il futuro senza lavoro: ambiente e tecnologia

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    Nello stesso mese in cui il numero totale dei posti di lavoro negli Stati Uniti è finalmente tornato ai livelli pre-crisi, il governo del paese ha pubblicato due documenti che danno un’idea dell’entità e della complessità delle probabili sfide da affrontare nei prossimi decenni.

    Il primo, passato quasi del tutto inosservato, è una breve analisi pubblicata dal Bureau of Labor Statistics (Bls). Esamina come la quantità totale di lavoro svolto nel settore privato negli Stati Uniti sia variata nel corso di quindici anni. Invece di limitarsi a contare i posti di lavoro, il Bls è sceso nel dettaglio del numero effettivo di ore lavorate.

    Nel 1998 i lavoratori delle aziende statunitensi svolsero un totale di 194 miliardi di ore di lavoro. Quindici anni dopo, nel 2013, il valore dei beni e servizi prodotti dalle imprese americane, al netto dell’inazione, era aumentato di circa 3500 miliardi di dollari: un incremento dell’output del 42 per cento.

    lavoro

    Pubblichiamo un estratto da Il futuro senza lavoro (Il Saggiatore)

    La quantità totale di lavoro umano richiesta per ottenere tale risultato è stata di 194 miliardi di ore. Shawn Sprague, l’economista del Bls che ha redatto il documento, ha osservato che «ciò significa che in definitiva in questi quindici anni non si è verificato nessun aumento del numero di ore lavorate, sebbene nello stesso periodo siano state create migliaia di nuove imprese».

    La notizia oggetto del secondo report, pubblicato il 6 maggio 2014, ha dominato la prima pagina del New York Times. Il National Climate Assessment, un grande progetto di cooperazione tra diversi enti supervisionati da un panel di sessanta persone che comprendeva rappresentanti dell’industria petrolifera, ha dichiarato che «il cambiamento climatico, un tempo considerato un problema di un futuro lontano, si è spostato saldamente nel presente».

    Il documento ha osservato che «le estati sono più lunghe e più calde, e i periodi di caldo anomalo durano più a lungo di quanto qualunque cittadino americano vivente abbia mai sperimentato».

    Gli Stati Uniti hanno già assistito a un massiccio incremento della frequenza di piogge torrenziali, che spesso causano inondazioni e danni ad ampio raggio.

    Il report ha previsto un aumento del livello del mare compreso fra 30 e 120 centimetri circa entro il 2100 e ha osservato che già oggi «i residenti di alcune città costiere vedono le loro strade allagate più di frequente durante i temporali e l’alta marea».

    L’economia di mercato ha iniziato a adeguarsi alla realtà del cambiamento climatico; nelle zone vulnerabili alle inondazioni le assicurazioni contro tali fenomeni stanno diventando più care, o addirittura inaccessibili.

    Fra i tecno-ottimisti, c’è la tendenza a non badare alle preoccupazioni per il cambiamento climatico e il suo impatto sull’ambiente.

    La tecnologia è vista da un unico punto di vista: come un fattore universalmente positivo, il cui progresso esponenziale ci salverà quasi certamente da qualunque pericolo emerga in futuro.

    Una gran quantità di energia pulita alimenterà l’economia molto prima di quanto prevediamo, e le innovazioni in ambiti come la desalinizzazione dell’acqua marina e il riciclo più efficiente arriveranno in tempo per evitare esiti tanto negativi da risultare drammatici.

    Un certo ottimismo è senza dubbio giustificato. In particolare, lo sfruttamento dell’energia solare ha di recente registrato un andamento affine alla legge di Moore, che sta rapidamente spingendo i costi al ribasso.

    La capacità fotovoltaica installata in tutto il mondo è raddoppiata all’incirca ogni due anni e mezzo. Gli ottimisti più estremi pensano che riusciremo a ottenere tutta l’energia che ci è necessaria dalla luce del sole entro i primi anni trenta di questo secolo.

    Tuttavia, rimangono sfide importanti da superare; un problema è che, mentre il costo dei pannelli solari di per sé è in rapido calo, altri costi importanti, come quelli relativi alle apparecchiature periferiche e all’installazione, non hanno registrato, finora, lo stesso andamento.

    Una visione più realistica suggerisce che se vogliamo riuscire a mitigare il cambiamento climatico e adattarci a esso dobbiamo a darci a un mix tra innovazione e regolazione.

    La storia del futuro non sarà una semplice gara tra tecnologia e impatto sull’ambiente. Sarà molto più complicata.

    Come abbiamo visto, il progresso delle tecnologie dell’informazione ha un proprio lato oscuro, e se creerà una disoccupazione diffusa o metterà a rischio la sicurezza economica di una grossa fetta della popolazione, i pericoli legati al cambiamento climatico diventeranno ancora più difficili da affrontare dal punto di vista politico.

    Da un’indagine condotta nel 2013 da una squadra di ricercatori di Yale e della George Mason University, è emerso che circa il 63 per cento dei cittadini statunitensi credeva che il cambiamento climatico stesse effettivamente avendo luogo, e circa la metà nutriva quantomeno una certa preoccupazione sulle sue implicazioni future.

    Un sondaggio più recente di Gallup, però, traccia un quadro forse più completo della situazione. In un elenco di quindici motivi di grande preoccupazione, il cambiamento climatico occupava il quattordicesimo posto.

    Il primo motivo della lista era l’economia, e per la grande maggioranza delle persone comuni «l’economia», naturalmente, corrisponde di fatto al lavoro e ai salari.

    La storia mostra chiaramente che quando i posti di lavoro sono scarsi, il timore che la disoccupazione aumenti ancora di più diventa un potente strumento nelle mani dei politici e degli interessi privati che si oppongono alle iniziative in difesa dell’ambiente.

    Una situazione del genere si è verificata, per esempio, negli Stati in cui l’estrazione di carbone ha tradizionalmente rappresentato una fonte importante di posti di lavoro, nonostante l’occupazione nel settore minerario sia stata decimata non dalle leggi ambientali ma dalla meccanizzazione.

    Le grandi imprese che hanno anche solo pochi lavoratori da impiegare mettono periodicamente Stati e città gli uni contro gli altri per ottenere imposte più basse, sovvenzioni pubbliche e maggior libertà dalle regolamentazioni.

    Al di fuori degli Stati Uniti e degli altri paesi avanzati, la situazione potrebbe essere molto più pericolosa. Come abbiamo visto, il lavoro nelle fabbriche sta sparendo rapidamente in tutto il mondo.

    La possibilità di scegliere la produzione industriale ad alta intensità di lavoro come via per arrivare alla prosperità potrebbe iniziare a svanire per molte nazioni in via di sviluppo, anche se nello stesso tempo tecniche agricole più efficienti faranno inevitabilmente allontanare le persone dalla vita nei campi.

    Molti di questi paesi subiranno un impatto molto più grave da parte del cambiamento climatico, e già oggi sono soggetti a un notevole degrado ambientale.

    Nel peggiore degli scenari possibili, una combinazione di insicurezza economica diffusa, siccità e aumento dei prezzi dei generi alimentari potrebbe finire per creare instabilità politica e sociale.

    Il rischio più grave è che potremmo dover affrontare una «tempesta perfetta», una situazione in cui la disoccupazione tecnologica e l’impatto sull’ambiente procederanno più o meno in parallelo, rinforzandosi e magari addirittura amplificandosi a vicenda.

    Se però riusciremo a sfruttare appieno i sempre maggiori progressi della tecnologia – al tempo stesso riconoscendo le sue conseguenze sull’occupazione e sulla distribuzione dei redditi e adattandoci a esse – gli esiti saranno probabilmente molto più ottimistici.

    Concordare una strada da seguire per districarci tra questi intricati fenomeni e costruire un futuro che offra sicurezza e prosperità diffuse potrebbe dimostrarsi la sfida più importante del nostro tempo.

    Note