Laboratori urbani e produzione di città

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    Il concetto di laboratorio urbano è una delle innovazioni politiche più in vista di quest’ultimo periodo: sempre più spesso ai progetti di rigenerazione immobiliare si affiancano veri e propri progetti di ricerca votati a trovare soluzioni innovative a problematiche urbane, siano esse di natura ecologica, economica o logistica. Questo fa si che, nel discorso sullo sviluppo urbano, scienza e città siano presentati come fenomeni affini, del resto non sarebbe possibile gestire un’urbanizzazione planetaria senza le infrastrutture fisiche, catene logistiche e le scelte di planning che vengono costantemente prodotte e sperimentate nelle città contemporanee.

    Inoltre il discorso e la pratica della scienza contribuiscono anche a legittimare la forma politico-economica della città. Basta considerare uno qualunque dei molteplici rapporti sulla competitività urbana: l’enfasi posta sulla produzione scientifica, sul funzionamento delle università e sul sistema locale della scienza è assolutamente critica. Le posizioni nei ranking designano una vera e propria graduatoria secondo la quale può divenire più o meno conveniente investire in un determinato tessuto urbano in funzione delle infrastrutture della conoscenza presenti.

    Anche adottando uno sguardo rivolto verso il futuro risulta difficile ignorare che la qualità della vita nelle megalopoli future sarà determinata da come i vari governi locali sapranno promuovere la sperimentazione sui temi della governance digitale, della sharing e della zero carbon economy.

    Per queste ragioni, sempre più spesso, vengono attivati a tutti i livelli programmi di ricerca, trasformando alcune porzioni di città in un laboratorio entro cui le istituzioni locali, siano esse amministrazioni pubbliche, enti di ricerca pubblici o privati possano produrre soluzioni per gli interrogativi di politica urbana più pressanti. Diventa quindi sempre più importante per comprendere la città, capire come questa viene analizzata e prodotta nei laboratori.

    Uno degli approcci di maggior successo allo studio della pratica scientifica nell’ultimo trentennio è quello degli Science and Technology Studies (STS), una serie di filoni di ricerca evolutisi in un rapporto di reciproca contaminazione. Il rappresentante più in vista di questa tradizione è Bruno Latour che, negli anni ‘80 e ‘90, ha fornito nuova energia allo studio della scienza, considerando il laboratorio come luogo privilegiato di osservazione della cosiddetta scienza in azione. Gli studi di Latour e colleghi hanno permesso di riconoscere le caratteristiche politiche e sociali della produzione di conoscenza scientifica: il laboratorio non rappresenta solo il luogo deputato all’applicazione del metodo scientifico, ma anche e soprattutto il centro di una rete di relazioni con altri enti e individui che hanno facoltà di influenzare il progetto di ricerca.

    Il laboratorio rappresenta il luogo da cui lo scienziato parte per costruire e successivamente trasmettere la propria visione del mondo alla società, promuovendo la propria interpretazione dei fatti empirici secondo criteri che siano, al tempo stesso il prodotto delle pratiche di laboratorio e il prodotto di una logica di imprenditoria politica volta ad affermare la bontà della propria visione.

    I laboratori urbani tuttavia sono parzialmente differenti dai casi presi in esame dagli STS in quanto l’oggetto di riflessione è già in sé profondamente politico poiché la pratica scientifica ha lo scopo di fornire risposta a degli interrogativi di policy. Comprensibilmente anche il rischio di utilizzare la scienza come discorso legittimante di rapporti di forza preesistenti si fa più concreto.

     

    Per comprendere appieno le articolazioni del laboratorio fattosi elemento di produzione dello spazio urbano diventa rilevante il filone di ricerca dell’economia politica urbana: coltivato da sociologi, economisti eterodossi e geografi. Un approccio che produce una critica radicale a quello adottato da Latour e colleghi. Il principale problema individuato da chi adotta le categorie dell’economia politica per analizzare le trasformazioni urbane è la gestione del potere. Secondo Scott Kisch e Don Mitchell gli approcci latouriani pur svelando la natura politica della produzione scientifica, producono una rappresentazione dispersa del potere. Le epistemologie adottate dai ricercatori, e gli artefatti prodotti dalla tecnologia rendono possibili approcci di ricerca e ne scoraggiano altri; ciascun nodo della rete, simultaneamente costringe a e rende possibile un determinato esito delle procedure di ricerca.

    Questa modalità secondo gli studiosi di derivazione neo-marxista, ignorerebbe il ruolo della stratificazione del potere ossia, se è pure vero che può essere difficile individuare una centrale di comando, nella logica dello sviluppo tecnologico è altrettanto vero che alcuni nodi, per usare una metafora orwelliana, sono più eguali degli altri in quanto rappresentano il precipitato di istituzioni, delle loro agende politiche e della loro capacità di monopolizzare risorse scarse.

    Ogni esperimento commissionato a un gruppo di ricerca, ogni artefatto tecnologico, ogni app in grado di strutturare il funzionamento di un’area urbana è il risultato di una negoziazione fra scienziati, ingegneri, istituzioni politiche e finanziatori. É quindi possibile che una determinata scelta di progettazione rifletta maggiormente – ad esempio- una preoccupazione per i valori fondiari, piuttosto che riflettere democraticamente le preferenze dei cittadini; oppure è possibile che un determinato esperimento, ignori, più o meno consciamente, i desideri di alcuni stakeholder, semplicemente perché marginali rispetto al processo decisionale.

    Bas van Heur, cercando una sintesi fra queste due posizioni, propone una nuova prospettiva sui laboratori urbani, in un recente contributo scientifico, contenuto in un numero monografico dell’importante rivista International Journal of Urban and Regional Research, si occupa di decostruire il concetto di ‘laboratorio urbano’. Il suo lavoro unisce l’attenzione all’osservazione ‘in vivo’ della pratica della scienza, alla capacità di inscrivere le concrete pratiche di ricerca, attuate nei laboratori urbani, nella rete di potere che struttura le politiche urbane. Seguendo la linea di ricerca proposta da van Heur diventa quindi possibile comprendere il perché di determinate scelte metodologiche, oppure capire per quale ragione è importante indagare una particolare problematica, tutto questo alla luce delle istituzioni e delle pratiche politiche che hanno definito il campo di ricerca.

    Il lavoro di van Heur riarticola il concetto di ‘laboratorio urbano’ come sito in cui sono prodotte non solo sperimentazioni scientifiche ma in cui si coltivano gli embrioni delle scelte politiche del futuro. Per questa ragione fare ricerca critica sui laboratori urbani non significa solo chiedersi se un determinato progetto sperimentale, ad esempio di ‘riconversione verde’ dell’economia locale possa essere in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati, significa anche, e soprattutto, chiedersi come questi obiettivi sono stati formulati e cosa significano per tutti coloro che dalla definizione degli obiettivi sono rimasti esclusi.

    Una riflessione sulla costruzione sociale della scienza è assolutamente urgente: non si tratta esclusivamente di colmare un ‘buco’ nella letteratura. Nella misura in cui il metodo scientifico contribuisce a formare e legittimare le decisioni di policy e se, per giunta, ci si vuole assicurare che la scienza, la tecnologia e le pratiche di laboratorio producano benessere per il più ampio numero possibile di persone, diventa indispensabile l’utilizzo delle scienze sociali, per comprendere in che modo e in che condizioni si formi la pratica della scienza. È solo creando gli strumenti per ‘aprire’ i laboratori urbani che diventa possibile fare un bilancio completo delle pratiche di innovazione, assicurando contemporaneamente un incentivo al progresso tecnologico e una governance plurale e partecipata dei processi di innovazione.

    Bas van Heur (Vrije Universiteit Brussel)  sarà ospite di Laboratorio Expo il 12 febbraio  a Milano alle ore 16.30. Presso l’aula Pagani (edificio U7) dell’Università Bicocca con lui discutono Marc Pradel (Universitat de Barcelona) e Gabriele Pasqui (Politecnico di Milano). Coordina i lavori Marianna d’Ovidio (Università di Milano-Bicocca)

    Laboratorio Expo è un progetto di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ed Expo Milano 2015 curato da Salvatore Veca.


    Immagine di copertina: ph. Wenhao Ryan da Unsplash

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