Il patrimonio culturale salverà l’Europa?

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Da qui e per tutto il resto dell’anno, la parola da padroneggiare per guadagnarsi un minimo di legittimità nella sfera pubblica sarà quella di “patrimonio culturale”. Se non altro perché la Commissione Europea ha proclamato il 2018 Anno Europeo del Patrimonio Culturale, inaugurandolo proprio a Milano il 7 e l’8 dicembre scorsi durante European Cultural Forum 2017. Il patrimonio culturale negli ultimi anni ha iniziato a generare un discorso interessante – nel senso che su di esso vertono numerosi interessi di tipo economico e sociale oltre che culturale, poiché è forse uno tra i pochi ambiti in grado di generare simboli nei quali ci si riconosce ancora, diventando elemento strategico per far fronte alle sfide che l’Europa contemporanea si trova a fronteggiare.

    Che cosa si intende per patrimonio culturale è però altra questione, e la difficoltà di intesa è tanto più complicata oggi quando convivono contemporaneamente definizioni diverse tra loro. Si fa strada in particolare quella per cui il patrimonio culturale non include solo beni tangibili, né qualcosa che per essere riconosciuto come tale ha necessariamente bisogno di saperi esperti riconosciuti istituzionalmente. È piuttosto qualcosa di multivocale, frutto di storie personali e collettive anche “dissonanti” l’una rispetto all’altra, dunque conflittuale.

    L’emblema più forte di questo cambiamento di prospettiva, che ha spostato il fulcro dell’attenzione da “monumenti e antichità” a “beni culturali”, per introdurre più di recente il termine di “eredità” e “patrimonio culturale” culmina con la Convenzione Quadro sul Valore del Patrimonio culturale per la Società adottata dal Consiglio d’Europa nel 2005. Questo documento – più noto con il luogo in cui i primi Stati membri l’hanno firmato, a Faro in Portogallo – si accompagna ad altri (in primis la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO del 2003) che negli ultimi due decenni hanno contribuito ad un cambio di passo in direzione di un’accezione soggettiva di patrimonio, inteso nelle sue espressioni materiali e immateriali, e basata sul carattere negoziale del processo di patrimonializzazione che lo sottende.

    In quanto convenzione quadro, Faro non dettaglia le modalità di applicazione, ma si limita ad enunciare alcuni principi, che dipendono da due concetti chiave, quello di patrimonio culturale inteso come “eredità” (entrambi i termini possono essere adottati per tradurre cultural heritage nel testo originale) tale per cui:

    a. l’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi;

    e quello di comunità patrimoniale:

    b. una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli.
    (per il testo completo tradotto: http://www.ufficiostudi.beniculturali.it/mibac/multimedia/UfficioStudi/documents/1362477547947_Convenzione_di_Faro.pdf)

    Ne discende un’accezione di patrimonio culturale che intesse un forte legame con il territorio, dove questo però è inteso secondo un’accezione relazionale, riproducendo in maniera indiretta una serie di dibattiti sviluppati nella geografia umana degli ultimi decenni tali per cui la relazione uomo-ambiente non può essere circoscritta a uno spazio definito e a una storia statica poiché invece si esprime in maniera aperta, fluida, multiscalare, attraverso molteplici traiettorie continuamente ridisegnate a partire da posizioni sociali diverse. La stessa comunità patrimoniale indica un gruppo che si auto-riconosce in quanto tale, in ragione di una comunanza su base spaziale oppure linguistica o religiosa, o anche di altri tipi di legame o di interesse, i cui confini non sono rigidi, impermeabili e immutabili.

    Faro si basa sul principio di una cittadinanza associata alla comunità (o meglio alle comunità) nel contesto di territori socialmente coesi grazie alla partecipazione al patrimonio culturale e alla responsabilizzazione dei cittadini nei suoi confronti.

    L’enfasi sulla partecipazione comunitaria nell’identificazione, nella salvaguardia e nella co-creazione del patrimonio culturale è messa al servizio di un ideale di Europa unita nella diversità, basata sui diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto: una visione di cui, anche “dai piani alti” si sente sempre più il bisogno di fronte al proliferare di populismi e spinte antidemocratiche, e all’incapacità dell’Unione Europea di presentarsi al “mondo fuori” forte di un progetto condiviso. Quando non si fa più la guerra, la geopolitica si fa con i trattati, e la Convenzione di Faro va considerata anche in quanto oggetto di politica internazionale.

    Una buona parte della Convenzione è dedicata da un lato al tema della partecipazione al patrimonio culturale, e dall’altro alla responsabilizzazione rispetto ad esso. Questo aspetto presenta un certo grado di ambiguità che si sposa con il clima attuale di esternalizzazione delle funzioni che le autorità pubbliche o le istituzioni tradizionali non riescono più ad assolvere. Con Faro si incentivano le iniziative che complementano i ruoli degli enti pubblici preposti alla conservazione dell’heritage, incentivando nuove formazioni ad occuparsi di patrimonio culturale agendo nell’interesse pubblico. Le implicazioni sono molteplici: gli Stati che ratificano la Convenzione devono predisporre politiche di livello diverso in grado di mettere la cittadinanza nelle condizioni di esercitare “il diritto al patrimonio culturale”, attraverso strumenti di gestione partecipativi all’interno di una governance condivisa delle politiche culturali, e non solo di quelle perché se si accetta che il patrimonio culturale assume un ruolo perno nell’Europa attuale, o quanto meno in quella del futuro, allora gli ambiti di interesse sono molto più ampi.

    Per quanto non dettagli le forme con cui ciò deve accadere, è chiaro che applicare i principi di Faro implichi un cambiamento significativo negli apparati di regolazione, negli strumenti, e nelle metodologie con cui patrimonio culturale e territorio interagiscono; un cambiamento rispetto a cui, forse, molti Stati non si vogliono prendere proprio quella cosa che la Convenzione continua a richiedere: e cioè la responsabilità. Non è un caso che la Convenzione sia entrata in vigore solo nel 2011 quando finalmente l’hanno ratificata in 10 dei 47 Stati che sono parte del Consiglio d’Europa. L’Italia porrà la firma solo nel 2013, mentre la ratifica si è arenata in Senato durante la legislatura appena conclusa (e anche se dovesse arrivare nella prossima, come tanti sperano, non si sa poi bene cosa succederà, visto che le normative in vigore in Italia in materia di beni culturali non sono propriamente favorevoli a un approccio transdisciplinare e orizzontale come quello su cui si basa, di fatto, Faro).

    La Convenzione Quadro sul Valore del Patrimonio culturale per la Società è solo una tappa tra altre di un percorso che va nella direzione di una nuova accezione relazionale di patrimonio culturale e che si colloca sul solito crinale dove da una parte si aprono spiragli per la crescita della società civile attraverso la legittimazione di forme di voice ed emancipazione della società civile, e dall’altro emerge la possibilità di una facile strumentalizzazione delle più diverse espressioni culturali e delle identità. Per questo è così interessante monitorarne le articolazioni pratiche sul territorio (in diverse località) che proprio ora stanno emergendo e, contemporaneamente, i legami che queste intessono con un livello superiore (in cui si ridisegna la relazione tra società-economia-cultura): perché è nella sua difficile applicazione concreta che si possono sperimentare politiche all’interno delle quali nuove metodologie e nuovi posizionamenti possono essere sperimentati.

    Note