Fare un film e dargli un pubblico

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    Fare un film è un’impresa mastodontica. Non solo per i costi di realizzazione e il numero di persone coinvolte, ma anche per l’aspettativa di vita del film. Se la vita di un cortometraggio di relativo successo varia dai 5 ai 12 mesi, quella di un lungo può durare addirittura anni. I fattori in gioco sono praticamente infiniti: non solo l’intricato sistema di festival internazionali con le loro richieste di premiere ed esclusiva, ma anche la spinosa questione della distribuzione, ora che a complicare lo scenario arriva anche lo “straight to VOD”, che per alcuni film è una condanna a morte (ricordate la fallimentare biopic di Abel Ferrara su Strauss Kahn? Ecco) mentre per altri è una grande occasione.

    Ma da dove iniziare? Come fare se non si ha abbastanza capitale di partenza (cioè praticamente sempre) e se non c’è un’accademia di cinema a fare da base per l’opera prima? La condizioni che determinano lo stadio di pre-produzione sono anche in questo caso complicate e variano molto a seconda dal luogo di ripresa e sviluppo del progetto. A semplificare la vita in questo caso è arrivata una piattaforma costola di Cineuropa (che pubblica notizie di settore sull’industria – un po’ una Deadline Hollywood), che fornisce un utilissimo punto di partenza. OLFFI è un database ragionato a partire dal paese in cui si vuole realizzare un progetto cinematografico o televisivo. A differenza di altre piattaforme che, a pagamento, diffondono informazioni finanziarie dirette a settori specifici (vedi artnet, con la compravendita d’arte contemporanea), OLFFI rilascia gratuitamente dati aggiornati in tempo reale, organizzati secondo le variabili preferite. Se state cercando enti che supportano solamente la fase di sviluppo di una sceneggiatura, a livello regionale (e non nazionale!), tenendo in considerazione i meccanismi del tax-credit, per un progetto d’animazione pensato per il web – per dirne una complicata – OLFFI vi dice dove e quando andare a cercare investimenti. Questo senza contare le sue preziosissime liste di film commission o trattati transnazionali di coproduzione. Praticamente è il burocratese-finanziario dell’industria cinematografica fatto semplice.

    La natura open-source di OLFFI ricorda un altro modo per finanziare progetti audiovisivi, il crowdfunding. L’errore comune è pensare che basti lanciare una campagna su Kickstarter per guardare il salvadanaio online riempirsi di offerte. In realtà condurre una campagna di successo su queste piattaforme equivale a lanciare una piccola impresa. Stephen Follows—un data analyst inglese che per passione compila ricerche statistiche sui temi più vari dell’industria cinematografica, rigorosamente gratuite ed online—ha redatto un’utile guida, sottolineando come preparare una campagna fruttuosa proceda di pari passo con la pre-produzione.

    Innanzitutto è necessario guardarsi intorno, imparare dalle campagne affini alla propria e cercare di “copiare” i fattori di successo. Una recente conversazione tra IndieWire e i titolari di Indiegogo e Seed&Spark (specializzati nell’audiovisivo), suggerisce poi che la pre-produzione è un momento cruciale per lo sviluppo della campagna: difficilmente un film si organizza in un mese e storie di crowdfunding concluse con successo confermano questa teoria. Spike Lee ha raccolto quasi un milione e mezzo di dollari per Da Sweet Blood of Jesus, del 2014, e infatti all’Economist aveva dichiarato che portare avanti un progetto tale equivale a fare campagna elettorale: ogni giorno conta. Altri progetti, più mainstream di quello di Lee – che è stato un mezzo flop sebbene si sia personalmente occupato della distribuzione via Netflix – hanno usato bene gli stessi strumenti, come dimostra la biopic su Miles Davis: alla fine il regista/attore Don Chandler ha intascato oltre il 100% del budget.

    Certo, direte, è facile chiedere e ricevere, se ti conoscono tutti e porti avanti un progetto di intrattenimento di tale portata. Ma anche in Italia ci sono sacche di “resistenza” alla tradizionale riluttanza nei confronti della “beneficienza” per buone cause: ad esempio, la Tucker Films di Pordenone è riuscita a ricevere quasi 20.000 € per il cofanetto dei classici di Yasujirō Ozu in HD, importantissimo ma non esattamente popolare regista giapponese della prima metà del secolo scorso.

    Esistono poi percorsi più classici, che si basano più sul merito, diciamo, piuttosto che sullo spirito imprenditoriale del regista. Negli ultimi anni sono fiorite un’infinità di master class e talent campus per emergenti già consolidati, spesso in collaborazione con il mercato di enti statali o festival. Ecco un lungo elenco di realtà importanti a livello internazionale, nate in seno alle maggiori manifestazioni europee: la Cinefondation di Cannes; i Talent Campus della Berlinale, con sedi anche a Sarajevo, Buenos Aires, Guadalajara e Asia; la Filmmakers Academy di Locarno; il Rotterdam Lab all’omonimo festival olandese; la DOX Academy di Copenhagen e Lisbon Docs con focus sul documentario.

    Un’altra lista piuttosto comprensiva di pitching e funding session, sempre per il cinema documentario, è quella dell’EDN. Tra le imprese pan-europee, ricordiamo solo Nisi Masa, la rete per giovani professionisti che ogni anni supporta dai 5 ai 20 film, tra corti e lungometraggi. Di nuova formazione c’è il portoghese New Directors / New Film Festival che promuove sia un pitching forum che aggiornamenti intensivi con professionisti “estremi” (tra gli ultimi invitati, Mark Sanger, montatore di Gravity).

    In Italia un’arena simile è quella del Biennale College, che ogni anno allena fino a 12 team a realizzare il proprio progetto su scala internazionale. Uno dei suoi ultimi film – The Fits – ha raggiunto il secondo posto nella classifica degli incassi statunitensi giusto un paio di settimane fa. A fare da “incubatore madre” è poi il Torino Film Lab, di cui il Biennale College fa parte. Il laboratorio (anche qui, costola della Piemonte Flm Commission + Museo del Cinema) supporta soprattutto opere prime e seconde, e non solo organizza programmi ad hoc per figure professionali con progetti in cantiere, ma partecipa anche alla produzione con sostanziosi finanziamenti. Funziona benissimo: solo quest’anno, 7 film del Lab sono stati invitati a Cannes e 5 sono stati premiati.

    Le vie per finanziare progetti cinematografici sono (quasi) infinite, anche se qui abbiamo proposto una selezione incompleta. Mancano ad esempio tutte le iniziative americane, che per quanto generose, spesso hanno criteri d’ammissione più restrittivi per i non-statunitensi. Se però guardiamo a tutte le fasi di realizzazione di un film, si nota un calo di attenzione quando arriva il momento della distribuzione. Fare un film significa anche e soprattutto mostrarlo ad un pubblico, ma spesso esibire il lavoro finale viene ristretto alla cerchia di appassionati e frequentatori di festival. In questo caso la cultura “on demand” sembra fornire alternative ai canali tradizionali. Innanzitutto alcune piattaforme che trasmettono video online (come Amazon Prime, Fandor e Hulu) offrono anche la possibilità a registi senza distribuzione di sottoporre il loro progetto. Unico problema pare, è che i dati di compravendita/diritti non siano ancora stati rivelati.

    Dunque, magari Netflix acquista un film per 20.000 $, ma come facciamo a sapere se è un buon prezzo rispetto al mercato e alla visibilità che verrà data, e soprattutto, come facciamo a sapere se qualcuno—chi, poi—vedrà il lavoro? Sebbene Amazon abbia delle politiche più trasparenti (si dice che paghino ogniqualvolta uno spettatore guarda il film), questo è un terreno impervio. Ma siccome abbiamo sviluppato l’abitudine ad avere quasi tutto e subito—“a chiamata” appunto—sembra naturale che questa esigenza si sia sviluppata anche al di là dell’online, nel prosaico mondo delle sale cinematografiche. Sono così nate piattaforme che forniscono i cosiddetti “theatrical-on-demand-services”, e cioè “porta il film a cui tieni in un cinema vicino a te”.

    A coniare il termine sono state due start-up californiane, Tugg e Gathr. Il fondatore di quest’ultima, in una conversazione con Ted Hope (ex Fandor, ora Amazon), riassume così il concetto: uno spettatore richiede un film, indicando dove e quando desidera la proiezione. Se un numero sufficiente di altri spettatori si mostra interessato a prenotare il biglietto, Gathr ottiene il via libera per la proiezione, raccoglie i pagamenti (preventivamente trasferiti dalle carte di credito del pubblico) e si prepara ad acquistare i diritti per la distribuzione e a organizzare la proiezione, così che, al momento dell’evento, si rientri nei costi.

    Questo, insomma, con l’obiettivo di creare una massa critica di spettatori che partecipa alle sorti distributive di un film, magari in zone geografiche meno battute dai promotori tradizionali, e soprattutto oltre alle logiche di mercato mainstream. La buona notizia è che anche in Italia esiste un’impresa del genere, Movie Day, con sede a Milano ma cinema in tutta la penisola. Al momento ancora in fase beta, sembra però promettere molto bene. Venti eventi in programma e un catalogo variegato: non solo successi passati in sordina in Italia e grandi classici (tipo: Eden di Mia Hansen-Løve o La corazzata Potëmkin), ma anche lavori inediti.

    Questo è infatti il caso fortunato di Unlearning di Lucio Basadonne, che in mancanza di una casa di distribuzione si è prefissato l’obbiettivo di organizzare 30 proiezioni in tutta Italia, ed è arrivato ottenerne 50, incassando quasi 30.000 € con i biglietti. Se il meccanismo virtuoso del theatrical-on-demand è ancora da verificare in termini di sostenibilità e crescita, non bisogna ignorare che tende una mano anche a realtà concrete, vincolate al territorio ma che spesso faticano a mantenere i conti in pari: i cari e vecchi cinema. Chissà se un giorno la (fin troppo) prudente distribuzione italiana non venga sollecitata da imprese del genere.

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