L’assenza della lotta: Amazon e la globalizzazione

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    Vorrei partire da due questioni molto differenti, che però possono permettere di aggiungere un pezzetto al vasto dibattito che si è sviluppato attorno alla vicenda del brevetto dei braccialetti Amazon (per una ricostruzione, si rimanda qui). Sono due storie distinte, ma che presentano un tratto comune, e restituiscono una parte spesso assente in questo dibattito.

    La prima è una storia che attraversa tutta la sponda sud del Mediterraneo, all’inizio degli anni dieci. Le proteste che agitarono (e che ancora agitano) Tunisia, Libia, Marocco, Giordania Egitto e Siria, e che sfociarono nelle cosiddette “Primavere arabe” avevano alcune parole chiave: hurreyah, karemah, watania.

    Se libertà (hurreyah) e nazione (watania) sono concetti tradizionali che hanno accompagnato i moti di rivolta contro l’oppressione politica, il concetto che più mi aveva colpito era karemah, che significa dignità. Allo Stato, agli stati, si chiedeva a gran voce di riportare la dignità del lavoro, dei diritti economico-sociali al centro del dibattito, perché le condizioni di sfruttamento, l’incapacità di poter scegliere, crescere, indipendentemente dal proprio livello di istruzione, era inaccettabile a tutte le latitudini. Di tutte le richieste, quella della dignità è rimasta forse la più inevasa, perché le condizioni strutturali e materiali hanno reso difficilissimo arginare una situazione che, nei fatti, è peggiorata dal punto di vista economico a causa dell’instabilità prodotta dalle rivolte.

    Facciamo un salto di spazio e di contesto, torniamo in Italia, in Lombardia. Alcuni anni fa, in uno degli intervalli stipendiali del mio precariato universitario, ho condotto le misurazioni dello stress lavoro-correlato per un’azienda che gestiva residenze sanitarie assistenziali. Quei mesi di questionari ed interviste, di focus e osservazione, mi hanno offerto una lezione molto importante su le forme, le pratiche e le modalità del lavoro.

    Molti dei miei interlocutori erano ASA, operatori sanitari assistenziali, un lavoro che si qualifica attraverso un corso di formazione, molto logorante nel corpo e nello spirito perché costringe il lavoratore a confrontarsi quotidianamente con la sofferenza umana, la fatica fisica di spostare persone non autosufficienti, la gestione completa della cura, in ogni suo aspetto, anche quello più degradante.

    Ad un certo punto, il direttore di una delle strutture, per ragioni gestionali aveva ridotto il minutaggio settimanale di queste figure. 5 minuti in meno al giorno di lavoro, che andavano a sottrarre quasi un’ora lavorativa alla settimana. Questa riduzione era possibile, perché i dipendenti stavano già lavorando al di sopra del minutaggio previsto. Ma questa diminuzione oraria aveva anche un costo, un’ora in meno pagata la settimana, quattro ore in meno al mese. Una differenza risibile in busta ma fondamentale nelle economie quotidiane di quei lavoratori, che avevano deciso di avviare una protesta per poter lavorare di più. Quell’esperienza mi ha segnato moltissimo nello sguardo disincantato che ho oggi nei confronti del lavoro, e dell’idea di scelta.

    La levata di scudi alzatasi in questi giorni sulla vicenda Amazon anche tra le pagine di cheFare, dimentica un pezzo centrale, ossia quanto le condizioni strutturali e le vite quotidiane dei lavoratori abbiano, di fatto, resa possibile l’accettazione di qualunque condizione, anche quella del totale controllo sul proprio operato, sulla produttività, già macchine produttive prima di essere sostituite dalla meccanizzazione totale del lavoro.

    Perché è questo un punto centrale che dobbiamo tenere a mente: per ridurre lo sfruttamento non basta l’indignazione morale, la denuncia pubblica, le piccole forme di boicottaggio, come avvenuto con Foodora. Queste azioni rappresentano parziali interventi che lasciano il tempo che trovano, proprio perché è la qualità delle vite quotidiane, l’odioso e insostenibile costo della vita a rendere accettabile anche l’inaccettabile, a renderci lavoratori sempre disponibili poiché impossibilitati ad un’alternativa.

    Perché se l’alternativa è il non lavoro e quindi la non sostenibilità della propria vita, ogni lavoro diventa accettabile e preferibile. Quell’ipotesi di una sconfitta raccontata da Falco, in cui il lavoro si svuota di senso, si frammenta così tanto da perderne i contorni, mescolandosi alla vita tutta, al suo senso. Non scrivo questo sposandone la logica, ma solo per evidenziare che quella condizione di sfruttamento, se preferibile al resto, sarà accettata, e non ci sarà nessuna coscienza dell’inaccettabilità, se non esiste alternativa possibile.

    Nel mondo globalizzato, con imprese delocalizzate e diseguaglianze incomparabili sia negli stessi contesti che nel medesimo momento, un’alternativa che preveda forme sfruttamento per raggiungere la massima produzione al minor costo possibile sembra sempre possibile. Perché è necessario distinguere il lavoro dallo sfruttamento, ma è fondamentale rendere quello sfruttamento inaccettabile e prevederne delle alternative. E questa riflessione vale tanto per il lavoro non qualificato che per il cognitariato, perché il tema della dignità del lavoro non può essere scisso dal tema della scelta.

    Per questo il ragionamento sul reddito di base incondizionato è centrale e necessario tanto quanto la critica cogente delle pratiche aziendali e tayloriste di Amazon. Perché è quella sostenibilità che può permettere a quelle pratiche di essere realmente rifiutate, e può riportare al centro la dignità, condizione fondamentale e imprescindibile del lavoro, vera conquista delle lotte. E per poter parlare di dignità è necessario uscire dalla totale necessità del lavoro.

    Dalla grandissima questione del caporalato che interseca, spesso, produzione e migrazione a quella del lavoro a cottimo legati al capitalismo delle piattaforme, ai lavori di logistica, fino alle forme di precarizzazione perenne del lavoro cognitivo il tema della dignità diventa tema di esistenza. Perché anche per dire che non si tratta di lavoro, ma di sfruttamento, è necessario creare le condizioni materiali di scelta.

    Alessandro Leogrande chiudeva il suo fedele e appassionato racconto del caporalato in Puglia evidenziando l’assenza della lotta. “È la violenza, la disumanità delle relazioni, la bestialità della sopraffazione, il considerare quei sei, sette, dieci euro, che altri contano e ricontano santamente, più importanti della loro esistenza”. Se vogliamo parlare di lavoro oggi, e io credo che si debba farlo più che mai, tra le nubi di questa odiosa campagna elettorale, si debba partire da lì. Da come rendere le esistenze più importanti, e libere di poter ritenere lo sfruttamento inaccettabile, e le lotte doverose.

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