È tornato il fascismo! Il fascismo come fantasma psichico

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    È tornato il fascismo. No, non parlo del governo in carica: mi piacerebbe si trovasse un nome diverso per le aspirazioni totalitarie della banda gialloverde (e del suo elettorato). Per il momento, il fascismo è tornato in libreria. Sugli scaffali delle librerie italiane proliferano titoli recentissimi che evocano il ventennio. Dalle Istruzioni per diventare fascisti di Michela Murgia a M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati. Da Il romanzo di Benito di Pasquale Chessa a Mussolini, il primo fascista di Hans Woller, passando per la riproposizione di Il fascismo eterno di Umberto Eco e degli scritti di Pasolini sul fascismo della società dei consumi, col titolo Il fascismo degli antifascisti.

    Ero appena stato a Londra, per una conferenza tenuta al Warburg Institute intitolata Mnemonic Waves, “ondate mnemoniche”, quando in una libreria italiana ho registrato questa ondata di memoria del fascismo. Il Warburg Institute nasce a Londra nel 1933 per sottrarre l’eredità di Aby Warburg alla Germania nazista, e diventa un punto di approdo per la diaspora degli studiosi tedeschi e austriaci in fuga dalla fascistizzazione dell’Europa continentale. È un centro di ricerca sulla memoria culturale, ma anche in sé un luogo che reifica la memoria di cosa è successo nel cuore del Novecento. Ce n’era abbastanza perché la mia mente facesse cortocircuito, e fosse assalita dal sovrapporsi di tre ondate mnemoniche.

    Prima ondata: Roma, 11 febbraio 1929

    Nel febbraio 1929, mentre Mussolini e Papa Pio XI firmano i Patti Lateranensi, Aby Warburg si trova a Roma. Warburg è uno storico dell’arte eterodosso, ed è convinto che le immagini siano forze viventi, che non solo rappresentano ma contengono e muovono energie psichiche ed emotive. Incorporati nelle immagini, una serie di archetipi dell’esperienza umana trasmigrano attraverso la storia e rivivono ogni volta che le loro formule espressive vengono riutilizzate. La simbologia del sontuoso cerimoniale che sancisce il patto tra Stato e Chiesa, e in particolare la processione eucaristica culminante a San Pietro, evoca in Warburg le immagini antiche dei rituali sacrificali, dalle quali emanano forze arcaiche, e la riattivazione di antiche superstizioni, non ultima quella antisemita. L’intuizione di Warburg sembra confermata: le immagini contengono fantasmi psichici, e ogni volta che un’immagine ricompare quei fantasmi si riversano sulla realtà. Agli occhi dello studioso il fascismo si manifesta come la reincarnazione di una violenza arcaica che le immagini sembravano aver bloccato. E che invece sta per rimettersi in moto.

    Seconda ondata: Vienna, 1936

    Ernst H. Gombrich è uno degli studiosi che a partire dalle idee di Warburg ha rivoluzionato il nostro modo di guardare le immagini. Nel 1938 lascia l’Austria e si rifugia a Londra, ma nel 1936 si trova ancora a Vienna e assiste sgomento all’infiltrazione nazista. Insieme allo psicologo freudiano Ernst Kris, decide di organizzare una mostra dell’artista francese Honoré Daumier, il Michelangelo della caricatura. Nella Francia dell’Ottocento Daumier ha contrastato con la sua satira visiva la restaurazione monarchica di Napoleone III e la reazione borghese alle spinte di rinnovamento sociale. Metterlo in mostra a Vienna è un modo per contrastare i filonazisti e schierarsi dalla parte della libertà “repubblicana”. La caricatura è assunta come uno strumento di lotta politica progressista. Ma qualcosa va storto: i due studiosi sono sopraffatti dall’inquietante sovrapporsi e confondersi delle caricature democratiche di Daumier e delle caricature della propaganda nazista, a cominciare da quelle antisemite.

    La caricatura non è lo strumento di critica e razionale smascheramento del potere che avevano immaginato: sollecita risposte emotive e irrazionali, e può servire altrettanto efficacemente scopi opposti. Con la sua promessa di rivelare una verità nascosta, può mistificare e ingannare. Come se non bastasse, le immagini deformate che volevano evocare il negativo per esorcizzarlo sembrano prendere vita e invadere la realtà. Daumier aveva inventato un personaggio, Ratapoil, per satirizzare il tipico propagandista monarchico che si aggirava per le strade di Parigi. Ora Ratapoil si aggira per le strade di Vienna; la sua fisionomia è riconoscibile ovunque, ed ha le sembianze del propagandista nazista, del fiancheggiatore filotedesco. Warburg aveva ragione: le immagini contengono fantasmi. E i fantasmi influenzano la realtà in modi non sempre gestibili e controllabili razionalmente.

    Terza ondata: Roma, estate 2017

    Il sepolcro di Mussolini piove dal cielo al centro di Roma, in una mattinata afosa, non lontano da un gruppo di bambini che giocano a pallone. Il Duce ne esce illeso e redivivo, convinto di potersi riprendere l’Italia. Non si sbaglia di molto: vezzeggiato dal sistema dei media drogato di audience, favorito dalla memoria corta degli italiani e dal loro bisogno di idee chiare nell’età dell’incertezza, Mussolini torna a dominare la scena pubblica dell’Italia contemporanea. Chi lo manda in onda lo presenta come un comico, ma chi lo ascolta lo prende sul serio, e le idee portanti del fascismo tornano a sembrare non solo plausibili, ma auspicabili.

    È quanto accade nel film Sono tornato, diretto da Luca Miniero e scritto da Nicola Guaglianone, interpretato da Massimo Popolizio, nel ruolo di Mussolini, e da Frank Matano, suo ingenuo scudiero. Nella sala cinematografica in cui io ho visto il film, un gruppo di giovanissimi adolescenti, tra i 12 e i 15 anni, inneggiava rumorosamente al Duce, rideva e approvava le sue affermazioni politicamente scorrette, completamente immune all’intento critico e satirico del film. La caricatura di Mussolini, pensata per ridicolizzare il fascismo e forse alludere alla attuale confusione tra comici e leader politici autoritari, torna a vivere, così fuori come dentro il film, innescando una reazione opposta a quella prevista dai suoi creatori. Il fantasma ancora una volta si incarna e irradia energie divergenti rispetto a quelle razionali di chi lo ha evocato.

    È proprio questo inquietante meccanismo a tenere insieme le tre ondate mnemoniche: le immagini del passato contengono energie che eccedono il loro impiego intenzionale. I significati culturali e le risposte emotive e psichiche contenute nelle immagini si ribellano all’uso che si vuole farne, irrompono nella realtà e sembrano quasi sopraffarla con effetti imprevisti e incontrollabili. Come in una seduta spiritica impazzita, il passato si installa nel presente dicendo qualcosa di diverso da ciò che vorremmo fargli dire.

    E il fenomeno diventa particolarmente evidente quando le rievocazioni riguardano il fascismo, cadavere insepolto continuamente rianimato nel contesto culturale e politico dell’Italia repubblicana per praticare una sorta di ventriloquio. Come conferma l’ultima ondata editoriale, si parla di attualità attraverso il fascismo. Seppure in modi e con metodi diversi, al cadavere viene chiesto di misurare il presente, o di metterlo in prospettiva.

    Lo studio di Hans Woller è un’opera storiografica che riconduce la diffrazione e diffusione mondiale del fascismo alla figura del suo fondatore. È un tentativo di risituare storicamente un termine che ha perso la sua connotazione storica. E quindi è un’operazione opposta a quella, celebre, di Eco, che afferma l’esistenza di un ur-fascismo, un insieme di posture psicologiche “eterne” che costituiscono le linee-guida di ogni politica reazionaria. Ma anche quello di Pasolini è un fascismo a-storico: per Pasolini, anzi, il fascismo implicito della società dei consumi è perfino più pervasivo e totalitario del fascismo mussoliniano.

    Murgia e Scurati fanno un passo ulteriore sulla strada del ventriloquio, in quanto assumono il punto di vista del fascismo. Lo fanno parlare direttamente, gli danno la parola. Alzando così la temperatura emotiva della seduta spiritica. Le Istruzioni per diventare fascisti sono un paradossale trattatello per la formazione dell’aspirante fascista. Un manuale di auto-aiuto che suggerisce come scrollarsi di dosso le ideologie democratiche e liberare il fascista interiore che è in ognuno di noi. Con tanto di fascistometro in appendice, un test che misura, a seconda del grado di adesione a una serie di affermazioni, il livello di fascismo raggiunto. Da questa lista di postulati, così come dal resto del pamphlet, si capisce che il fascismo di Murgia è attuale, le sue sembianze sono quelle delle politiche populiste dell’Italia di oggi: il passato parla per il presente.

    M. Il figlio del secolo, invece, è un romanzo ambizioso e fluviale, che ricostruisce l’ascesa del fascismo e del suo fondatore, Mussolini, dalle origini rivoluzionarie alla presa definitiva del potere (con la promessa di esaurire l’intera parabola del fascismo in due altri volumi di prossima pubblicazione). Scurati ricostruisce minuziosamente (anche se la sua precisione storica e filologica è stata aspramente criticata) la cronaca quasi quotidiana della edificazione del regime, seguendo passo dopo passo il montare della frustrazione nel dopoguerra, l’esasperarsi dei conflitti sociali, il dilagare della violenza e la capacità fascista di alimentare il caos per poi dominarlo. Lo fa in un romanzo che è stato ingegnosamente definito “balzachiano”, in quanto il prisma attraverso il quale guardiamo gli eventi è la sfrenata, cinica e superomistica ambizione di Mussolini. In questo senso, il fascismo è raccontato dall’interno, giocando con il fascino torbido del punto di vista scorretto. Da questo libro scritto con la rapidità sincopata di un filmato d’epoca, a volte (involontariamente?) scattante come una comica cinematografica delle origini, esce il groviglio di emozioni che ha reso possibile l’affermarsi del fascismo, le energie psichiche morbose e contraddittorie alle quali Mussolini ha dato una forma. Naturalmente, anche qui il passato gioca di sponda col presente: la storia è anche quella di un popolo che, insofferente dello status quo, ha distrutto con ebbra irresponsabilità le proprie istituzioni democratiche e si è dato in ostaggio a un “movimento” che prometteva di cambiare tutto, guidato da uno scaltro e mediaticamente efficace “capitano”.

    Murgia e Scurati pensano il ventriloquio come critica e come esorcismo. Per entrambi, però, le immagini evocate sembrano eccedere l’intenzione critica, scavalcarla ed eluderla. Il fascismo davvero torna a parlare in questi due libri, e a riversare sulla realtà la sua forza emotiva. Non perché qualcuno possa fraintendere il contenuto intenzionale: il libretto di Murgia è un compiaciuto gioco intellettuale che parla a un gruppo di sodali consapevoli, in grado di leggere il paradosso, e non rischia nemmeno di sfiorare le convinzioni dei “nuovi fascisti”.

    E il romanzo di Scurati non è certo un elogio del fascismo, per quanto cammini sul crinale della fascinazione del “male”, e sia reso a volte ambiguo dalle citate forzature storiche e da una gestione stilistica non sempre salda, in cui la scrittura a tratti kitsch sembra quasi contagiata dalla truculenza dei fatti narrati.

    Eppure, proprio come nelle ondate mnemoniche descritte precedentemente, nelle immagini evocate da questi testi sembra avvenire quello che avviene nelle immagini studiate da Warburg secondo l’interpretazione di Didi-Huberman: una inversione dinamica. Ovvero, il manifestarsi simultaneo di tensioni e risposte emotive divergenti e perfino opposte. Alcuni moduli espressivi, riemergendo in contesti culturali e visivi diversi, possono rappresentare emozioni in conflitto con quelle originarie.

    Ma nella sua stratificazione, l’immagine contiene la memoria di tutte le sue incarnazioni. Allo stesso modo, l’evocazione del fascismo in questi libri contiene, insieme all’antifascismo, anche il fascismo stesso: l’elemento critico e decostruttivo convive con un elemento che amplifica il senso della minaccia, ne conferma e trasmette la presenza. La metafora fascista descrive il presente convocando forze psichiche che non restano confinate nell’intenzione critica. L’esorcismo funziona a metà, e qualcosa del fantasma resta a infestare la realtà.

    Questo accade non tanto perché i testi possano alimentare la propaganda “fascista”, ma perché mostrano quanto la cornice interpretativa del fascismo sia inadeguata. Come nel caso delle caricature di Daumier, utilizzano categorie politiche del passato per alludere a una situazione presente che si rivela però esorbitante. Il fantasma del fascismo diventa un termine di paragone ingombrante che finisce col nascondere più di quanto rivela.

    Entrambi i testi – ma particolarmente quello di Murgia – pagano la loro impostazione “pasoliniana”: l’utilizzo cioè trans-storico di una categoria storica, e la costruzione di un “fascismo immaginario”, come lo ha definito la storica Alessandra Tarquini, che appiattisce differenze e distinzioni. Perché se è vero che esistono preoccupanti rigurgiti neofascisti, con una loro precisa fisionomia ideologica e storica che richiede accurate distinzioni concettuali, è altrettanto evidente la palese insufficienza analitica del fascismo come categoria interpretativa del presente, delle sue tensioni, delle sue contraddizioni, dei suoi slittamenti paradigmatici.

    Del fascismo si vedono ricomparire semmai gli ingredienti di base, assemblati però in modi inediti e nebulosi, fatti agire in un contesto storico e politico in vertiginosa trasformazione, contaminati con elementi di innovazione delle tecnologie del controllo che hanno portato a parlare di biofascismo.

    Sembra davvero poco utile continuare a chiamare fascismo tutto ciò che non riusciamo a comprendere e a mettere fuoco, riducendo così al noto il ribellarsi della realtà alle categorie intellettuali novecentesche: e non è un caso che nel testo di Murgia affiori spesso la colpevolizzazione dei media digitali e dei social network come strutturalmente predisposti a veicolare messaggi e mentalità fascisti. Al di là della provocazione, il fascistometro resta una grave banalizzazione, una sociologia del luogo comune (subito contrastata da una banalizzazione uguale e contraria). E a poco vale difenderlo evocando un analogo esperimento di Adorno, concepito con ben altri strumenti concettuali e soprattutto quando la ferita della barbarie nazifascista era ancora sanguinante.

    Nel contesto democratico, la periodica esposizione del cadavere insepolto del fascismo non solo perde progressivamente la sua effettiva presa critica sul presente, ma assume un significato sempre più ambiguo e controverso. Come dimostra il lavoro di un esperto di resurrezioni del fascismo, Pasquale Chessa, che nel suo Romanzo di Benito analizza proprio il significato sociologico del continuo, inesausto ritornare della figura di Mussolini nella storia e nella cronaca dell’Italia repubblicana. Chessa analizza la riemersione periodica di diari e carteggi inediti, di memoriali e confessioni del Duce, che determinano il proliferare di storie segrete, ricostruzioni alternative dei suoi ultimi giorni, contro-verità sulla sua morte. Tutto rigorosamente falso, e proprio per questo tutto verosimile nell’immaginario collettivo: come accade per la moneta, la narrazione cattiva scaccia la buona, e le versioni contrastanti sovrascrivono la versione ufficiale contribuendo alla costruzione di un mito postumo che tende ad addolcire e a familiarizzare la figura di Mussolini.

    In questo sorprendente e sterminato corpus di “mussolinerie”, Mussolini generalmente prende la parola: parla in prima persona dai suoi falsi diari, o nel falso carteggio con Churchill, o nel clamoroso pseudo-testamento scritto da Montanelli e intitolato Il buonuomo Mussolini, pubblicato semiclandestinamente nel 1947 ma riproposto in una sede editoriale prestigiosa e con grande successo di pubblico nel 1975. Il titolo parla da solo di un programma di umanizzazione, di un’apologia subliminale che mentre scagiona Mussolini dalle sue colpe più gravi, solleva un’intera popolazione dal peso della responsabilità che le deriva dalla memoria del consenso e dell’adesione. Non solo siamo stati tutti fascisti, ma, come Mussolini, siamo tutti brave persone, vittime delle circostanze, dei corrotti, degli stranieri, degli altri.

    In ultima analisi, la riapparizione del fantasma del fascismo va interpretata sicuramente come un sintomo: segnala l’esistenza di tensioni psichiche, l’emergenza di pulsioni regressive che trovano una sempre più immediata traduzione nelle politiche attuali. Il romanzo di Scurati ha il merito di mostrare che l’Italia che si preparava ad accogliere il fascismo era un caotico crogiolo di emozioni violente col quale molti incauti apprendisti stregoni, non solo fascisti, hanno giocato fino a farlo esplodere.

    Il paragone trans-storico rende evidente che siamo in un momento in cui un groviglio di emozioni analoghe preme sulla scena pubblica, e trova a gestirlo apprendisti stregoni non meno spregiudicati di quelli “storici”. Per questo l’inquietudine aumenta di fronte al sospetto che, vittime della compulsione al rincaro sensazionalistico necessaria a ottenere visibilità mediatica, anche gli e le intellettuali apparentemente più intransigenti e radicali finiscano col confondersi nella schiera degli apprendisti stregoni.

    Quando Murgia spoglia l’individuo “civile” delle sue ipocrisie buoniste, della sua fragile armatura democratica, per lasciarlo nudo con i suoi impulsi bestiali, sembra quasi affermare l’assoluta naturalezza del fascismo: e la tensione della denuncia sembra dissolversi nella pura enunciazione di una potenza incontrastabile. Un brivido simile a quello provato da Warburg a Roma nel 1929 corre lungo la schiena quando leggiamo le ultime righe del libro:

    «Sarà però anche la nostra vittoria: avremo riportato sulla bocca di tutti una parola che pochi decenni prima era associata ai morti e al passato, a una realtà creduta già scomparsa. Noi non scompariamo. Noi stiamo. E alla fine, nella storia come nella geografia, vince chi resta».


    Immagine di copertina da: Views from Rome

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