L’epoca dell’Homo Fictus, perché l’essere umano esiste per generare esperienze immaginarie

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    512 pagine, 720 g, largo 14 cm, profondo 3.5  e alto 21 cm, questi sono i primi dettagli tecnici della nuova pubblicazione per la casa editrice Meltemi nella sezione Biblioteca / Culture Visuali di Francesco Monico, professore di Archetipi dell’immaginario e di Filosofia della tecnica in differenti atenei e accademie italiane, fondatore della Scuola di Media Design e Arti Multimediali della Naba di Milano. L’opera appena partorita si intitola Fragile Un nuovo immaginario del progresso.

    Dalle caratteristiche tecniche appena elencate, del volume, sembra proprio non avere nulla di fragile. A partire dalla preziosa prefazione di Simone Guidi, scopriamo che l’autore, nonché direttore dell’Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto di Biella, si pone una sfida complessa. Il valore scientifico di questa opera sta proprio in questa complessità che piano piano srotola una serie di problematiche contemporanee.

    Abbiamo il diritto (e il dovere) di immaginare per re-immaginare e Francesco Monico ci invita a dis-tendere sul filo delle fragilità il nostro equilibrio, nonché la nostra speranza in un mondo immerso nel progresso, ma senza farci perdere l’immaginario che sorregge il dramma tecnologico.

    Con estrema cura Monico dirige l’attenzione del lettore verso un’urgenza (consapevole) di fare quadrato nel mondo in un esercizio mentale, gnoseologico donandoci una costellazione carica di idee, per poi catapultarci dentro un mondo caotico e globale, sovraccarico di informazioni, ecologicamente insostenibile ed economicamente instabile, nonché disilluso. In questa linea tesa e fragile di disincanto, contraffazione della storia, l’autore, ci invita a riflettere, o meglio a immaginare, ma soprattutto re-immaginare con coraggio sulle spalle dell’Homo Fictus che sorregge e accoglie il progresso con tutte le sue fobie e le sue tecnofilie.

    In questa narrazione dell’innovazione (per l’innovazione) nella prefazione profonda e complessa di Simone Guidi, l’autore di Fragile ci invita a destreggiarci come funamboli dentro al volume labirintico che prende sul serio la categoria della finzione, mentre osa non prendere sul serio snodi storici che tutti sappiamo come decisivi, iper-raffigurati.

    Monico affida la sua ricerca metodologica a Nietzsche (e non solo) appoggiandosi alle questioni tecniche heideggeriane e alla ri-mediazioni “calde e fredde” di Marshall McLuhan. Ma è l’Homo Fictus con le sue storie, che fanno parte della vita, a liberarci, recuperando il pensiero dello studioso letterario americano Jonathan Gootschall. Monico eleva a cifra stilistica gli immaginari, riscrivendo, narrando il pensiero tecnico scientifico, retaggio del Novecento per poi aggrapparsi dentro a un lavoro di idee, progressi, paradigmi, sapere e comportamenti sociali. L’esperienza della narrazione implica una diversa archeologia dei saperi, dove il discorso diviene un atto perfomativo linguistico. Il valore di Fragile sta proprio nel coltivare la linea rossa dell’immaginario e tutta la sua fragilità su cui si appoggia, è proprio in questa tensione e ambiguità che si gioca la sua r-esistenza. Ed è proprio nella resistenza della fragilità la sostanza della forma di un immaginario che contiene un Reale altrettanto fragile.

    Chi affronta il libro con spirito critico e allo stesso tempo curioso, si imbatte in un grande ipertesto dentro cui costruire il proprio percorso, aiutato spesso alla fine di ogni capitolo da una sintesi dei punti chiave che circondano l’intero volume. Le parole chiave di ogni paragrafo tessono (sempre in tensione) l’intero discorso, complesso, profondo, a volte si richiede uno sforzo in più, ma digerito subito dopo quando a soccorrere il lettore non è solo la sinossi finale, ma anche il passaggio da un pensiero all’altro, da un codice all’altro, da un’interpretazione all’altra, come se ci trovassimo in un passaggio pluridimensionale e il reale e l’immaginario si trovano con-fondersi e il contemporaneo ad accelerare il suo passo.

    Fragile è un archivio aperto, un atlante mentale quasi-warburghiano dell’immaginario complesso, sempre sovraccarico (a volte troppo) di stampelle filosofiche, antropologiche e scientifiche. Ma questo appellarsi, chiedere aiuto al passato ci aiuta a capire il futuro per interpretare il presente, lavorando come archeologi dell’immaginario. Monico insieme al lettore, e questa è la grandezza dell’opera, sperimenta, lavora, studia, consuma, come in un laboratorio di ricerca in work in progress, aperto a tutti, da studiosi dei nuovi media a studenti di Culture Studies e non solo. C’è un prima, un dopo e un durante. La sua metodologia tecnologico-scientifica, recupera l’Ottocento e il Novecento per poi disvelare un nuovo immaginario. La sua tecnica di immaginazione, la sua natura naturata emerge in un progetto più ampio portando alla luce fenomeni di orizzonte esperienziali. La dualità tecnica-natura nel nuovo immaginario supera la dualità stessa, amplificandone la loro tensione, passato-futuro ben radicato alla sua radice magica “rinascimentale”.

    Il valore di Fragile sta proprio nel coltivare la linea rossa dell’immaginario e tutta la sua fragilità su cui si appoggia, è proprio in questa tensione e ambiguità che si gioca la sua r-esistenza.

    Fragile è la rappresentazione di una narrazione che fonda il suo essere nella tecnica intesa nella sua intimità umana con il suo avanzare tecnologico e dove l’umano stesso compie il suo destino. Allo stesso tempo la fragilità di Fragile sta nella metafisica del progresso che re-immagina e rivela ancora, come questa narrazione non è per nulla lineare, ma complessa, addirittura quantistica. Scrive Guidi nella Prefazione che la tecnica non segue affatto la linearità progressiva delle nostre esigenze, ma procede in modo caotico e radiale, con effetti sostanziali e del tutto imprevisti sul nostro ambiente e sulle nostre vite. Il lettore vi è immerso dentro ad un vortice concettuale, sperimentale, dove utopie e distopie si scontrano, apocalissi e archeologie si abbracciano, tecnica e natura si consumano, immaginario e reale si attraversano in una continua rincorsa, nello sforzo non di uscirne diversi, consapevolmente con un immaginario rinnovato e plurale.

    L’essere umano potrà salvarsi da questo abitare un mondo in costante evoluzione e rivoluzione solamente se prova dubitare di sé, “cambiare ecologicamente”, investendo nell’Antropocene e raccogliendo i suoi rifiuti per trasformarli in un cambiamento ecologico, nonché ecosistemico. Dalla Scuola di Francoforte (Dialettica dell’Illuminismo) a Günther Anders (L’Uomo è Antiquato), Monico ci fa scoprire come l’essere umano, in quanto essere artistico, produce incessanti narrazioni. Da ciò nasce una diversa forma di consapevolezza facendo riemergere dal sottosuolo filosofico dell’Occidente le figure oscure dionisiache e appollinee di Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger.

    Fragile si sintonizza sulle tracce di una teoria dell’immaginario, appoggiandosi sulle ali archeologiche del sapere di Michel Foucault e sul dorso della genealogia (della morale) storico-narrativa del filosofo dell’Anticristo, per poi attaccarsi con pre-potenza sulle radici antropologico-culturali del Ramo D’oro di James Frazer, nonché a quelle più recondite e profonde dell’animo indagate da James Hilman. Il dono di Fragile è quello di toccare gli strati temporali di kiklos, kairos e kronos i quali si sovrappongono nel registro estetico dei “tempi futuri” (prossimi e anteriori) su cui si poggia il destino dell’essere umano che si ritrova immischiato con le tempistiche tecnologiche.

    Monico procede con coraggio attraversando le epoche (non solo geologiche), le ere, ma anche le sfere delle narrazioni dove i racconti della tecnologia innescano il dispositivo dell’immaginario, dove il reale e il possibile giocano una partita rischiosa con l’impossibile e tutta la sua fragilità. E a questo punto Monico ci chiede dove si trova la verità in tutto questo processo di transizione? La verità, forse, si trova tesa e distesa lungo una linea emozionale, quella appunto della fragilità. Qui esplode con forza da un lato la razionalità scientifica, mentre dall’altro gli fa da contro altare l’irrazionalità, una senso di indisciplinatezza che fa cortocircuitare l’intero processo narrativo. In questo cortocircuito tecno-narrativo scopriamo l’immaginario re-immaginato che collega, o meglio, mette in relazione, in contatto relazionale (e non solo relativo) uomo, tempi, spazi e natura.

    È  l’immaginario che Monico insegue fin dall’inizio, fino alla fine, e ancora oltre, dopo aver chiuso l’opera (mai finita) perché esso è il collante che decreta l’essenza essenziale dell’essere umano. Fragile racconta, ci narra, cita, studia, procede, ricerca, raccoglie, osserva, annota, schizza, riflette, azzarda, incoraggia e infine immagina.

    L’essere umano potrà salvarsi da questo abitare un mondo in costante evoluzione e rivoluzione solamente se prova dubitare di sé, “cambiare ecologicamente”, investendo nell’Antropocene e raccogliendo i suoi rifiuti per trasformarli in un cambiamento ecologico, nonché ecosistemico.

    Monico da un lato – come un “sincero naturalista”- esplora, mentre dall’altro produce, ma impedisce a qualsiasi disciplina di addomesticare la narrazione. In questa lotta impari anche l’immaginario mostra però il suo fallimento, come l’autore mette ben in evidenza e mostra il suo fallimento nel modello umanista liberale. Ecco che si evoca un amore non integrato nella tecnica, affinché si possa liberare l’immaginario e re-immaginarlo. Da Marx a Nietzsche, da Gentile a Severino, da Heidegger ad Adorno, da Anders a McLuhan, e poi Pasolini, Ellul, Foucault e ancora Virilio, Baudrillard, Sloterdijk fino al recente filosofo con il cuore rivolto verso le nuovo tecnologie appena scomparso, Bernard Stiegler.

    Fragile attraversa un oceano filosofico-antropologico-mediologico-scientifico dove ognuno nella propria visione ontologica, fenomenologica, antropologica, decostruzionista, metafisica e persino poetica si tesse un filo rosso in cui, recuperando le parole dell’autore, l’ipotesi più attendibile, potrebbe essere quella in cui la tecnica, dai tempi classici, sia aumentata quantitativamente e sia oggi la condizione dominante per la realizzazione di qualsiasi scopo, per questo oggi la tecnica, surriscaldandosi, non sia più un mezzo, ma il primo fine che tutti vogliono e che subordina a sé quelli che in precedenza erano considerati gli scopi. 

    Nel XXI secolo, ci troviamo travolti da un’accelerazione provocata dall’avvento dell’informatica per poi esplodere nel Big Bang dell’era informazionale (Castells) in un’egemonia iper-cybertecnologica del turbocapitalismo della sorveglianza. Questa “delega tecnica”, citando l’autore di Fragile, ci conduce dritti nel secolo della trasformazione dell’uomo in cyborg con tutte le sue appendici prostetiche. Il modello classico dell’Umanesimo – Monico ne rintraccia tre, liberale, sociale ed evoutivo –, si sostituisce invece il modello ibrido del post-umanesimo, del sistema binario-digitale, computazionale e addirittura quantistico. Nonostante questa “delega tecnologica”, Heidegger riconosce che la tecnica non è completamente umana, né semplicemente inumana ma appartiene al Gestell del mondo naturale e umano.

    L’essere umano diviene l’incrocio autentico di apparati/media/dispositivi” che lo percorrono, non produce tecnologia bensì è lui stesso un prodotto della tecnologia, perché in fondo la tecnologia non è mai neutra ed è parte integrante, incorporata dell’uomo del XXI secolo. Dall’Internet delle Cose ai Big Data, dal Supercomputer, all’IA, ogni evoluzione tecno-logica diviene il fine di questa natura naturante e tecnologia naturale. In questo tendere verso qualcosa non è più l’hic et nunc dell’Homo Sapiens, ma piuttosto è il Dasein dell’Homo Fictus, che si affida all’immaginazione e alla sua narrazione per aderire ad un futuro, per being there. È questo attendere (ad-tendere), l’attesa che implica il tendere verso qualcosa di altro, così come è stato per la straordinaria figura del poeta recanatese Giacomo Leopardi, un altro attore fondamentale nell’analisi che fa Monico nel suo Fragile.

    Ecco che dal futuro dell’Homo Fictus l’arte acquista un valore primario, istintivo, vitale  dove nuotano demoni, cyborg, golem, zombie, semidei e mutanti. Nel post-umano il corpo si dis-tende superandone i propri limiti (teologici ed escatologici). In questa ricerca costante e affamata di immaginari, Fragile si sottrae a qualsiasi genere letterario, sfugge dalla robustezza delle discipline e della disciplinarità dei generi. L’opera di Monico non appartiene a nessuna categoria (nemmeno a quelle kantiane), ma ci regala svariate riflessioni sulla capacità di immaginare.

    Non c’è un punto di arrivo, ma tanti punti di partenza dove emerge l’analisi bioculturale dell’Homo Fictus inteso come propulsore, e come trasduttore di immaginari, dove la tecnica si compie, ma non ci relega, bensì delega ma con coscienza e consapevolezza, affinché essa possa instaurare la capacità di tendere a re-immaginare. Sta in questa sfida la più grande arte, appunto quella di immaginare di re-immaginare per poter fare immagin-azione. È nell’azione provocata degli immaginari che si compie la performance artistica di Monico dove condivisione, consilienza e connessione raccordano tutti i rami del sapere affinché il rizoma della conoscenza possa essere linfa vitale per questa nuova immaginazione, oltre la specie. Il vero salto di specie, che forse rimane sotto superficie in questa opera importante di Monico, è quello di non pensare questa complessità del mondo diretta dall’Homo Fictus (e la sua pulsione artistica) dentro una visione cosmologica (leopardiana) che da un lato prende le distanze dall’antropocentrismo e dall’altro accoglie l’ecologia ecosistemica del mondo con tutti i suoi organismi pluri e uni cellullari.

    Nel modello operativo dell’Homo Fictus riscopriamo una diversa metodologia dell’ipernarrazione capace di generare esperienze immaginarie, un’educazione sentimentale all’immaginario e una comprensione ecologica e critica che si lega bene alla cultura  del controambiente degli Amish ben descritta nel capitolo XXI, come il secolo in cui viviamo. Fragile sistematizza il pensiero dell’autore, ma allo stesso tempo rompe, spezza i meccanismi duali, sensibilizzando il lettore ad una visione critica e complessa del mondo tecnologico, in ogni dispositivo che Monico ci consegna, ci disponiamo ad accogliere il testo a seconda di quale strumento decidiamo di utilizzare, come ad esempio la Terziarizzazione della memoria  (André Leroi-Gourhan, Bernard Stiegler), la Prometeizzazione delle cose (Agamben), La dissipazione tecnica (Paul Valery) La precessione tecnica sull’arte (Leroi-Gourhan).

    Non siamo obbligati ad usare tutti questi strumenti, sta qui la bellezza intertestuale e connessa dell’opera. La sua sensibilità e fragilità, sta nel tendere verso un mondo meno sistematico e sistemico e pronto a richiedere urgenza del racconto. Nel vincolo di immaginazione si richiama la riflessione vichiana per la quale ciò che ci permette di vedere il progresso sta nel sostantivo dell’immaginazione, così come l’unità umana è un patto immaginativo, ovvero l’atto, come scrive Monico, dell’immaginare se stessi e raccontarsi. Osiamo di immaginazione. Immaginiamo, perché solo gli immaginari possono salvarci dal mondo contemporaneo iperteconologico in una diversa narrazione, e l’eco di questo racconto viene affidato all’Homo Fictus. Abbiamo il diritto (e il dovere) di immaginare per re-immaginare e Francesco Monico ci invita a dis-tendere sul filo delle fragilità il nostro equilibrio, nonché la nostra speranza in un mondo immerso nel progresso, ma senza farci perdere l’immaginario che sorregge il dramma tecnologico. Così complesso, così violento e così fragile.

    A chiosa di questa arte del racconto fragile l’opera di Monico è confezionata in copertina da un dettaglio dell’opera dell’artista Michelangelo Pistoletto La Mela Reintegrata, realizzata e installata al centro di piazza del Duomo a Milano per l’apertura dell’EXPO, e collocata successivamente e definitivamente nel 2016 in piazza Duca D’Aosta di fronte alla Stazione Centrale. La Mela Reintegrata è un’opera di grandi dimensioni – 11 tonnellate di peso, 8 metri di altezza e 7 di diametro – costituita da una struttura di metallo interamente modellata da un intonaco argilloso mescolato a polvere di marmo. La Mela Reintegrata è un’opera simbolica che si apre al mondo e, allo stesso tempo, rappresenta la ricomposizione di due elementi opposti natura ed artificio (natura naturante, natura naturata) come ben ci racconta Monico e ci raffigura Pistoletto.

    Il simbolo della mela attraversa la Storia, iniziando dal morso (il peccato originale) e il distacco del genere umano dalla Natura e la conseguente origine del mondo artificiale (peccato non più originale, ma riproducibile e violento.) La Mela Reintegrata rappresenta l’ingresso in una nuova Era, in un nuovo umanesimo (post-umanesimo? transu-umanesimo?) nella quale il mondo artificiale e mondo naturale collidono nella società alla ricerca (della verità?) equilibrata, nonché ecologica planetaria. Come scrive Pistoletto “L’arte è l’espressione primaria, più sensibile, della creatività umana e, di conseguenza, il riferimento costante di ogni attività culturale, economica e sociale. La responsabilità dell’arte è creare i principi di una nuova armonia che attraverso l’estetica e l’etica bilancia tutti gli elementi della società”, così fragile.


    Fotografie di Enrico Amici

    Note