Le mille anime della città

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    Capita di rado che ci si interroghi sui fondamenti della propria esistenza e questo vale in maniera simile anche per i fondamenti professionali. A cosa serve il mio lavoro? In che cosa consiste realmente? Qual è la sua essenza?

    Si tratta di domande complicate, che spesso presuppongono che si sia in grado di rispondere, che questi interrogativi facciano realmente parte della nostra vita quotidiana. Sappiamo bene che non è così, che esattamente come per andare in bicicletta non bisogna pensare a quali azioni coordinare, pena la caduta, altrettanto nel nostro lavoro è meglio andare avanti senza troppo interrogarsi sul suo senso complessivo.

    Per queste ragioni, quando si ha il coraggio di chiedersi Perché costruiamo?, come ha fatto recentemente Rowan Moore (Why we build, Londra, Picador, 2012), si tratta in ogni caso di uno sforzo salutare e importante. Moore è principalmente un critico d’architettura e architetto lui stesso e le varie ragioni che individua comprendono ragioni materiali, come gli aspetti finanziari della committenza, il bisogno di “portare a casa la pagnotta” o le volontà di potenza di architetto e committente, ma anche ragioni più immateriali, come il desiderio di rimanere iscritti nella storia attraverso lo spazio, di dare un’interpretazione erotica della propria vita attraverso le forme del costruito o di rispondere al bisogno primordiale di produrre quel rifugio che chiamiamo convenzionalmente casa.

    La prospettiva di chi legge le architetture da un punto di vista interno alla disciplina, come Moore, è necessariamente simpatetica, per quanto possa essere critica. Gli stili, le logiche e le pratiche che presiedono all’edificare hanno una loro coerenza naturale per chi, come si diceva all’inizio, è parte della professione e vive di essa. In un certo senso, colpiscono di meno, stupiscono poco, sono parte dell’orizzonte mentale. È proprio per questa ragione che uno sguardo esterno diventa utile. In particolare quello che offrono le cosiddette “scienze sociali”.

    Sotto il cappello delle scienze sociali troviamo la sociologia, l’antropologia, la geografia, la scienza politica, la storia e l’urbanistica, giusto per elencare quelle che si interessano più da vicino dell’architettura, delle architetture e degli architetti. Cosa offrono dunque queste discipline?

    La mia proposta è di prendere come esempio un caso abbastanza recente di intervento architettonico, il PalaFuksas di Piazza della Repubblica a Torino, e di guardarlo con gli occhi delle discipline citate in precedenza. Si tratta infatti di un caso esemplare di intervento iconico, effettuato in un centro storico sottoposto a sua volta a un vasto insieme di interventi di riqualificazione urbana. Iniziato nel 1998 e terminato nel 2005, è stato però inaugurato solo nel 2011 e dopo una serie estenuante di polemiche e discussioni. Si tratta, come spesso è il caso delle architetture di Fuksas e, più in generale delle cosiddette archistar, di un edificio che rompe la continuità architettonica della piazza e degli altri tre edifici destinati a mercato coperto, con la sua facciata di vetro e acciaio a sbalzi e la presenza imponente. Insomma, un tratto di matita che si inscrive con una certa prepotenza in una delle piazze più grandi di Torino e, soprattutto, più note, trattandosi della celebre e spesso famigerata Porta Palazzo.

    Questo intervento, come infiniti altri in altrettante città del pianeta in questo nuovo millennio, è rivelatore di molti aspetti, e getta una luce, se ben illuminato, su processi e dinamiche che osserviamo contemporaneamente ovunque. Innanzitutto è il prodotto di un bando di gara pubblico, e questo ci indirizza sulla via dell’analisi delle politiche pubbliche di riqualificazione, sul ricorso, in molti casi obbligato per legge (e dunque promosso dallo Stato o da forme statuali sovranazionali, come l’Unione Europea), a meccanismi di selezione che favoriscono certe forme organizzative, come i grandi studi di architettura internazionali a scapito sia delle competenze interne alle istituzioni locali che degli studi privati locali, spesso più piccoli ma non necessariamente meno innovativi (che si vedono “sorpassati a destra” da Foster, Rogers, Hadid o Piano).

    La natura pubblica del bando ci permette di osservare anche le modalità individuate da attori pubblici e privati nel ridisegnare la città contemporanea a partire da progetti e non più da pianificazioni. Le infinite varianti ai PRG e la diffusa convinzione che si debba operare sul tessuto urbano con microchirurgie estetiche, proprio come accade con l’individuo contemporaneo, sono dei prodotti storici, delle convenzioni che rimandano a concezioni che operano adesso, ma non nel passato, e non è detto che rimarranno in futuro (sperabilmente, a parere di chi scrive).

    Sempre continuando con l’analisi della “lampada di Aladino” – così battezzata dai suoi ideatori, ora nota come Centro Palatino e, durante la transizione, come PalaFuksas – possiamo prendere in considerazione le controversie che l’hanno segnata, a partire dalla destinazione d’uso che è mutata tra 2005 e 2011: da centro commerciale (per i precedenti affittuari del padiglione abbattuto) a spazio museale (per un fantomatico Museo del Cioccolato), luogo di esposizioni e, infine, nuovamente centro commerciale. Le controversie illustrano, come un prisma, le diverse facce degli attori in gioco, dalle associazioni dei commercianti al Comune, ai diversi attori politici e privati, ognuno con la propria strategia, concezione del luogo e del pubblico. Questo è chiaramente un terreno privilegiato per la sociologia, ma anche per l’antropologia e la scienza politica. Chi doveva decidere? Quali erano gli interlocutori legittimi? Sulla base di quali criteri andava effettuata una scelta? Che rapporto intercorre tra progetto e contesto?

    Proseguiamo proprio dalla nozione di contesto e di luogo. Qui sia la geografia che l’urbanistica trovano dei terreni d’elezione ideali, dove mostrare gli effetti che un edificio simile produce nello spazio, ma anche le retroazioni che lo stesso spazio genera sull’edificio, alterandolo inesorabilmente e integrandolo, in forme spesso non prevedibili, nel contesto. La città di Torino pre-olimpica, con le sue manie di grandezza (e gli indebitamenti che ne conseguono) e la voglia di essere sempre on the move, si è dovuta, ad esempio, confrontare con il piccolo assembramento di taxisti abusivi nigeriani e senegalesi che stazionavano davanti al Centro Palatino (e lo fanno tuttora) per offrire un servizio più economico e “utile” a molta cittadinanza locale, in larga misura straniera, che non il ristorante panoramico pensato da Massimiliano e Doriana Fuksas.

    Le piste d’analisi sono dunque infinite, potrebbero riguardare la genealogia del progetto, come le questioni finanziarie o quelle puramente estetiche.


    Da L’Architetto

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