare regolarmente i contributi. Le conseguenze potrebbero essere paradossali, fino a rendere addirittura impossibile, per le imprese assegnatarie, beneficiare dello stesso finanziamento regionale che finora hanno anticipato e che verrà erogato solo dietro verifica della regolarità del DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva)».

    Problemi simili anche in Lazio: i membri di Cresco hanno scritto, lo scorso marzo, al ri-eletto presidente Zingaretti una missiva accorata, dove si legge, tra l’altro che «Il Lazio è un’area dove hanno sede moltissime organizzazioni culturali e tanti artisti. Il settore riconosce al Presidente Zingaretti la capacità di aver portato a termine una legge sullo spettacolo dal vivo che si aspettava da anni. Quella legge, però, non è adeguatamente finanziata, perché, rispetto ad altre regioni, sono pochissime le economie a valere sul Fondo Unico per lo Spettacolo Regionale. Così come non è stato risolto dalla giunta l’annoso problema del ritardo dei pagamenti: la Regione Lazio deve ancora liquidare al settore buona parte degli investimenti del 2016».

    Se questo accade in Regioni “virtuose” come la Puglia o il Lazio, figuriamoci quel che può capitare in altre aree meno attente allo spettacolo dal vivo.

    Ma, per parlare di lavoro in teatro, resta ancora un tema da affrontare: quello dei Bandi. Il bando sparso ovunque, declinato in ogni ordine e grado del mestiere del teatro, il bando che implica il “progetto” sistematico, il bando che succhia il 90% delle energie che un gruppo dovrebbe mettere nella creazione, il bando che determina scelte e direzioni artistiche, il bando a scadenza, al ribasso, allo sfruttamento.

    Va bene la necessaria Trasparenza, ma il bando è ormai la soluzione pseudo-democratica per non scegliere (o per giustificare certe scelte) che spesso si coniuga con difficoltà con un processo di creazione artistica. Non sono “appalti e forniture” qualsiasi, quelle degli artisti: sono creazioni, spettacoli, invenzioni che non si possono valutare solo al “miglior offerente” o in base ad algoritmi economici. La vita di un lavoratore dello spettacolo dipende sempre di più, invece, dalla risposta e dalla vittoria dei bandi: i tempi di produzione si devono allineare alle scadenze, ravvicinate o improvvise, con conseguente (e frequente) abbassamento dei livelli qualitativi. Come ricordato da Cresco, il teatro vive spesso di tempi e modalità diverse da quelli delle Amministrazioni, almeno quel teatro “di ricerca” fondamentale per arricchire l’orizzonte culturale nazionale. E invece assistiamo, attoniti, a un allineamento della creatività alla burocrazia. Da poeti a impiegati, per giunta sottopagati: è questo il destino dei teatranti?


    Immagine di copertina: Foto d’archivio, Franca Rame e Dario Fo

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