Intellettuali di se stessi

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    Due polarità sembrano attrarre e determinare le forme di esercizio di buona parte del lavoro intellettuale oggi: la visibilità e la valutazione. Sappiamo che la visibilità – intesa innanzitutto come visibilità del proprio “profilo” sul mercato del lavoro e delle professioni intellettuali – costituisce la vera retribuzione di quel lavoro gratuito che tiene in piedi interi comparti come quelli dell’università, del giornalismo, dell’editoria, e non solo: il reputation management e l’accumulo di “capitale relazionale”, utili a guadagnare un posizionamento di alta visibilità personale, soprattutto nei social network, sono considerati, più in generale, come leve strategiche nell’ambito delle pratiche di organizzazione e gestione di impresa.

    Pubblichiamo un estratto dall’ultimo numero di Aut Aut

    La possibilità di trovare altre occasioni di lavoro è direttamente proporzionale alla visibilità del proprio profilo, pertanto l’intensificazione della sua luminosità costituisce un capitolo decisivo nell’ambito della gestione imprenditoriale della vita da parte dell’intellettuale di se stesso, e giustifica il suo pesante investimento in lavoro non retribuito (il che, naturalmente, contribuisce a deteriorare sempre di più le condizioni salariali del lavoro intellettuale, innescando e continuando ad alimentare un degradante gioco al ribasso).

    Ma forse non è questo il punto, o quanto meno non si tratta solo di questo: i casi di bancarotta delle imprese personali per eccesso di lavoro gratuito, così come l’esplosione delle bolle formative e finanziarie, o i crack esistenziali che sgretolano le pratiche di indebitamento personale, non sembrano disincentivare più di tanto l’investimento in visibilità e lavoro non retribuito. Probabilmente non è solo in termini di razionalità economica e di calcolo degli interessi che si può rendere conto del rapporto fra operosità del lavoro intellettuale e visibilità.

    Il discorso è simile per ciò che concerne la questione della valutazione. Sia che si parli delle pratiche di reclutamento a scuola o all’università, di accesso ai finanziamenti per la ricerca, o di pubblicazione di un articolo su una rivista scientifica, buona parte del lavoro intellettuale partecipa alla cultura della valutazione meritocratica in cui ci troviamo, ed è sottoposto alla situazione di esame e competizione permanenti che essa istituisce.

    Anche qui si riscontra una proporzionalità inversa fra le reali possibilità di accesso alle carriere che tali dispositivi consentono e il livello di partecipazione degli individui ai processi di valutazione e autovalutazione.

    A onta di una scarsissima probabilità di ottenere un posto di lavoro attraverso le meritocratiche procedure di reclutamento, la valutazione è tuttavia continuamente invocata, o per lo meno tollerata, come se il problema non fosse quello di cambiare le forme di organizzazione del lavoro intellettuale in modo da superare sia la penuria di risorse economiche – a fronte, peraltro, di un’intellettualità sempre più diffusa – sia gli effetti di individualizzazione e concorrenza che tali procedure determinano, bensì quello di mettere finalmente a punto una valutazione buona e giusta, oggettivamente meritocratica.

    Come nel caso della visibilità, la razionalità strumentale non spiega il fascino discreto della valutazione, anzi: in nome delle leggi del mercato, il buon imprenditore di se stesso dovrebbe abbandonare il business della ricerca e separare il suo cammino da quello dell’intellettuale di se stesso.

    il capitale detenuto dall’intellettuale di se stesso deve trovare adeguate occasioni di misurazione

    In entrambi i casi, sembra essere in gioco una modalità di costruzione ascetica e autodisciplinata del sé. Prima di tutto, il capitale umano detenuto dall’intellettuale di se stesso deve trovare adeguate occasioni di misurazione: egli deve disporre di specifici dispositivi di valutazione in grado di restituirgli una misura oggettiva del proprio “potenziale” e dell’investimento su se stesso realizzato nel corso di una vita.

    In secondo luogo, la continua esteriorizzazione di sé attraverso un’opera oggettivata in un curriculum visibile e valutabile, secondo i modi e le forme che i regimi di visibilità e di valutazione istituiscono puntualmente, fornisce un’immagine speculare che chiama all’identificazione e alimenta l’illusione di unità, compattezza e centralità dell’Io, la sua ansia di controllo e sorveglianza – ciò che con Lacan potremmo chiamare l’“Iocrazia” dell’intellettuale di se stesso.

    Il lavoro intellettuale come Beruf trova nell’accoppiata visibilità- valutazione l’occasione della propria auto-remunerazione – sorta di motore immobile e fine in sé –, vale a dire la possibilità di trovare conferma e sostegno alle proprie identificazioni narcisistiche, di scoprire la propria “anima” mediante lo stesso gesto che la produce, insieme alla propria vocazione e al proprio merito, come se questi fossero, oggi, i nomi della grazia.

    Quest’ultima non è garantita solo dallo sgravio di una confessione, come direbbe Weber, ma dalla messa in pratica di una forma di vita specifica e particolare che coincide con l’intellettuale di se stesso visibile, produttivo e competitivo, all’interno dell’economia della conoscenza.

    E la grazia non ha prezzo, come dimostrava il fallimento del cottimo nelle fabbriche di un secolo fa e come attesta oggi, nel campo del lavoro intellettuale, la disponibilità al lavoro gratuito e il risentimento che spesso anima le proteste dei knowledge workers, allorché non lamentano tanto il peggioramento delle proprie condizioni materiali di lavoro – il che li accomuna a tutti i lavoratori precari e sfruttati – quanto il mancato riconoscimento di ciò che li distingue, cioè del proprio merito.

    Così il lavoro (intellettuale) non cessa di essere un campo di battaglia in cui si affrontano forze oggettivamente e soggettivamente antagoniste: la produzione in comune di idee e di pratiche di trasformazione collettive insieme alle forme di privatizzazione e neutralizzazione che confermano e consolidano gli individui che già siamo.

    Ma perché l’etica del lavoro intellettuale, incardinata sulla coppia visibilità-valutazione, dovrebbe avere a che fare con lo “spirito del capitalismo”, o per lo meno con le modalità di sfruttamento del lavoro in generale nel capitalismo neoliberale e postfordista?

    Probabilmente proprio per via della capacità che essa rivela nell’annodare soggettivazione e assoggettamento (e relative pratiche), facendo vacillare questa coppia intorno alla quale siamo abituati a organizzare il pensiero critico che si esercita sulla questione della soggettività. È qui che l’etica del lavoro intellettuale si mostra all’altezza della governamentalità (neo)liberale, essendo il (neo)liberalismo quell’arte di governo in grado di confondere disciplina e tecniche di sé, fabbricando e poi devolvendo ai governati gli strumenti necessari alla propria soggettivazione (o si tratta di un assoggettamento?).

    Perché l’etica del lavoro intellettuale dovrebbe avere a che fare con lo sfruttamento del lavoro nel postfordismo?

    La disciplina, il sequestro del tempo, la “continuità del punitivo e del penale”, la produzione di un tessuto di buone abitudini come strategia di moralizzazione del lavoro di cui Foucault parla nel 1973 – e poi in Sorvegliare e punire – fanno sicuramente parte di questa scatola di attrezzi. Ma la disciplina, in fondo, non è che un caso specifico nella storia delle tecniche di produzione di quella “prigione del corpo” che si chiama “anima”, di quella “realtà-riferimento” (“psiche, soggettività, personalità, coscienza, ecc.”) che continua a costituire la posta in gioco di ogni attività di governo.

    Oggi, ciascuno è chiamato a lavorare incessantemente per fabbricare la propria anima individuale attraverso i dispositivi di visibilità e valutazione, a produrla come “schermo”, “vetrina”, raddoppio tanto fantasmatico quanto “veritativo” del sé su una superficie visibile: il diario di una pagina di Facebook, il dossier da consegnare al valutatore di turno o il resoconto di sé necessario a convincere un fornitore di reddito precario e/o di riconoscimento professionale sono solo alcuni degli innumerevoli esempi della possibilità di costruirsi un corpo incorporeo, un corpo-simulacro, che funzioni come significante visibile della propria verità.

    Quando banalmente si dice che si accetta di lavorare a condizioni umilianti “per la visibilità” o per “fare curriculum” non si afferma soltanto una scelta di differimento strategico del godimento, ma si lascia intendere che la posta in gioco di tale lavoro è una costruzione ascetica del sé, dell’imago sui, della propria verità in quanto soggetti: valori d’uso e valori di scambio in un mondo di identità liquide e cangianti e in cui la propria visibilità, l’intensità della luce che promana da ogni individuo o che ogni individuo riflette, rappresenta il vantaggio competitivo di ciascuno contro l’altro.

    Persino nel management delle risorse umane, la posta in gioco delle tecniche di sviluppo della motivazione al lavoro diviene la costruzione di un’autentica “immagine di sé” mediante una batteria di strumenti manageriali di (auto)valutazione della personalità, della propria biografia, delle competenze e del potenziale individuale di sviluppo, essendo l’immagine di sé una straordinaria sorgente di motivazione “interna”, indipendente, come tale, dalle condizioni esterne di tipo salariale.

    A prescindere dalle figure concrete del lavoro, ma su un piano di immanenza rispetto a tutte, il lavoro come Beruf, il lavoro moralizzato secondo un’etica di cui l’intellettuale di se stesso è campione e modello, sembra corrispondere all’istanza di fabbricazione di un’anima bella e vera, compatta ma trasparente, visibile e seducente, competitiva e performante, identificabile e riconosciuta, autovalorizzante e autoremunerativa – l’anima come capitale umano.

    Scollegare la funzione intellettuale dalla funzione individuale e abolire l’idea che l’intelletto sia una prerogativa assoluta di un individuo

    È su questo piano che tutto il lavoro diventa quasi intellettuale, ma non tanto perché tutto il lavoro si arricchisca di conoscenza e contenuti immateriali, quanto perché è l’etica del lavoro intellettuale che dispensa le linee guida per la moralizzazione del lavoro di tutti.

    Insomma, il patto che unisce intellettuale e imprenditore di sé è siglato da una modalità di conduzione della propria vita che non ammette dissipazione né tempi improduttivi – come nelle fabbriche della disciplina –, e che sublima il lavoro indefesso in vocazione e merito, portando in dono la grazia di un’individualizzazione.

    È una storia antica che inizia all’alba del capitalismo industriale, percorre la produzione fordista per poi riconfigurarsi, attraverso l’askesis della visibilità e della valutazione, all’interno di un’arte di governo e di un’organizzazione del lavoro che richiedono a ciascuno di prendersi cura del proprio assoggettamento (o si tratta di una soggettivazione?), di assumerne la responsabilità, di esserne attore protagonista come soggetto della performance eccellente e della valorizzazione del proprio capitale umano.

    E visto che sappiamo bene quanto l’individuo non venga mai prima delle pratiche in seno alle quali si produce, non resta che cambiare quelle pratiche, e precisamente quelle che mettono in ordine il caleidoscopio del lavoro intellettuale. Forse è anche il caso di mettere fra parentesi la questione stessa della soggettivazione di questa figura del lavoro finché non avremo cambiato, o forse distrutto, le pratiche concrete che sostengono l’intellettuale di se stesso come caricatura dell’individuo neoliberale, ben sapendo che annunciare la necessità di trasformare una pratica – come sto facendo io in questo momento – non coincide con il farlo, e che ripetere senza sosta l’appello marxiano alla trasformazione del mondo è forse il miglior modo per schivarne la responsabilità.

    intellettuali di se stessiSicuramente il problema di fronte al quale ci troviamo non è uno scoglio facile da aggirare – nella misura in cui fa tutt’uno con la cultura liberale che ci appartiene –, trattandosi nientemeno che del problema di scollegare la funzione intellettuale dalla funzione individuale e di abolire l’idea che l’intelletto – come i diritti, peraltro – sia una prerogativa assoluta di un individuo che si autentica nella competizione economica.

    Ma come si diceva all’inizio, riprendendo e parafrasando le parole del giovane Marx, spetta alla vita e alla sua politica il compito di risolvere le opposizioni che si presentano nel discorso: per sopprimere l’idea della proprietà privata dell’intelletto, basta completamente il comunismo ideale, ma per sopprimerne la proprietà privata reale, occorre un’azione comunistica reale

    Estratto dal saggio di Massimiliano Nicoli, L’etica del lavoro intellettuale e lo spirito del capitalismo contenuto nell’ultimo numero di Aut Aut. Intellettuali di se stessi. Lavoro intellettuale in epoca neoliberale a cura di Dario Gentili e Massimiliano Nicoli

    Note