Innovazione sociale: una questione di metodo e di politica

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    Nel corso dell’ultimo anno sono stata invitata, come ideatrice di Cuntala/Pariqual, almeno quattro volte a rispondere a questionari relativi all’innovazione sociale o culturale. L’ho fatto con gran piacere e anche con un pizzico di orgoglio.

    Io vorrei porre una questione di metodo e una questione politica

    Nonostante questo, tutte le volte – e in maniera crescente via via che si susseguivano i questionari – mi sono domandata quale era stata la ratio secondo la quale mi avevano identificata, chi l’aveva fatto e secondo quali criteri, quali categorie di analisi stavano usando gli estensori della ricerca e se quello che portava a includermi nella rilevazione era legato al prodotto, al processo, agli esiti di quello che faccio. Devo confessare di non averlo ancora capito e la mia perplessità aumenta quando osservo chi sta dentro questi gruppi indagati.

    Il tratto comune che mi pare di rintracciare è che si tratta di attività spesso nate da pochissimo, perlopiù condotte da giovani o “quasi giovani” che fanno mestieri difficili da descrivere con meno di 10 parole e spesso con margini di ricavo che appaiono a prima vista risicati se non inesistenti.

    Ecco, io resto con la sensazione che si stia procedendo a tentoni e che tutti si stiano entusiasmando tantissimo per una formula che qualcuno ha  inventato (l’Unione Europea?) ma che non è chiaramente esplicitato in cosa consista, quali siano le finalità né perché ci piaccia tanto. Probabilmente il dibattito accademico è accorto e sta doverosamente analizzando il tema. Ma quello che mi interessa è restituire quanto arriva a livello di discorso pubblico, quello che passa dai media generalisti, e on line, che costruisce un sentire comune solido e influenza le politiche pubbliche più di quanto, riesca a farlo l’università o – e sarebbe parecchio meglio – una buona combinazione di sapere universitario e sapere da practictioner.

    Quando parliamo di innovazione sociale abbiamo in testa un concetto tanto sfumato che non sappiamo bene quali indicazioni ci devono guidare. Lo dico per esperienza perché quando nel corso di queste ricerche mi hanno chiesto di indicare dei nomi, ho chiesto di sapere a quali criteri dovevano rispondere i miei suggerimenti, ma mi è stato detto che non c’erano criteri espliciti. È come se l’innovazione fosse una cosa auto-evidente.

    Dunque il gruppo oggetto della ricerca si crea in questo strano modo auto-evidente. Ai soggetti di questo gruppo non si esplicita perché sono stati selezionati, né cosa il gruppo di ricerca intenda per innovazione sociale. Semplicemente gli si sottopongono alcune domande – ma nessuna che discrimina e che eventualmente dica: “alt se non hai le seguenti caratteristiche smetti di compilare perché non corrispondi al nostro gruppo di analisi” –  talvolta gli si chiede di auto-definire cosa è innovazione sociale.

    Nell’ultimo questionario che ho compilato mi sono ripetutamente domandata cosa avrebbero capito di me e della mia “innovazione”, se quello che interessava era la ragione sociale; le condizioni di lavoro; i soggetti destinatari delle azioni, il giro d’affari, o quanta parte del fatturato venga reinvestito in innovazione, o altro ancora, ma non l’ho capito. Penso che sia un poco di tutto questo e di nuovo mi sono chiesta, se in questa chiave di lettura “innovazione sociale” è qualsiasi cosa purché abbia a che fare col “sociale” (o con la cultura) che sia sperimentale e giovane?

    E soprattutto innovazione è solo se è una realtà piccola, autogestita? Anche questa è una questione di metodo. Come mai se quello che ci interessa è l’innovazione dentro questi gruppi indagati ci sono solo piccole realtà?

    Si può considerare innovazione culturale e sociale qualcosa di molto bello e ben pensato ma promosso da una grande Ong? Da una grande impresa? Da un sindacato? O direttamente da un ente pubblico? Queste domande ci costringono a domandarci dei “cosa e dei perché”. Cosa è innovazione sociale? Perché la riconosciamo come tale?

    A Parigi da tre anni a questa parte nei mesi estivi a Place de la Republique va in scena una ludoteca a cielo aperto. Un piccolo chiosco pieno di giochi da tavolo, una piazza invasa da grandi giochi da usare a terra o su tavolini rossi fiammanti con bellissime sedie sulle quali sedersi e leggere, giocare, chiacchierare. Per grandi e piccini. È gratis. Riempie il cuore. Lo porta avanti un’associazione nazionale che unisce più di 100 ludoteche in Francia e da personale regolarmente assunto e pagato. La finalità è fortemente sociale, il metodo fortemente innovativo, è una cosa che non si è vista (quasi) in nessuna città del mondo.
    È innovazione sociale? Perché questo genere di esperienze non entra più dentro il discorso sull’innovazione sociale? Forse perché se qualcosa è istituzionale e/o sostenuta economicamente in forte misura dall’ente pubblico sembra implicitamente in antitesi rispetto alla capacità di produrre innovazione?

    E qui si passa alla seconda questione: quella di carattere politico. Perché ci interroghiamo troppo poco su quali siano le condizioni (istituzionali, collettive e individuali) accettabili per produrre innovazione?

    Il cosiddetto “ecosistema dell’innovazione” è composto da esperienze piccole, fondazioni e al più da qualche impresa con centro di ricerca e qualche università. Ma siamo sicuri che sia davvero produttivo far sbizzarrire cervelli su processi e prodotti socialmente innovativi, lasciarli soli senza sostegni e vedere che succede? Ma soprattutto come si coordinano queste sperimentazioni con le politiche istituzionali?

    Ho un caro amico che insieme ad altri e ad altre si occupa di un bel museo in una città del sud. Le loro visite guidate sono bellissime, ricche e appassionanti; importante è lo sforzo che fanno per coinvolgere il quartiere limitrofo, costruire coesione, restare economicamente in piedi. Ma è corretto che a un singolo attore sociale si chieda sostanzialmente a costo pubblico zero, di ricoprire innovativamente tutte queste funzioni? È corretto che questo accada mentre le politiche nazionali ed europee prevedono costanti tagli e ridimensionamenti nei settori della cultura e del sociale? È giusto che questi operatori culturali proto-imprenditori di se stessi (in forma associativa, s’intende) si carichino, con entusiasmo, tutti i rischi connessi all’impresa e vivano con compensi ben sotto la media? L’importante sembra essere scatenare energie, speranze e idee che poi non si capisce chi e come raccoglierà e in quale cornice.

    È corretto che singole persone investano con i soli propri mezzi accettando tutto il rischio per innovare settori che – diciamocelo senza peli sulla lingua – per tenersi in piedi hanno assoluta necessità di finanziamenti pubblici come il sociale e la cultura?  Dando per scontato che il vecchio modello coi finanziamenti “a fondo perduto” non sia più praticabile e nemmeno auspicabile?

    Penso che sarebbe importante e molto innovativo dare spazio a quella visione che vuole che questi finanziamenti non siano rubricati come a “fondo perduto” ma piuttosto “quantificati” per i ritorni che riescono ad avere in termini di civismo e coesione e dunque di benessere generale – argomenti, questi ultimi, che non sono assenti dal dibattito in corso ma che poi restano a margine nelle pratiche di governo –; e penso che dentro il benessere dovrebbe esserci un compenso dignitoso per chi lavora e innova e welfare di sostegno per ogni bisogno.

    In mancanza di questi elementi a me sembra piuttosto di rintracciare una spietata coerenza tra l’innovazione sociale intesa come sforzo individuale senza rete e le politiche pubbliche fortemente restrittive. Lo dimostra il fatto che non di rado l’obiettivo è proprio quello di  produrre innovazioni capaci di rendere  economicamente “produttivi” il sociale e la cultura. Che detto in parole semplici significa che, tornando all’esempio del museo, ci piace lasciare una gruppo di 10 giovani a sperimentare forme innovative per animare un museo, e che questi forse riusciranno a inventare l’uovo di colombo che permette di continuare a sviluppare un sistema museale senza finanziamenti.

    Mazzucato afferma l’importanza del sostegno statale per costruire una robusta innovazione che sia di sistema

    E che tanto se non ci riescono ci va bene lo stesso perché il rischio è stato tutto loro e nel frattempo si è costruita una potente retorica che autorizza a “tagliare”, tanto più che delle condizioni di equità, di dignità economica e tutele relative ai singoli protagonisti della (tentata) innovazione non si interessa né lo Stato né loro stessi.

    Viene ancora un altro dubbio: che l’innovazione sociale di questa nostra epoca sia piuttosto qualcosa che non mette in discussione il modello economico ma che trova qualche piccolo correttivo per le sue distorsioni: non un sistema economico che produca meno povertà e meno sprechi, ma molte applicazioni e imprese sociali innovative (gestite da volontari) che salvano il cibo dagli sprechi e lo re-distribuiscono a chi ha di meno. Esiste dunque tutta narrazione intorno a queste figure di innovatori di frontiera che sfidano la crisi con la forza delle proprie buone idee.

    Non è difficile notare che la locuzione “innovazione sociale” e “innovazione culturale” si accompagna spesso a termini legati alla “crisi” e alla “scarsità di mezzi”. Si inferisce, più o meno direttamente, che è nella scarsità che si innova; che è come dire che la fame aguzza l’ingegno.

    Un punto di vista che pare diametralmente all’opposto con quello che racconta Mazzucato parlando di innovazione tecnologica. Mazzucato afferma, e argomenta, l’importanza del sostegno statale per costruire una robusta innovazione che sia davvero di sistema e non una toppa all’emergenza. E tutto nel suo volume sembra sostenere l’importanza di investimenti perché l’innovazione produca cambiamento ed economia.

    Ma la lettura delle pagine di Mazzucato ci svela anche la retorica della costruzione di un altro discorso pubblico – complementare a quello sugli innovatori sociali perché spinge, anche questo, verso l’one self made man. Mazzucato fa notare che anche quando lo Stato spende denaro e le imprese ottengono risultati economicamente rilevanti grazie al sostegno erogato, il discorso pubblico racconta comunque di imprenditori genialoidi e sfidanti che si muovono soli sulla scena dell’innovazione, che rischiano e investono.

    La pervicacia con cui questa immagine di singoli innovatori o imprenditori e questo modello di sviluppo vengono sostenute sia a fronte di situazioni in cui la spesa pubblica è ingente e, dunque, anche contro l’evidenza dei fatti, sia nel caso di tagli alla spesa è un punto molto importante su cui varrebbe la pena tornare a riflettere.

    Per proseguire sul tema dell’innovazione sarebbe utile far arrivare anche nel dibattito pubblico una seria riflessione sulle definizioni che ci solleciti a interrogarsi sugli obiettivi e condizioni dell’innovazione. Perché – ne sono convinta – avere spazi per sperimentare e innovare è una cosa bellissima che non va persa. A patto di domandarsi: cosa è innovazione (sociale e culturale)? Quali finalità ha? Come la riconosco e la misuro? Chi è attore dell’innovazione? E a quali condizioni la si può realizzare tutelando se stessi come lavoratrici e lavoratori e al contempo promuovendo un orizzonte effettivo di equità e di diritti e non contribuendo, invece, a una loro progressiva erosione?

     

    Foto di Kristopher Roller su Unsplash

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