Innovazione sociale o solo attivazione individuale?

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    Si è chiuso da poco il bando lanciato da Fondazione Italiana Accenture, UBI Banca e Fondazione Bracco dedicato a progetti di innovazione sociale. Si chiama Welfare, che impresa! ed è rivolto a start-up sociali, intese come organizzazioni no profit “con esclusiva finalità sociale”, si legge nel regolamento disponibile online, e i cui componenti abbiano un’età compresa tra i 18 e i 35 anni.

    Si tratta di uno degli ultimi esempi che testimoniano l’impegno delle fondazioni di origine bancaria a sostegno dell’innovazione sociale, che si affianca a quello di altri soggetti di varia natura e, tra le istituzioni pubbliche, di diverse amministrazioni locali.

    Attori che spesso agiscono in sinergia con lo scopo di sostenere idee imprenditoriali attraverso premi in denaro e percorsi di “incubazione”, cioè di supporto nella fase di progettazione, di predisposizione di business plan e quant’altro serve a trasformare le idee in vere e proprie imprese. Solitamente sono i giovani i destinatari privilegiati di questo genere di iniziative, tra le quali spiccano casi come Fabriq, l’incubatore del Comune di Milano dedicato all’innovazione sociale; il progetto FaciliTo Giovani e Innovazione Sociale, parte del programma Torino Social Innovation; o, a sud dello stivale, Bollenti Spiriti, programma della Regione Puglia per le Politiche Giovanili che ha tra i suoi scopi principali quello di facilitare la nascita di imprese con un impatto positivo sui territori e le comunità locali. Spesso sono proprio le stesse iniziative a rappresentare già di per sé delle innovazioni. La città di Torino è arrivata seconda nella competizione per il premio “Capitale Europea dell’Innovazione 2016” per il supporto alle start up sociali, mentre Milano era tra le nove finaliste per aver sviluppato servizi pubblici innovativi volti alla creazione di lavoro.

    Facciamo allora un passo indietro per cercare di capire di cosa stiamo parlando. Intanto, una ricca letteratura ha messo in evidenza i limiti e le opportunità dell’innovazione sociale, un concetto che come sottolineano Moulaert e altri (2013) non è nuovo alle scienze sociali ma legato alla più ampia tradizione sociologica degli studi sul mutamento sociale. Oggi è un termine utilizzato in un modo piuttosto ambiguo e retorico (oltre che perfettamente depoliticizzato) che ne ha fatto una sorta di feticcio.

    Sappiamo che innovare è un verbo sempre più coniugato all’imperativo e che, seguendo la definizione adottata dall’Ufficio dei consiglieri per le politiche europee (BEPA 2011), l’innovazione sociale è chiamata ad elaborare risposte ai bisogni sociali creando “nuove relazioni e nuove collaborazioni”. La maggior parte delle definizioni sono caratterizzate dalla stessa genericità che, al di là di alcuni problemi che implica, dovrebbe consentire agli innovatori, o a chi cerca di guidare percorsi locali di innovazione, di sperimentare in modo libero e creativo i propri progetti (innovando, appunto). Da qui, tuttavia, credo emerga la necessità di andare oltre il concetto di “innovazione sociale” per comprenderlo più a fondo e, in questo articolo, vorrei provare a far emergere alcuni spunti di riflessione utili a questo scopo.

    Per prima cosa è bene ricordare un fatto piuttosto noto, e cioè che l’emergere dell’innovazione sociale è strettamente legato alla crescente complessità dei bisogni che, unita alla crisi finanziaria dello Stato, lascia diversi gruppi sociali sprovvisti di alcuna, o di una sufficiente, protezione. In Europa è stata lanciata nel 2010 nell’ambito del programma della Commissione Europea Unione dell’Innovazione per “trasformare le idee in occupazione, crescita e progresso sociale”, successivamente è stata inclusa nella Social Business Initiative, con lo scopo di promuovere l’imprenditorialità sociale, oltre che nel più recente programma di finanziamenti per l’occupazione e l’innovazione sociale (EaSI – Employment and Social Innovation). Quest’ultimo poggia su tre assi, di cui uno rappresentato da “microfinanziamenti e imprenditoria sociale”.

    Si tratta di impulsi che da un lato sono riconducibili all’obiettivo di aiutare lo sviluppo di imprese in campo sociale, così da trovare risposte ai bisogni compatibili con la riduzione della spesa pubblica. Dall’altro, rivolgendosi spesso alle categorie più a rischio di esclusione dal mercato del lavoro (o che fanno più difficoltà ad entrarci, in primis i giovani), promuovono l’«attivazione» di questi soggetti.

    A loro volta, questo genere di politiche possono essere inquadrate in un cambiamento più profondo che investe i sistemi di welfare europei già da un po’ di decenni. Mi riferisco, da un lato, al loro processo di localizzazione, di cui tra gli altri si sono occupati Andreotti, Mingione e Polizzi (2012). Dall’altro, al mutamento, efficacemente riassunto in un articolo di Saraceno (2013), delle visioni e dei concetti che informano oggi le politiche sociali, come quelli di «investimento sociale» e «attivazione».

    Iniziamo dal primo, che testimonia come l’obiettivo di trovare risposte ai bisogni sociali con meno risorse e il coinvolgimento di più soggetti, compresi i cittadini, non sia una novità introdotta dall’innovazione sociale. In breve, quella che viene definita come territorializzazione del welfare inizia già negli anni Settanta sotto diverse spinte, tra cui quella a sviluppare servizi pubblici più efficaci. Dagli anni Novanta, questo stesso processo inizia a muoversi su un doppio binario. Il primo è quello del retrenchment nascosto, cioè della riduzione della spesa e dello smantellamento del welfare attuati scaricando responsabilità e oneri, spesso insostenibili, sugli enti e le comunità locali. Il secondo è quello dello sviluppo di una nuova governance territoriale, cioè di un mix di attori (anche informali) coinvolti nella definizione e/o implementazione di politiche, servizi sociali e progetti.

    Nel frattempo sono mutati gli stessi concetti alla base del welfare, soprattutto per effetto dell’influenza esercitata dall’Unione Europea e dall’aumento della disoccupazione e delle condizioni di vulnerabilità sociale (legati ad esempio alla precarietà). È nel vertice di Lisbona del 2000 che l’UE ha introdotto la concezione di un welfare attivo cioè fondato sulla necessità che le persone si facciano carico del proprio benessere attraverso il lavoro. Riassumendo, se il “vecchio” welfare favoriva livelli più o meno elevati (a seconda del paese) di demercificazione (opportunità di soddisfare i bisogni al di là della propria posizione sul mercato), il nuovo welfare deve rimercificare, incentivando le persone a trovare risposta alle proprie necessità nel mercato. Se è così, lo Stato deve “investire” piuttosto che “spendere”. Una prospettiva molto diversa quanto significativa, poiché crea un nuovo e più stretto rapporto tra le politiche del lavoro e le politiche sociali.

    In questo quadro è emerso un rinnovato protagonismo delle città che va ben oltre gli ambiti di competenze formali che gli sono attribuite. Dunque molte si impegnano, come ricordato sopra, a promuovere i propri percorsi di innovazione sociale, in cui il bisogno a cui dare risposta è spesso proprio quello del lavoro delle nuove generazioni (sostegno alle start up), o percorsi che lavorano sul doppio fronte della ricerca di nuove risposte ai bisogni e lo sviluppo di proprie politiche attive del lavoro (start up sociali). In altre parole, l’innovazione sociale contribuisce a sollecitare maggiori responsabilità tra gli stessi cittadini nella creazione di nuovo lavoro e forme di auto-impiego, chiamando differenti attori locali (amministrazioni e privati di diverso tipo) a sviluppare, attraverso nuove collaborazioni, un ecosistema che sia il più possibile in grado di “attivare” gli individui. Una delle novità principali risiede nel fatto di vedere nello spazio lasciato vuoto dallo Stato e dal mercato un nuovo campo di “attivazione” (servizi alla persona, housing, educazione e così via).

    Non si può negare che investire sulle capacità e sulle idee è sicuramente una buona occasione per combattere lo scoraggiamento di molti giovani e impedire che creatività, risorse e risposte vadano sprecate, ma le criticità sono tante. Una di queste è rappresentata dal sostegno a nuove forme di individualizzazione dei rischi sociali, incentivando le categorie più vulnerabili ad attivarsi ma in presenza di un elevato rischio di fallimento e in un contesto caratterizzato da protezioni sociali limitate (o del tutto assenti).

    Un altro problema riguarda invece la riduzione dell’innovazione sociale a sinonimo di impresa (sociale) che, evidentemente, chiede alle idee di essere innovative ma allo stesso tempo le obbliga a muoversi all’interno dei vincoli delle imprese (in campo sociale molto più stringenti che in altri). Mi sembra cioè che in mezzo a tanta innovazione, le regole del gioco restino sempre le solite (e incontestate): leggi del mercato anche per il welfare (che resta in piedi solo per condizioni di bisogno estreme) e, quindi, arretramento dello Stato rispetto a quelli che, spogliati dalla veste di diritti sociali, restano “solo” bisogni. Se ci si muove sempre in un set di vincoli e opportunità, qui i primi sembrano rappresentare un bel macigno. Allora, premesso che non tutte le risposte ai bisogni sociali possono essere convertite in impresa, che influenza hanno questi vincoli sul contenuto delle idee?

    Come pesano sulle motivazioni individuali? E, soprattutto, che tipo di cittadinanza ne viene fuori? È più di un’impressione che questa risulti schiacciata solo sul fronte delle responsabilità e dell’attivazione e che la grande assente sia la sua dimensione politica? L’innovazione sociale nelle città può farne davvero a meno?

    Note