Innovazione: cercasi avanguardie

avanguardie

Nel 1998 usciva per Baldini & Castoldi il bellissimo libro di Mirella Bandini L’estetico e il politico, in cui la critica ricostruiva le radici ideologiche del Sessantotto europeo partendo dai protagonisti delle avanguardie artistiche della seconda metà del Novecento.

In realtà, ed è un punto sul quale dovremmo riflettere, a partire dai primi del secolo non avremmo più avuto un così marcato distinguo tra le arti, ognuna a modo suo impegnata nella stessa battaglia per il cambiamento e per il sovvertimento della cultura tardo-ottocentesca. L’idea di un unico sentimento, quello del dissolversi di regole e forme certe e dell’apertura all’indagine dei linguaggi, a partire dal cubismo e dal primo astrattismo fino al secondo dopoguerra, ha avuto un inestimabile valore nella storia delle idee.

La Bandini descrive in modo mirabile la temperie dell’Internazionale Situazionista, un momento di consapevolezza politica (dal 1957 al 1972) in cui il sistema sociale e i modelli culturali diventano oggetto di studio, filtrati dalla lente del marxismo e dell’anarchismo, e verso il Sessantotto europeo. In quei giorni l’IS, nata a Cosio di Arroscia grazie alla fusione del Lettrismo (con i Dada e i Surrealisti schierati) con il Movimento Internazionale per una Bahuaus Imaginista e con il movimento Cobra, davano vita a un’interpretazione inedita dell’esistenza.

Non voglio scendere in particolari di letteratura artistica né credo di poter dare per scontata la portata rivoluzionaria delle idee di Tristan Tzara o di André Breton (talmente complessa è la storia di quei gruppi), ma ho in mente una riflessione. La massima espressione dell’Internazionale Situazionista si ebbe con alcuni intellettuali come Guy Debord e Pinot Gallizio, ma la principale e innovativa caratteristica del fenomeno fu, probabilmente, il collegamento con la realtà politica del periodo. Prendiamo, ad esempio, il concetto di situazione, la creazione di momenti di vita concretamente e deliberatamente costruiti mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di eventi (l’Urbanismo Unitario), e riportiamo la cosa ai nostri giorni.

Notiamo che, nello sfaldarsi di una visione d’insieme, nella mancanza di un racconto convincente da parte della politica istituzionale, nel complesso e convulso periodo di passaggio che oggi ha destabilizzato più o meno tutti, le persone tendono a riorganizzarsi (come un sistema di difesa che si autodisciplina per combattere una malattia). E lo fanno costruendo movimenti di idee, comunità che, proprio con un sentimento d’avanguardia (che, consentitemi lo svilimento del termine, interpreto come un guardare avanti a dispetto del reale significato etimologico di vanguardia militare), presidiano un territorio favorendo la consapevolezza e promuovendo la trasformazione.

Oggi, se si analizza quello che succedeva nel periodo dell’IS, troviamo condizioni simili. Nella frantumazione di tanti centri di innovazione, hub e progetti creativi, come gli stessi coworking che al loro interno covano nuove imprese e associazioni, non possiamo non trovare quel bisogno di realizzazione di momenti esperienziali collettivi, non possiamo non ritrovare il gioco degli eventi utile a sviluppare derive, attraversamenti in ambienti e contenitori dissimili ma tutti ugualmente specchio di una rinnovata necessità dialettica, così come è facile scorgere i tanti esperimenti interpretativi di un sistema (anche dal punto di vista di paesaggio, paesaggio urbano e paesaggio umano) da ripensare completamente.

Certo, nel secondo dopoguerra, vista anche la palese gravità del conflitto mondiale dal quale si usciva, la ricostruzione era l’urgenza, qualcosa di talmente potente e riconoscibile da non lasciare sospeso alcun fraintendimento. Il Secondo Dopoguerra è stato un grande incipit, che ha dato vita a gruppi consapevoli di sé e che negli anni ’50-’60 (le Seconde Avanguardie) erano impegnati in un dibattito che spesso li vedeva dialoganti, coinvolti in confronti aperti sul senso della società e sui pericoli dell’imminente processo di massificazione. Una guerriglia semiologica, è stata definita. Una positiva schermaglia politica, aggiungiamo noi.

Solo In Italia, nello stretto periodo dell’Arte Informale, abbiamo avuto il Fronte Nuovo delle Arti, Forma 1, Origine, Il MAC; in letteratura si sono formate realtà come il Verri, il Gruppo ’63. Quello che oggi, a mio avviso, manca è la sistematizzazione della reazione in una politica dal basso (nel senso di non istituzionale) che sia in grado di condividere un significato unico da dare a una presunta “rivoluzione”. Gruppi che dovrebbero avere manifesti chiari ed esaurienti, che dovrebbero saper scindere l’obiettivo generale (il cambiamento del paese) dal proprio (le motivazioni interne), dovrebbero dialogare in spazi e momenti di confronto e, perché no, affrontarsi per superare la trincea intellettuale della resistenza e diventare finalmente propositivi e credibili.

Non siamo mai davvero usciti dalla psicogeografia di cui parlavano i situazionisti, anche nell’innovazione le realtà territoriali contano in modo decisivo tanto da condizionare i comportamenti individuali. Fino al solipsismo, fino a identificarsi negli spazi autoriferiti delle reti. Però, e questo dovrebbe avere valore, oggi conosciamo già le trappole e le insidie del percorso.

Non dobbiamo cadere ancora per sapere che questi strumenti, svuotati dalla loro funzione socioculturale e politica, potrebberod iventare una nuova società dello spettacolo di debordiana memoria. Evitando di restare intrappolati nella narrazione fittizia dell’azione e del cambiamento, possiamo guardare più attentamente la realtà e stabilire cosa fare. Abbiamo di fronte esempi che fanno sperare: eventi che aggregano, organizzazioni che costruiscono valore, volontà solidali di collaborazione, piattaforme che agiscono in modo operativo.

Allora ben vengano le avanguardie, ben venga lo scambio acceso tra innovatori, ben vengano i pamphlet e le esagerazioni teoriche, ben vengano le sperimentazioni pratiche anche azzardate. L’importante è uscire dall’isolamento di una guerra di guerrglia fatta, ormai, sempre più di partigianato di settore.