Innovazione urbana. Milano può fare a meno di Macao?

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    Le città devono costantemente misurarsi con l’emergere di nuove istituzioni e nuove organizzazioni che rispondono a nuove necessità. Chiamatele, se volete, forme d’innovazione urbana.

    Il Centro per le Arti, la Cultura e la Ricerca Macao – che oggi è al centro di un complesso caso politico-amministrativo che rischia di concludersi con lo sgombero – ne è un tipico esempio. Nato nel maggio 2012 come esito di una mobilitazione dei lavoratori del mondo dell’arte, ha segnato un momento di forte innovazione rispetto alla tradizione milanese del rapporto tra movimenti sociali e spazi occupati. Se i centri sociali degli anni ’80, ’90 e 2000 avevano una filiazione diretta – per quanto complessa, articolata e talvolta contraddittoria – con il periodo de ”l’Orda d’Oro” (1968-1977), la prima occupazione di Macao era più vicina alle mobilitazioni assembleari che in quegli anni smuovevano Stati Uniti (Occupy) e Spagna (Indignados) e che in Italia prese la forma delle occupazioni dei lavoratori della cultura e dello spettacolo (Teatro Valle a Roma, Ex Asilo Filangeri a Napoli e molti altri).

    Si tratta di realtà contigue al mondo dei Centri Sociali, che ne condividono in parte metodi e pratiche ma che hanno tra i propri obiettivi costitutivi due punti-chiave che per le occupazioni “tradizionali” erano solo accessori: la mobilitazione diretta dei lavoratori della cultura e la costituzione di poli indipendenti per le arti, la musica e la cultura.

    In questo senso, quindi, esperienze come Macao hanno più punti di contatto con omologhi internazionali come il !Wowow! di Peckham, il Kunsthaus Tacheles di Berlino, il 59 Rue de Rivoli di Parigi o il Metelkova di Ljubljana che non con importanti luoghi storici dell’underground politico come il Cox 18 o il Leoncavallo a Milano o il Forte Prenestino a Roma.

    Come e ancora più che per questi ultimi, quindi, il destino dei centri culturali indipendenti occupati chiama in causa la governance culturale di una città. Si tratta di vicende complesse che hanno implicazioni sia sul livello delle grandi questioni di principio che su quello estremamente pragmatico delle norme.

    Giusto per inanellare una serie di questioni, a cui non si può pretendere di rispondere in queste poche righe ma che non ci si può esimere di affrontare nella costruzione della governance culturale di un territorio:

    È giusto occupare illegalmente spazi non utilizzati? Ed è giusto farlo solo quando sono pubblici (come pubblica è l’attuale casa di Macao, l’ex Borsa del macello di Milano) o anche quando sono privati (come nel caso della prima clamorosa occupazione dei 33 piani della centralissima Torre Galfa)?

    Gli eventi organizzati in questi spazi devono essere sempre e costantemente gratuiti o devono avere un “prezzo sociale”? In questi casi è legittimo pensare ad un “auto-reddito” o ogni prestazione deve avvenire a titolo puramente volontaristico?

    Il rapporto con il quartiere ed il territorio di riferimento è importante per esperienze che spesso nascono in zone ex-industriali? Cosa è auspicabile e da quale punto di vista?

    Questi spazi costituiscono una forma di concorrenza sleale nei confronti di esperienze interamente regolamentate i cui costi di gestione sono molto più alti o svolgono piuttosto il ruolo di enzimi di sperimentazione che possono essere poi ripresi e sistematizzati?

    A chi e in che misura spettano le spese di messa a norma di quegli spazi che rappresentano il lascito – meraviglioso, decadente e scomodo – della città fordista?

    Quali tipi di relazioni possono intercorrere tra le istituzioni riconosciute, la pubblica amministrazione e organizzazioni che hanno scarsa o nessuna ufficialità?

    Esperienze di questo tipo costituiscono un baluardo della società civile nei confronti della ratio puramente speculativa del mercato immobiliare o fungono piuttosto da avanguardie per processi di gentrification che in tempi brevi impoveriscono i tessuti urbani che li hanno generati?

    Non sono domande con le quali si confronta solo Milano: la maggior parte delle grandi metropoli occidentali ha provato a rispondere in questi ultimi vent’anni con soluzioni che non sono mai binarie (si o no; giusto o sbagliato) ma dipendono sempre da variabili culturali, politiche, sociali ed economiche e da complessi sistemi di forze e di poteri situati nello spazio e nel tempo. Sono domande che si stanno riproponendo anche in questi giorni, negli articoli di giornale e sui social network. Nei dibattiti che si stanno infiammando abbondano però appelli ai massimi sistemi o questioni di lana caprina; nessuno dei due approcci sembra particolarmente utile in questo momento.

    Guardando a quello che succede a Milano, Italia, sul finire del 2018 ci sono piuttosto tre evidenze ineludibili che costituiscono il presupposto di base per ogni scelta su questa particolare forma di innovazione urbana.

    La prima è che Macao è un luogo insostituibile nella costituzione del panorama culturale della città. Quando viene un amico dall’estero che ha già visto il Castello Sforzesco, lo Stadio o Il Duomo dove lo porti? A Macao. Nonostante il rilancio degli ultimi anni – e nonostante il lavoro finalmente internazionale che stanno facendo alcune istituzioni ufficiali e un numero crescente di organizzazioni più o meno “dal basso”- senza Macao Milano perderebbe uno dei suoi pilastri del Contemporaneo. Niente più residenze artistiche. Niente più concerti di musica più o meno sperimentale e niente più performance teatrali (incalcolabili, ma sicuramente nell’ordine delle migliaia). Niente più festival come Saturnalia, che con le sue 30 ore e 47 performance è diventato uno dei punti di riferimento qualitativi su scala europea. Niente più, insomma, produzione e distribuzione di una parte significativa di opere che vivono in circuiti paralleli e complementari a quelli ufficiali puramente di mercato.

    Se Milano vuole provare ad essere davvero una città di rilievo internazionale non può permettersi il lusso di privarsi di un luogo di questo tipo. Tocca rimboccarsi le maniche e pensare ad un percorso comune.

    La seconda ha a che fare con lo spreco di capitale umano, e si comprende meglio se si guarda in retrospettiva al percorso seguito dagli attivisti dei Centri Sociali più tradizionali. All’inizio degli anni ’00 Milano era, assieme a Roma, un’avanguardia europea nella costruzione di modelli ibridi di aggregazione politica e socio-culturale che erano in grado di leggere ed agire le trasformazioni del contemporaneo. Luoghi come Pergola, Garigliano e il Bulk non erano solo spazi di aggregazione che riunivano ogni fine settimana decine di migliaia di giovani per metterli a confronto con la produzione culturale di Londra, Berlino o New York. Erano anche laboratori di costruzione di competenze professionali all’insegna dell’interdisciplinarietà e del bricolage: hacking, scenografia, design, organizzazione e comunicazione di eventi. Saperi che sono alla base delle economie immateriali e che sono stati dispersi quando centinaia di attivisti sono emigrati nella seconda metà degli anni ’00 in seguito al disastro gemello della repressione istituzionale e della crisi finanziaria. Si tratta di una sciagura che una città che aspira ad essere nodo globale deve assolutamente evitare di ripetere.

    La terza riguarda la natura stessa di quell’innovazione che sembra essere così importante nello storytelling della Milano d’oggi.

    Ogni territorio si trova continuamente di fronte a scelte politiche che mettono in discussione il rapporto tra spazi di cittadinanza e nascita di nuove istituzioni. Si può optare per un approccio legalista e top-down e sancire che le uniche forme di azione politica, culturale ed economica possibile sono quelle che nascono, crescono e muoiono all’interno di uno stretto sistema di norme date, oppure si può decidere che il sistema di leggi è un insieme di strumenti in divenire che deve costantemente accettare le sfide che vengono poste da ciò che si trova attorno – e perché no, al di là – di quello che è consentito.

    Alla luce del quadro reazionario della politica italiana ed europea – che guarda caso negli ultimi tempi gioca sempre di più sul crinale di un legalismo peloso – Milano non può non trovare una strada che consenta alle forme di innovazione dal basso di nutrire il resto della società.

    Note