L’Italia è piena di case vuote, abbiamo bisogno di un piano per riabitarle

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    Nel marzo del 1969 la Fiat annunciò di voler assumere 15mila operai. Ma dove avrebbero abitato? Le condizioni abitative nelle città sono messe a dura prova dai processi di inurbamento.

    Nel settembre del ’69 il direttore della Gazzetta del Popolo scrive: «La città scoppia. Si moltiplicano i posti di lavoro, ma mancano le case, i servizi, i trasporti, le fognature, le scuole, gli ospedali, le biblioteche. I pendolari perdono ogni giorno ore e ore, che per loro sono ore di lavoro.

    Nei cameroni degli speculatori si dorme a 15 mila lire per letto, a rotazione; la spesa può toccare le 30 mila lire. Un appartamento decente porta via metà dello stipendio. I ghetti, nel decrepito centro sabaudo o nella cintura, danno alimento alla degradazione ed alla promiscuità, e quindi alla protesta. L’immigrato non si appaga più delle centomila mensili, avendo in cambio un pagliericcio infetto od una panca alla stazione».

    Il 19 novembre 1969 i sindacati proclamarono il primo sciopero generale per il diritto alla casa. Per 24 ore l’Italia rimase paralizzata. Oltre venti milioni di lavoratori entrarono in sciopero per rivendicare un abitare dignitoso per i tanti invisibili che popolavano le città. Negli anni a venire sarebbero partiti i piani di costruzione di edilizia residenziale pubblica, anche attraverso al Fondo Gescal (Gestione Case per Lavoratori) destinato appunto alla costruzione di case per i lavoratori.

    I centri storici delle grandi città non sono più ghetti di povertà ma il cuore pulsante del nuovo modello di accumulazione basato sulla rendita immobiliare

    A cinquant’anni di distanza la situazione è diametralmente opposta: le case ci sono, tantissime, troppe, la popolazione ha smesso di crescere e il lavoro, invece, non c’è. Le case di edilizia pubblica sopravvissute ai piani di dismissione non sono più le case dei lavoratori, ma dei poveri. Altri poveri sono rimasti in affitto, e un’ampia fetta di popolazione è diventata proprietaria della propria abitazione, un’altra ha investito in una seconda, una terza casa. La casa è diventata lo strumento per accumulare e tramandare vantaggi da una generazione all’altra moltiplicando le disuguaglianze. E i nuovi migranti abitano in quelle stese condizioni descritte nel ’69 dalla Gazzetta del Popolo, nelle periferie. Una cosa non è cambiata dal 1969: la casa è rimasta un privilegio.

    I centri storici delle grandi città non sono più ghetti di povertà ma il cuore pulsante del nuovo modello di accumulazione basato sulla rendita immobiliare. Dal 1998 al 2006 i prezzi delle abitazioni crescono del 120%, le compravendite del 50%, secondo l’Istat. Dalla metà degli anni Novanta cambia la produzione industriale, il welfare, il mercato del lavoro, polarizzato tra una massa di lavoratori non qualificati e precari nei servizi, e i cosiddetti i lavoratori della conoscenza. I consumi e la capacità di acquisto mutano profondamente ma si continua a costruire come se non ci fosse un domani, il sistema sopravvive per autoriproduzione.

    Poi, nel 2008, il crollo. In un paese che già conta milioni di abitazioni in più, si svuotano anche i molti edifici messi in vendita, per cui bisognerebbe trovare un nuovo uso, una nuova funzione, oltre che nuovi acquirenti. Ma come continuare a estrarre vecchia e nuova rendita da edifici vuoti, dalle seconde case, dalle case in centro, quando gli italiani, se lo hanno, hanno un reddito da fame? È cambiato il paradigma: «non sono più tanto i fattori come il reddito, la ricchezza o i consumi a influire sulle performance dei mercati, quanto l’attrattività dei territori nei confronti di residenti, imprese e turisti» ci informa Nomisma.

    La rendita dell’immobile si basa sempre più sulla mobilità di flussi di capitali, di investimenti, di informazione, e di turisti. Le città si vendono come parchi a tema per attrarli. Tutto è mobile, temporaneo, fluido. Eventi, installazioni, aperitivi, mostre e feste simulano una vitalità economica che molto spesso non c’è. L’impressione della prosperità si fonda sulla narrazione, sul potere mediatico, sulla spettacolarizzazione della rigenerazione urbana di porzioni di città che hanno perduto la loro funzione produttiva.

    Le strategie di sviluppo sono sempre più diseguali e i mercati locali riflettono i divari territoriali

    L’Agenzia del Demanio individua come strategia di rigenerazione urbana di spazi vuoti l’uso temporaneo: i grandi contenitori dismessi sono affittati a società di promoter che vi organizzano eventi per attirare investitori. Ma, al di fuori dei centri urbani delle grandi città, nelle fasce periferiche e nel resto del paese, l’indebolimento dell’economia inceppa il meccanismo della rendita, le compravendite aumentano ma i prezzi stagnano. Si acuisce il divario tra centri, in competizione in circuiti economici sovranazionali sul mercato globale, e le periferie.

    Le strategie di sviluppo sono sempre più diseguali e i mercati locali riflettono i divari territoriali: «a differenza dei periodi precedenti quando i mercati più performanti riuscivano a trainare gli altri, adesso la spinta espansiva è condizionata molto dalla vitalità economica del contesto» certifica ancora Nomisma. Senza un piano strategico di politica industriale, in calo demografico e con un alto tasso di invecchiamento della popolazione, gran parte dell’Italia si è svuotata. Alcune proposte, lo sappiamo, sono state del tenore di quella di Oscar Farinetti: trasformare il sud dell’Italia in un enorme campo da golf per turisti ricchi.

    È l’Italia delle scorciatoie: dopo che si è privatizzato tutto il privatizzabile, si sono smantellati, decentralizzati e dismessi i grandi poli produttivi, non si è investito in ricerca, in tecnologie, dopo che si è preferito esternalizzare tutto, è rimasto solo il turismo: l’ultimo anello, il più povero, della catena di produzione, che estrae ricchezza dai territori. Con una domanda interna distrutta dalle politiche di consolidamento fiscale, si punta sulla domanda estera: il Made in Italy per ricchi stranieri che vengono in Italia, o che ordinano i nostri prodotti all’estero. Nel 2020 l’Italia è un paese di cuochi, di camerieri, e di affittacamere.

    Chi parte svantaggiato, chi non ha ereditato o acquistato una casa, farà da caddy. Gli stessi lavoratori che contribuiscono a disegnare la forma della città, che ne costituiscono l’ossatura, che contribuiscono ad attirare capitali e investimenti, sono tagliati fuori da qualsiasi possibilità di mobilità sociale. Sono i rider che sfrecciano da una parte all’altra della città consegnando cibo e pacchi, sono i disoccupati e gli operai, gli impiegati, ma anche gli architetti, le guide turistiche, i lavoratori del mondo della cultura e dello spettacolo, i librai, le partite IVA, quelli che avrebbero dovuto diventare imprenditori di sé stessi, autonomi, flessibili e creativi. Quelli che non riusciranno a pagare l’affitto, quelli che sopravvivranno con i sussidi del governo.

    Ma questo era già successo, prima che tutto si fermasse, prima della sospensione della mobilità che crea valore. Dietro la facciata degli happening e dei grandi eventi la relazione tra spazi e funzioni era già rotta. Si continuavano a costruire enormi contenitori privi di scopo per una domanda inesistente, tutta da inventare, attirare, ingabbiare. Le case erano già vuote, puntini rossi sulle mappe di Airbnb.

    Il virus cambierà le relazioni e acuirà le diseguaglianze esistenti che stanno emergendo in questi giorni

    Il virus cambierà le relazioni, i contesti di governo spaziale, i processi di globalizzazione, e acuirà le diseguaglianze esistenti che stanno emergendo in questi giorni. I centri nevralgici della produzione, i nodi e gli e attrattori globali, le città insomma, dovranno contare su altri tipi di flussi.

    Probabilmente a pagare di più la crisi che verrà sarà la città italiana che ha puntato di più sull’attrazione di investimenti corporate stranieri: Milano. Il mercato milanese ha attratto il 40% degli investimenti stranieri nei settori alberghiero e logistico (3,3 e 1,4 miliardi di euro nel 2019). Ma proprio la centralità del capoluogo lombardo «drammaticamente prossimo all’epicentro dell’epidemia virale in atto, rappresenta un fattore aggiuntivo di preoccupazione in chiave prospettica» secondo gli analisti di Nomisma.

    Paradossalmente Roma, città ben più sorniona, con una quota maggiore di popolazione impiegata nel settore pubblico, ne uscirà meglio nel breve periodo. Ma neanche la Capitale, dopo la fine dei grandi eventi e del modello Roma, ha trovato una sua vocazione economica e produttiva alternativa a quella da “marciapiede” del turismo in cui Airbnb è stata un po’ l’ultima spiaggia di un’economia della rendita basata sui flussi.

    Adesso, a maggior ragione, «la possibilità che il mattone torni a rappresentare un bene rifugio, attenuando l’impatto sul mercato che scaturirà dall’inasprimento della recessione, appare al momento piuttosto remota» scrive Nomisma. Ma di nuovo, gli investimenti già puntavano su altri settori, in primis quello della logistica, sostenuto dalla crescita dell’e-commerce.

    Nello scenario futuro, tutto da scoprire, una delle sfide che ci attende per molti versi non è affatto nuova: riabitare l’Italia, le sue case vuote, i suoi edifici dismessi. Ma dovrà cambiare il paradigma per farlo: rigenerare il costruito a partire non dall’estrazione di rendita ma attraverso i molteplici usi possibili, a partire da una ritrovata dimensione sociale, collettiva, pubblica, il cui valore questa crisi ci sta già mostrando.

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