La rigenerazione sociale come nuovo paradigma

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    La crisi dei regimi democratici non riguarda solo le istituzioni politiche in senso stretto (partiti, assemblee parlamentari, ecc.), ma investe, seppur con diversa intensità, anche altri attori sociali ed economici, in particolare quelli che pur essendo di natura privatistica operano per il perseguimento di finalità pubbliche e mutualistiche (terzo settore, cooperazione, ecc.).

    È quasi un paradosso se è vero che, da più parti, si moltiplicano i segnali dell’avvento di un nuovo paradigma dove a prevalere è l’interesse generale che viene riconosciuto e praticato non tanto ex lege ma a partire dal “riuso” di sistemi di regolazione e meccanismi di scambio di natura collaborativa e cooperativa. O forse non è un paradosso nella misura in cui a mutare sono le condizioni base a livello socioeconomico e culturale, ovvero gli ingredienti per definire e sottoscrivere un nuovo “contratto sociale” in una fase post ideologica dove lo spettro dei bisogni, delle risorse e delle aspirazioni tende a segmentarsi sempre più e a ricomporsi intorno a meta concetti come “sostenibilità” e “innovazione sociale” che fanno da cornice, molto labile, per coalizioni temporanee a misura di obiettivo.

    Non è un caso che negli ultimi anni si siano moltiplicati i tentativi di costruire modelli di governance multiattoriale, soprattutto su scala locale. Sempre meno sperimentazioni che operano in posizione ancillare rispetto alla pratica amministrativa del governo con mere funzioni consultive e sempre più modalità di programmazione strategica, di produzione congiunta e, non da ultimo, di generazione e distribuzione di risorse economiche per cofinanziare l’offerta di beni e di servizi di interesse collettivo.

    Un percorso tutt’altro che concluso e che anzi richiede ulteriori approfondimenti anche guardando alle forme giuridico – organizzative, come dimostra, ad esempio, l’utilizzo “creativo” delle fondazioni di partecipazione per la regolazione e gestione del welfare, della produzione culturale, delle risorse ambientali e delle infrastrutture. Fondazioni che con la riforma del terzo settore e dell’impresa sociale si candidano ad assumere un ruolo guida come veicolo di ibridazione tra pubblico e privato e tra mercato e reciprocità.

    La rigenerazione sociale, da questo punto di vista, non fa eccezione, anzi è un epicentro di questo campo istituente. Ad alimentare queste pratiche, infatti, sono, da una parte, processi dal basso che rappresentano in modo sempre più evidente una domanda di spazi da riconvertire a nuove forme d’uso collettivo disintermediando i classici passaggi della “società civile organizzata”: riscoprono il valore dell’informale e/o rigenerano le stesse forme giuridiche, come ad esempio il carattere di “promozione sociale” dell’associazionismo e la capacità della cooperazione di mutualizzare non i fattori alternativi di produzione o di consumo ma l’interfaccia (touch point) tra domanda e offerta.

    D’altro canto si evidenzia un processo altrettanto significativo in direzione top down che riguarda in particolare l’offerta di beni immobili da parte di istituzioni pubbliche e private, animate da necessità contingenti – rimettere in circolo asset altrimenti “incagliati” – e, in diversa misura, da obiettivi di natura politico-strategica che rimandano alla necessità di produrre valore autenticamente condiviso con la cittadinanza e le comunità locali. Pena il rischio di essere additati come organizzazioni “estrattive” piuttosto che come costruttori di coesione. Un problema che interessa da vicino le imprese, in particolare quelle di capitali, laddove l’eccesso di massimizzazione e concentrazione del valore prodotto e la discontinuità e residualità delle pratiche di responsabilità rischiano di metterle “fuori mercato” rispetto a modelli di consumo e di controllo che premiamo proprio il carattere coesivo.

    Ma che investe anche amministrazioni pubbliche la cui azione può essere, essa stessa, di natura estrattiva in quanto sempre più determinata da esigenze contingenti – spending review – e da portatori di interesse predefiniti, come un “votante mediano” che peraltro è sempre meno categorizzabile termini di comportamenti e aspettative.

    Dall’incrocio tra questi due potenti processi ci si aspetterebbe un “mezzanino” in termini di organizzazione e governance in grado di contemperare policy making e capacità gestionale innovando i significati e il paniere dei beni di pubblica utilità. Un salto di qualità che, in effetti, è di natura paradigmatica perché consiste nel passaggio dalla delega di competenze e fornitura in outsourcing di beni pubblici all’affermazione di modelli di co-gestione nell’alveo dei beni comuni, risolvendo così il trade off tra efficienza e qualità vs partecipazione diretta e allargata in senso multi-stakeholder.

    A fronte di questo risultato atteso, nella maggior parte dei casi a predominare sono però modelli dove le componenti della governance più che fertilizzate sono separate: tavoli allargati con funzioni di programmazione, soggetti gestori per la produzione di servizi e la gestione infrastrutturale, pratiche soft di natura “regolamentare” per la partecipazione della cittadinanza attiva. A ricombinare tutto questo, o a tentare di farlo, sono team o singoli professionisti impegnati in funzioni di gestione e sviluppo di comunità.

    Sono figure centrali e insieme periferiche: attivano le coalizioni dal basso, ma non ne fanno parte; disegnano e gestiscono servizi ma non come prestazioni; siedono ai tavoli della governance ma senza detenere “golden share” rispetto all’allocazione delle risorse. In sintesi sono dimensioni di ruolo che restituiscono insieme opportunità e rischi e che, così facendo, definiscono il carattere imprenditivo di chi oggi fa community management e organizing. Inoltre permettono di individuare elementi di consolidamento e sviluppo professionale agendo su un triplice versante.

    In primo luogo nelle organizzazioni che si occupano di gestione di proprietà immobiliari e di facility management la componente “community” assume un ruolo sempre più determinante come fattore di cambiamento sia a livello di know how che di capacità manageriale ad ampio raggio. In secondo luogo la capacità di elaborare feedback competenti rispetto alle dinamiche bottom up rappresenta una risorsa preziosa in termini di conoscenza tacita al fine di evitare la deriva autoreferenziale del “dialogo istituzionale” finalizzato alla programmazione.

    Infine l’accompagnamento alla costituzione di coalizioni dal basso consiste non sono in una facilitazione di processo tendenzialmente neutrale, ma nella produzione di due importanti risorse che connotano le comunità attuali: una leadership aperta e inclusiva e una capacità di investimento sociale delle risorse disponibili.


    Questo contributo apre una serie di approfondimenti in collaborazione con il Master U-RISE dell’Università Iuav di Venezia sul rapporto tra rigenerazione urbana e innovazione sociale. Vuole discuterne gli impatti socio-spaziali, raccontare pratiche virtuose e allo stesso tempo imparare da ciò che non ha funzionato. I docenti del Master U-RISE Marcello Balbo, Adriano Cancellieri, Ezio Micelli e Elena Ostanel (Università Iuav di Venezia), Martina Bacigalupi (The Fund Raising School), Paolo Venturi (AICCON) e Flaviano Zandonai (Euricse) ci accompagneranno in queste settimane con le loro analisi e riflessioni. Buona lettura.

    Note