Il contagio emotivo al tempo del virus, intervista a Tiffany Watt Smith

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    Tiffany Watt Smith è una studiosa di teatro e di letteratura, una storica e una regista. Insegna alla Queen Mary University of London, dove fa parte dello staff di ricerca del Centro per la storia delle emozioni. Il suo The Book of Human Emotions, tradotto in Italia come Atlante delle emozioni umane, ha avuto un grande successo e ha contribuito ad alimentare il dibattitto sulla storia culturale delle emozioni. Il suo ultimo libro è dedicato alla Schadenfraude, l’incoffessabile gioia che si prova per le disgrazie altrui. Ho parlato con Tiffany Watt Smith dei “regimi emotivi” innescati dalla pandemia.

    Se fino a qualche mese fa pensavamo di vivere in un’epoca ad alta intensità emotiva, in uno “stato nervoso”, secondo il titolo di un importante libro di William Davies, l’esplosione della pandemia ci ha letteralmente gettato in un oceano di emozioni. L’emozione che sembra prevalere, comprensibilmente, è la paura. Ma che tipo di emozione è la paura? Che storia ha, a quali reazioni fisiologiche e psicologiche si associa?

    È vero che c’è molta paura in circolazione. Eppure, ho anche sentito persone raccontare che la loro intensa ansia iniziale durante il lockdown è stata sostituita da un senso di calma.

    Parliamo della paura come se fosse una singola risposta elementare a uno stimolo esterno, ma forse è utile distinguere tra diverse varietà, diverse consistenze della paura. C’è la paura da tuffo al cuore, che ci fa scappare quando percepiamo un pericolo immediato. Che è però diversa da un sentimento di terrore, che il medico italiano vissuto nel XIX secolo Angelo Mosso descriveva come qualcosa che immobilizza: “anche gli uomini più intrepidi rinunciano alla fuga; pare che abbiano tagliati i nervi per la difesa, e si abbandonano al proprio destino”. C’è il panico, che può causare una fuga disordinata o la corsa a fare scorte di beni essenziali. E c’è l’ansia, connessa alla nostra incertezza esistenziale collettiva, che ci soffoca e ci lascia senza fiato – un’esperienza che immagino in molti abbiano avuto leggendo i sintomi del Covid.

    In realtà, il tipo di paura che io ricordo vividamente di aver provato all’inizio della pandemia, quando dal Regno Unito guardavamo a cosa stava accadendo in Cina e poi in Italia, era il timore – il sentimento di un pericolo incombente rispetto al quale non potevo fare assolutamente niente. Mi ha fatto venire in mente il racconto di un poeta gallese del XIV secolo, Jeuan Gethin, che descrive il progredire della peste di città in città come una spirale di fumo che striscia lentamente attraverso il paesaggio, un “fantasma senza radici”.

    Il tipo di paura che ricordo di aver provato all’inizio della pandemia era il timore di un pericolo incombente rispetto al quale non potevo fare assolutamente niente..

    Un’immagine che descrive bene lo spavento, ma anche l’impotenza. Ho pensato anche a un dettaglio che avevo notato anni fa nel racconto che Giovanni Boccaccio fa della peste nella Firenze del Trecento, e che non riguardava gli approvvigionamenti frenetici sull’onda del panico, o l’auto-isolamento, ma il soccombere delle persone, di fronte a questa paura, a una sorta di spossatezza, o apatia, che le portava ad abbandonare i raccolti, a giocarsi i patrimoni, come se nulla più importasse.

    Intanto ho dovuto interrompere la risposta per partecipare all’applauso a sostegno del personale sanitario – il che mi ricorda che, come dici, la paura è solo una delle molte emozioni di questo periodo.

    Che cosa implica dal punto di vista sociale e politico un regime emotivo dominato dalla paura? In che condizione mette i cittadini e in che modo modifica le relazioni tra governanti e governati?

    Vivevamo già in una società dominata dalla paura – almeno nel Regno Unito. La nostra è una società profondamente modellata dalla paura, i nostri spazi pubblici sono pieni di telecamere di sicurezza, messaggi di incitazione alla vigilanza sono diffusi nel trasporto pubblico, ovunque troviamo cartelli che ci ricordano che qui c’è un gradino e lì il pavimento potrebbe essere bagnato.

    Il sociologo Frank Furedi parla di “imprenditori della paura” che capitalizzano le nostre paure per vendere merci e servizi, ma moltissima pubblicità e moltissimi articoli di clickbaiting nei giornali funzionano allo stesso modo. Da quando sono diventata un genitore, sei anni fa, mi sono sentita più che mai bombardata dalle cose terribili che potrebbero accadere ai miei figli a causa della mia condotta, del cibo che gli do, di come è fatta la mia casa, o il nostro quartiere. Non so se la situazione è così opprimente in Italia, o a Barcellona dove vivi tu.

    L’accusa consueta è che questi discorsi sulla paura rendono la popolazione più docile e facilmente manipolabile, legittimano le guerre o altre estreme risposte difensive, come il controllo dei confini. Questo almeno è quanto veniva discusso in relazione alla retorica di Bush dopo l’11 settembre: “è naturale chiedersi se il futuro dell’America è un futuro di paura”, disse, mobilitando così lo spettro della paura nella sua “guerra al terrore”. E rivelandosi il più abile tra gli imprenditori della paura.

    Ma ora probabilmente siamo in una situazione diversa. Da un lato, la paura della pandemia ci ha portato a rinunciare rapidamente a ogni diritto, e a concedere alle forze di polizia poteri senza precedenti. Ma dall’altro lato ci sono forse che spingono anche nella direzione opposta.

    In questo momento, nel Regno Unito, il governo sta cercando di fare una “ingegneria inversa” della paura.

    In questo momento, nel Regno Unito, il governo sta cercando di fare una “ingegneria inversa” della paura; un uomo delle istituzioni recentemente ha affermato che lo staff di comunicazione del governo è stato troppo bravo a spaventarci durante il Covid, e ora nessuno vuole tornare a lavoro o a scuola. La verità, invece, è che il governo ha perso la fiducia di molti cittadini – in parte a causa di una pessima e confusa comunicazione – e di conseguenza le persone ascoltano più facilmente le loro verosimilmente razionali paure anziché lasciarsi persuadere dal governo.

    Quali altre emozioni associate alla pandemia hai visto emergere? Come interpreti ad esempio un fenomeno che mi ha sorpreso molto, ovvero l’imporsi di una specie di gara a mostrarsi sereni, rilassati, addirittura felici nella quarantena, rappresentata da molti come un’occasione per riconnettersi con sé stessi e con la propria intimità?

    Ho appena fatto quattro socialmente distanziate chiacchiere con la mia vicina, per strada, e mi ha detto esattamente questo, che si sente molto più calma, apprezza di avere del tempo per guardarsi dentro, lontano dalla fretta della vita quotidiana. Naturalmente questo senso di pace è legato al privilegio. Il privilegio di sentirsi rilassati perché non si hanno problemi di soldi, si ha abbastanza spazio per praticare il distanziamento sociale, non si è malati o in lutto per qualcuno che è morto. La pandemia sta inasprendo le divisioni sociali già esistenti; se io posso farmi portare a casa la spesa e non devo andare nei negozi, il mio sentimento di pace e sicurezza dipende da altre persone costrette ad esporsi e a rendersi vulnerabili.

    Probabilmente questo è molto legato alla cultura britannica, ma l’emozione che io provo di più in questo momento è l’imbarazzo – l’imbarazzo è un sentimento interessante sul quale Adam Kotsko ha scritto cose notevoli. Egli lo descrive come l’esperienza di essere colti in una situazione della quale non si conoscono del tutto le regole, o dove due diversi set di regole possono entrare in conflitto. Offendo il postino se non voglio prendere le lettere direttamente dalle sue mani? È sbagliato permettere a mia figlia di accettare un regalo o un fiore da un altro bambino che lei conosce, quando incontriamo per caso una famiglia per strada durante la nostra passeggiata quotidiana? Devo indossare la mascherina? “Come dobbiamo comportarci?” è una domanda che credo preoccupi molte persone in questo momento, almeno qui da noi.

    Vedo molta riprovazione – nel Regno Unito c’è stato molto zelo nel rimproverare le persone che infrangevano le regole del distanziamento sociale. Per fare un esempio, circolava la fotografia di una donna che aveva messo un cartello alla finestra in cui rendeva noto a tutti che l’inquilino del piano di sopra aveva ricevuto la visita di alcuni amici. La gente ha chiamato la polizia per le più piccole infrazioni – e io certamente mi sento in colpa se mi capita inavvertitamente di non rispettare le regole.

    Si è parlato molto di solitudine, in particolare per le persone che vivono da sole, o per i nonni ai quali è mancato il contatto con i propri nipoti.

    Ma soprattutto io vedo momenti di solidarietà e gentilezza tra vicini; ne ho beneficiato anche io personalmente, dal momento che tutta la mia famiglia è stata in quarantena per sette settimane, perché siamo stati malati (ma non testati, e ora stiamo tutti bene).

    E quindi provo un profondo senso di gratitudine per i vicini e gli amici, e perfino ottimismo all’idea di cominciare a riconnettermi con loro, seppure continuando a rispettare il distanziamento sociale.

    Che ruolo hanno avuto e continuano ad avere le emozioni nelle scelte politiche fatte per gestire la crisi? Hai notato delle differenze significative nella gestione emotiva praticata dalle diverse comunità nazionali nelle diverse parti del mondo?

    Non saprei rispondere riguardo alla gestione delle emozioni nelle diverse parti del mondo. Di certo qui stiamo appena cominciando ad afferrare l’idea che l’esperienza del Covid potrebbe creare problemi seri di salute mentale, a cominciare dai disturbi da stress post-traumatico, ma al momento non c’è stato nessun tentativo serio e coordinato, a livello nazionale, di pianificare una qualche forma di gestione delle emozioni.

    Sicuramente si possono vedere delle differenze negli “stili emotivi” praticati da diversi leader. Jacinda Arderm, per esempio, la premier neozelandese, è percepita come maggiormente empatica, la sua retorica enfatizza la necessità di prendersi cura di coloro che sono vulnerabili, e di agire come una famiglia.

    Ho dovuto evitare i media. Ho abbandonato Twitter, e ho cercato di limitare il mio consumo delle notizie.

    Un atteggiamento che contrasta fortemente con la retorica di Boris Johnson nel Regno Unito, il quale ha parlato di una “battaglia contro il coronavirus”, usando un lessico bellico; un approccio che è stato sostanzialmente accolto anche dalla regina, il cui discorso alla nazione ha impiegato stilemi e figure retoriche provenienti dalla Seconda Guerra Mondiale (a cominciare dal riferimento al testo di una canzone di Vera Lynn, We’ll meet again).

    Il governo è ricaduto negli stereotipi dello “Spirito Britannico”, ha rievocato i bombardamenti tedeschi, ha fatto appello a sentimenti di orgoglio nazionale, nostalgia, aggressività, senza accorgersi di come questo tipo di retorica, permeata di sentimenti colonialisti, esclude o allontana moltissime persone nel paese, specialmente quelle che si rivelano le più vulnerabili alle conseguenze del Covid.

    Che ruolo hanno i media, e secondo quali strategie, quali dispositivi retorici, hanno agito – tanto i media tradizionali quanto i social – nella costruzione degli stati emotivi associati alla pandemia?

    A un certo punto ho dovuto evitare i media. Ho abbandonato Twitter, e ho cercato di limitare il mio consumo delle notizie a getto continuo, dal momento che non fanno che accrescere l’ansia. È quasi ovvio dire che i media stanno giocando un ruolo cruciale, tanto nel divulgare la comunicazione governativa quanto – si spera – nel chiamare il governo a rendere conto delle proprie responsabilità (anche se, dal punto di vista emotivo, questo aspetto può produrre ancora più ansia!).

    Le emozioni sono tradizionalmente associate alla presenza, alla vicinanza dei corpi, alla reattività psico-fisica che si innesca nel confronto diretto con un agente esterno. In che modo il distanziamento sociale modifica l’esperienza e l’elaborazione delle emozioni?

    Questa nuova idea di distanza è interessante. Naturalmente crea ogni tipo di inediti ingorghi emotivi, come l’imbarazzo di cui parlavo prima, oppure l’indignazione, per esempio quando un runner ti sfreccia vicino all’orecchio. All’inizio del lockdown, c’erano persone che ti guardavano male quando uscivi dalla loro traiettoria, come se li stessi accusando di essere contagiosi. In un primo momento le persone facevano fatica ad adattarsi al distanziamento sociale. Ma ho ricominciato a uscire la scorsa settimana dopo sette settimane in casa, e la differenza è incredibile, le persone hanno imparato, le abitudini stanno cambiando, nessuno esita ad allontanarsi o ti guarda male se ti allontani.

    Quello che stiamo attraversando è un cambiamento molto rapido delle abitudini fisiche. Non è la prima volta che la reciprocità delle relazioni fisiche cambia, seppure normalmente non accade in modo così accelerato e drammatico. Attualmente sto facendo delle ricerche sull’amicizia, e sto studiando la letteratura che racconta i convitti scolastici femminili all’inizio del Ventesimo secolo in Gran Bretagna. Nei libri pubblicati negli anni Dieci del secolo scorso, le ragazze hanno le une con le altre relazioni molto romantiche – si baciano e si tengono per mano, si coccolano e condividono i letti.

    Quando Enid Blyton pubblica Mallory Towers (una serie dedicata alla vita di una studentessa) negli anni Cinquanta, questa intera cultura dell’affetto fisico tra giovani ragazze è scomparsa. Nei suoi libri, i personaggi a volte si prendono per le braccia o si abbracciano quando vincono in qualche competizione sportiva, ma niente di più. Il cambiamento in questo spazio culturale è avvenuto gradualmente. In parte a causa delle paure connesse al lesbismo, un’idea che nella sessuologia emerge distintamente solo all’inizio del Ventesimo secolo. I presidi hanno progressivamente cominciato a impedire alle ragazze di baciarsi o di tenersi per mano – in una scuola era perfino proibito lavarsi i capelli l’un l’altra, un gesto che era visto come particolarmente erotico e intimo!

    Quello che stiamo attraversando è un cambiamento molto rapido delle abitudini fisiche

    Ma c’erano altre ragioni per cui le ragazze erano incoraggiate a mostrare meno affetto fisico. Tra le due guerre, le persone impararono a temere la folla, gli assembramenti, le emozioni collettive e contagiose, cui si riteneva che le ragazze fossero particolarmente suscettibili. C’era anche molta preoccupazione per le epidemie di malattie come la scabbia, e tenersi per mano era considerato poco igienico ed era scoraggiato tra le donne che lavoravano nelle fabbriche.

    Un dottorando che lavora con me, David Saunders, ha scoperto queste dinamiche nella sua ricerca sulle malattie contagiose in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale, e ha trovato la testimonianza di un ufficiale militare, chiamato G.P.B. Whitwell, che temeva la presenza invasiva delle giovani donne nelle fabbriche, convinto che fossero veicolo di scabbia: “queste giovani ragazze probabilmente contraggono certe malattie attraverso la loro abitudine affettuosa di andare in giro con le braccia intorno al collo le une delle altre”, scriveva. Così possiamo immaginare che “l’abitudine affettuosa” fosse scoraggiata.

    Le abitudini fisiche cambiano, e ciò che pensiamo sia naturale spesso è frutto di educazione. So che su Twitter ci sono persone che sperano che il virus possa sancire la fine del “social kissing” in Gran Bretagna, della moda di salutarsi baciandosi. Per gli italiani è facile, voi sapete come salutare le persone con un bacio. Per noi britannici è molto imbarazzante e spesso non sappiamo come farlo!

    Dal punto di vista politico, c’è una sorta di anomalia nell’assetto emotivo della pandemia che mi incuriosisce: i movimenti populisti d’Europa e del mondo, che basano la propria ricerca del consenso sulla manipolazione di emozioni forti, violente, in un momento come questo, dominato da emozioni molto intense, sembrano quasi annaspare, sembrano disarmati e incapaci di approfittare della situazione, perfino ridicoli. Oppure finiscono col mostrare il loro lato fragile, che solitamente viene occultato, come nel caso della malattia di Boris Johnson. Le persone, seppure emotivamente scosse, sembrano preferire risposte politiche caratterizzate dalla razionalità, dalla fermezza, dall’attenuazione emotiva. Confermi questa impressione e, se sì, come ti spieghi questo fenomeno?

    Questa è un’osservazione molto interessante. Per me è del tutto incredibile che possano esserci proteste negli Stati Uniti contro il lockdown, e sta succedendo anche qui nel Regno Unito. Mi rendo conto che chi lo fa appare ridicolo – un eterogeneo miscuglio di no vax e altri complottisti. Ma ho anche imparato a temere le limitazioni della mia prospettiva. C’è Trump che incoraggia i manifestanti e semina sospetti con la sua campagna di disinformazione sulla Cina. Ciò che a me può apparire ridicolo e implausibile, è anche terribilmente reale.

    Una delle conseguenze più sorprendenti del lockdown, soprattutto all’inizio, è stato l’innescarsi di un grande senso di solidarietà, un rafforzarsi del senso della comunità e della necessità di fare fronte comune. Con il progredire della quarantena però, ha cominciato ad emergere un sentimento più spiacevole, la tendenza dei cittadini a incolparsi tra di loro, a individuare e denunciare il “trasgressore” delle norme, per scaricare sul singolo individuo la responsabilità del protrarsi dell’emergenza. Come interpreti la compresenza e l’interazione tra questi due stati emotivi opposti?

    È comprensibile che la paura e il bisogno di proteggerci abbia avuto come risultato una più forte ostilità nei confronti di quelli che si percepivano come trasgressori, e il desiderio di biasimarli. Per molti aspetti, questo antagonismo è stato deliberatamente alimentato dal nostro governo nel Regno Unito, che è stato ostinatamente evasivo o vago circa i dettagli delle norme da rispettare e ha lasciato che le persone usassero “il proprio discernimento”, molto chiaramente per spostare la responsabilità e addebitarla agli individui. Lasciando le regole aperte all’interpretazione, hanno reso le persone più sensibili all’infrazione individuale delle norme.

    La mia irragionevole speranza è che possa prevalere un approccio sensato basato sulla gentilezza

    Io vedo molta solidarietà attorno a me: i vicini si aiutano l’un l’altro per la spesa e altre necessità, le comunità organizzano raccolte di cibo per le persone in difficoltà.

    Tuttavia, ho l’impressione che ci sia stata anche una corsa a incolparsi a vicenda fin dall’inizio. Per esempio, una donna è stata biasimata al supermercato per aver comprato troppo cibo, le persone hanno pensato che stesse facendo scorte, ma in realtà aveva solo una famiglia numerosa, è un genitore single e per lei era difficile fare la spesa spesso (e in più il governo aveva appena annunciato di prepararsi per una possibile quarantena di due settimane). Sui nostri gruppi Whatsapp e Facebook sono scoppiate violente liti tra chi facendo giardinaggio voleva bruciare le sterpaglie, e chi diceva che quei fuochi avrebbero compromesso il sistema respiratorio dei vicini.

    Mio marito mi ha detto che su Twitter una sua amica, che è un genitore single, ha postato una battuta sul fatto che non vedeva l’ora che le scuole riaprissero, e ha ricevuto così tante offese che ha dovuto cancellare il tweet.

    Io stessa non sono immune a queste dinamiche: posso essere comprensiva e indulgente con gli adolescenti rinchiusi negli appartamenti che organizzano feste nei parchi, ma mi accorgo che ho perso molto del mio rispetto per alcuni amici che pur avendo grandi case spaziose con giardino a Londra, se ne sono andati nelle loro seconde case in campagna.

    Che tipo di discorso emotivo credi che potrà prevalere dopo? Sarà ancora la paura a dominare per molto tempo le nostre esistenze? Quali approcci emotivi credi che potrebbero aiutare la fuoriuscita dalla crisi?

    Onestamente, come credo chiunque altro, trovo davvero difficile mettere a fuoco e interpretare in prospettiva ciò che sta succedendo in questo momento. È come essere dentro una tempesta e non riuscire a vedere l’orizzonte, il punto in cui la pioggia finisce. Immagino, se il virus dovesse continuare a essere una parte significativa delle nostre vite, che impareremo a gestire il rischio, e i rischi saranno affrontati in modi diversi da persone diverse. Quelli di noi – me inclusa – che hanno avuto il privilegio di osservare strettamente il lockdown dovranno adattarsi a tornare nel mondo là fuori.

    La mia irragionevole speranza è che possa prevalere un approccio sensato basato sulla gentilezza, che privilegi le politiche di prossimità, la cura, la reciprocità e il rispetto per gli altri, la difesa di chi è più vulnerabile, la responsabilità ambientale e, in modo cruciale, la responsabilità nel rapporto tra specie. Sono convinta che solo questi atteggiamenti – queste emozioni – possono aiutarci a dare un senso al nostro futuro insieme.

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