Il valore irriducibile della tragedia: perché non bisogna confondere ecologia con ambientalismo

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.


    L’aria nelle nostre città è irrespirabile. L’Australia brucia. I ghiacciai finiscono. Le temperature si alzano. Il clima diventa sempre più inaffidabile e imprevedibile. L’energia fa scoppiare guerre. La povertà si estremizza. La salute diventa sempre più problematica per miliardi di persone. L’accesso alle opportunità è appannaggio di pochissimi eletti. E si potrebbe continuare all’infinito.

    Tempo fa, a Ottobre, è uscito questo articolo con un’intervista a Fabrizio Barca:

    Non ho mai avuto l’opportunità di conoscerlo di persona, ma ne seguo con estremo interesse le idee, l’azione e le evoluzioni: è una delle persone più decenti nell’attuale panorama della politica italiana. È capace di pensiero complesso, e di trasformarlo in azioni: nello scenario desolante della politica italica e non, sembra un miracolo.

    Quest’intervista non è da meno e, sin dal titolo, si mette in forte evidenza uno dei nodi centrali dei nostri tempi:

    È un errore gravissimo confondere ecologia e ambientalismo.

    Barca rende questo concetto estremamente chiaro, puntando immediatamente l’ago della bussola verso gli interventi sistemici.

    Confidente e positivamente sollecitato da questa sua impostazione, mi permetto di inviargli questo messaggio nella bottiglia, che è allo stesso tempo una sollecitazione intellettuale, una consulenza non richiesta e un augurio di riuscire a creare quelle opportunità che ci permetteranno di operare nel mondo secondo i modelli della complessità che, probabilmente, è la nostra unica via di speranza.

    Ecologia non vuol dire Ambientalismo

    Una supposta equivalenza tra questi due termini è molto pericolosa. Principalmente perché lascia emergere in maniera a-critica l’immaginario secondo cui potrebbe essere vera.

    Già la sola Wikipedia dà una definizione che estende i confini dell’ecologia:

    https://it.wikipedia.org/wiki/Ecologia

    Questi confini andrebbero ulteriormente estesi esplicitamente verso le scienze della complessità, la teoria delle reti, la psicologia sistemica, lo studio della comunicazione (dal chimico, al biologico, al sociale, al mediale etc), fino a diventare lo studio delle relazioni tra persone, cose, ambiente, processi, servizi, tecnologie… e delle dinamiche che si creano tra tutti questi elementi.

    E ancora mancherebbe qualcosa dalla definizione.

    Primo, perché la parola “studio” dà ancora l’impressione che abbia un senso pensare che si possa essere fuori dal sistema, in qualche modo, per osservarlo. Occorrerebbe, quindi, integrare un elemento di appartenenza, di immersione, di performance, di coinvolgimento, di partecipazione. Il termine più potente che mi viene in mente in questo senso è presenza.

    Secondo, perché potrebbe sembrare, dato questo tipo di definizione, che si ambisca in qualche modo al “tutto”, a una “religione scientifica” che sia in grado di onnicomprendere tutto quanto, e le relazioni di tutto con tutto il resto. Un iperdeterminismo scientifico che ambisca a capire e comprendere/spiegare tutto e, sulla base di questo, riuscire a fare e ottenere qualsiasi cosa, che riguardi l’ambiente, le persone, le cose, la tecnologia.

    “Dio” (o chi/cosa per lui/lei/loro) è un network complesso? Ci piacerebbe pensarlo, perché potremmo analizzarlo, per quanto con difficoltà.

    Questo è il limite della scienza, del logos.

    Purtroppo esiste anche un’altra dimensione, su cui il logos non ha proprio nulla da dire, che è la dimensione della tragedia, della sofferenza, della mancanza di soluzione.

    Questa dimensione è, oltretutto, quella che è alla base del sentire, del poter riconoscere e avere esperienza la vita, del sentirsi esseri umani.

    Ed è lì, nella sofferenza, che emerge la solidarietà, e la possibilità di commuoversi, che letteralmente significa “muoversi insieme”.

    E = ( N + P² + T )
    Ecologia = Network + Presenza*Performance + Tragedia

    Da questa formuletta, che può ovviamente essere ulteriormente estesa e modificata, emergono diversi elementi:

    Quello scientifico, innanzitutto, così maltrattato ultimamente da populismi, complottismi e tanti altri -ismi. E dire che, invece, sarebbe un momento di splendore scientifico come mai prima nella storia dell’essere umano, supportato e stimolato da enorme abbondanza di dati e potenza computazionale per comprenderli nella loro complessità, e quindi senza violare la caratteristica fondamentale dei sistemi complessi: la loro irriducibilità. È un momento meraviglioso, in cui potremmo iniziare ad affiancare altri strumenti alla creazione della coscienza sociale e all’azione di coloro che fanno le politiche: a fianco di indicatori e coefficienti, network complessi da analizzare computazionalmente, per trovare forme ricorrenti, relazioni e pattern, piuttosto che descrizioni troppo sintetiche, o addirittura singoli numeri scalari che sono completamente incapaci di raccontare la complessità.

    Quello culturale, che descrive come unirsi, essere presenti con la propria soggettività e diversità per creare valore per tanti, potenzialmente per il mondo intero. In uno scenario in cui la dieta comunicazionale, informazionale e relazionale delle persone è completamente mutata, questo richiede un profondo rinnovamento. Per usare le parole del nostro caro amico Massimo Canevacci, occorre capire come è fatto il film delle nostre metropoli, in cui tutti sono simultaneamente attori, registi, direttori della fotografia, sceneggiatori, runner.

    E quello della tragedia.

    La Tragedia

    La tragedia è ciò che non può essere ricomposto dal logos, dalla parola, dall’intelletto, dalla logica, dalla razionalità.

    È. Irrisolvibile. Irriducibile.

    La tragedia è tutto ciò per cui non c’è soluzione, che non può essere sciolto o ridotto. Ma che ostinatamente sta lì, esiste. Esistendo, ci connette con la sofferenza: rende possibile l’empatia e la solidarietà.

    I caratteri di irriducibilità e irrisolvibilità della tragedia rivelano anche un’altra sua caratteristica: è la nostra porta d’accesso alla complessità.

    Il logos non ha nulla da dire alla tragedia. Magari sulla tragedia sì, ma non alla.

    Non c’è una App per avere a che fare con la tragedia. Non ci può essere.

    La tragedia sfugge alla possibilità di crearci un servizio. Sfugge alla dicotomia utile/inutile.

    È una dimensione differente.

    Ecologia e Tragedia

    Come si fa, quindi, ad avere a che fare con la Tragedia?

    L’arte è sicuramente un modo. La musica, la poesia, l’immagine, la performance, il corpo.

    E non come decorazione di un servizio, di uno studio, di una ricerca, di una tecnologia, per tentare di riportare al logos: serve arte come strategia.

    Non si sta parlando qui solo della “immaginazione al potere” di Marcuse: non si tratta di qualcosa “contro”, di alternativo.

    Si tratta di un pensiero ecosistemico, in cui tutte queste dimensioni non prevalgono le une sulle altre, non si sostituiscono, non hanno delle frecce direzionate dalle une alle altre, stabilendo una gerarchia.

    Si tratta di un pensiero ecosistemico, in cui queste modalità hanno pari dignità e ruoli differenti, ma capaci di interagire, e di sostenersi l’un l’altra, amplificando gli effetti.

    Si tratta del poter avere a che fare con le dimensioni dell’esistenza umana, con le modalità di conoscere e comprendere il mondo, e di cosa significa agire nel mondo, come individui, coppie, famiglie di ogni tipo, società.

    Quindi, che fare?

    “Ecologia non è uguale a Ambientalismo”

    Questo è un concetto che ho imparato da Oriana.

    Quando ci siamo incontrati, nel 2006, tante cose che prima non erano definite, lo sono diventate.

    Prima di incontrarla, per me il discorso ecologico era una pratica e una concettualizzazione critica.

    La mia conoscenza in materia veniva dall’ingegneria, dalla cibernetica, dalla teoria dei sistemi, dalla scienza delle reti e della complessità, per cui era evidente che lo stabilire confini precisi per il “sistema” era sia un modo di renderlo più gestibile e governabile, sia il modo in cui si perdeva la capacità di affrontare la complessità: magari il fegato te lo aggiusto pure, ma il polmone sta morendo e, seppure uscissi in piedi dall’ospedale, non avresti lavoro, relazioni significative, mangeresti malissimo e in breve tempo torneresti all’ospedale.

    Un po’ come la situazione attuale delle nostre città: fai tutti i fermi che vuoi della circolazione (diesel o benzina che sia), lava le strade quanto vuoi, pianta tutti gli alberi che vuoi (verticali o non che siano i loro boschi), ma se non affronti il sistema non combinerai proprio un bel nulla: ti stai preoccupando del colore delle tendine alle finestre, mentre la casa è in fiamme.

    Con l’arrivo di Oriana, la comprensione di questo tipo di fenomeno, per me, ha assunto un carattere completamente differente.

    È diventato fisico.

    Oriana, cyberecologista e immersa nel suo lavoro con il gruppo dei Verdi al Senato, era esposta alla sofferenza continua che è portata direttamente da questo concetto. Quella sofferenza che ha portato alla morte di Alex Langer, con il suo “non ce la faccio più”. Con il doversi accontentare delle piccole azioni che si riuscivano a fare, perché alla maggior parte delle altre forze politiche interessava ben più piantare qualche albero in periferia per raccattare due voti, piuttosto che ragionare sulla società, sulla salute, sulle tecnologie, sulla comunicazione, sulla proprietà intellettuale, per riuscire a progettare e governare un cambiamento profondo, nella complessità.

    Era un periodo emozionante, quello, con il gruppo innovazione dei Verdi, con Fiorello Cortiana e un ampio network internazionale che si stava formando: il WISIS a Ginevra e in Tunisia, Gilberto Gil e i Pontos de Cultura in Brasile, il Digital Business Ecosystem nella Commissione Europea, e tanti, tanti altri.

    Tutte cose che poi si sono spente, sono diventate qualcos’altro, rimanendo sulla superficie, tanto che nessuna delle iniziative che ne sono derivate — neanche quelle attuali di Barcellona, Amsterdam o Berlino che siano — sono riuscite ad entrare così in profondità nei temi:

    • dell’identità digitale, oggi schiacciata su una “carta di identità”, completamente incapace di avere a che fare con le identità individuali, anonime, temporanee, transitive, ricombinanti, collettive, che sono alla base dei diritti e delle libertà digitali;
    • della proprietà intellettuale, oggi ridotta a mera certificazione di proprietà, e dei contratti ad essa associata;
    • della fiducia, oggi ridotta a mera possibilità di trasformare tutto in transazione tramite blockchain;
    • della co-esistenza, oggi completamente scomparsa dal radar politico, che si occupa invece di come gestire e governare il consenso con gli strumenti digitali;
    • della possibilità di reinvenzione del reale, oggi completamente dilaniata e sostituita dal focus sulla “verità” (es: disinformazione, fake news e tutti gli altri fenomeni in cui la possibilità di immaginare diverse realtà e di come gestirne la compresenza nella società si trasforma in una emergenza militarizzata e medicalizzata);
    • del tempo, oggi completamente frammentato senza speranza, tra precarietà e overload sensoriale e di notifiche;
    • delle relazioni, oggi completamente disorientate nella trasformazione delle famiglie, dell’amicizia, del confine tra lavoro e tutto il resto.

    Unirsi, per me e Oriana, è stato quasi un miracolo.

    Io che venivo dalle tecnologie, dallo skateboard, dalle pratiche di riappropriazione urbana, dai rave, dalla performance continua di critica e reinvenzione del reale tramite l’arte.

    Lei che veniva dalle istituzioni, dall’idea di insinuarsi nel palazzo per infiltrare il cambiamento, la trasformazione, e per creare un’osmosi possibile dal basso verso l’alto, e viceversa.

    Ecco, questo tipo di miracolo, per me, è quello a cui dobbiamo puntare.

    Olivetti parlava della “sintesi”. E già era qualcosa.

    Sono convinto che oggi occorra andare anche oltre: occorre un miracolo che possiamo fare avvenire soltanto essendo capaci di unire tutte queste dimensioni, e di farle interagire attivamente.

    Se prima si parlava di “fantasia al potere”, beh, ora non si può più:

    E = ( N + P² + T ) al Potere!

    Ecologia = Network + Presenza*Performance + Tragedia

    Note