Le librerie indipendenti sopravviveranno soltanto grazie alla fiducia e al mutualismo

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    Due punti, due serrande abbassate – L’ultimo giorno “normale”, del prima, è stato sabato 7 marzo. Poi – giorno dopo giorno, decreto dopo decreto – ci siamo spenti, non da soli. Il 12 e il 13 marzo abbiamo incassato (a lockdown già iniziato)  47 e 33 Euro, corrispettivi della somma dei titoli richiesti da amici del quartiere o da parenti. Da lì nient’altro. Perdita di fatturato secca del 100%.

    Abbiamo abbassato le serrande della nostra piccola libreria indipendente (70 mq circa, due soci come i punti del nome, 3.000 titoli a scaffale) dopo diciotto mesi di attività frenetica e gioiosa, fatta di una miriade di presentazioni, di un quotidiano lavoro di animazione di comunità, di errori ma anche di preziose scoperte.

    Eravamo – anzi siamo, senza nessun tipo di tristezza – soddisfatti della nostro percorso culturale e imprenditoriale, che possiamo descrivere come fragile ma sostenibile. Oggi, ancora nel pieno della crisi sanitaria e con quella economica che mostra i suoi primi – epocali – segnali, siamo tra i molti che si chiedono come (e se) potranno ripartire. E nel tempo che abbiamo “guadagnato” fuori dal negozio non smettiamo di interrogarci a proposito di noi stessi e della filiera editoriale di cui siamo felici di essere parte.

    Abbiamo abbassato le serrande della nostra piccola libreria indipendente dopo diciotto mesi di attività frenetica e gioiosa

    Soggetti fragili, non proprio resilienti

    Le librerie indipendenti non se la passavano bene neppure prima del Covid19. Soggette ai mali di stagione (le oscillazioni del mercato, il brutto tempo) e tra le prime a essere colpite dalle grandi trasformazioni del commercio digitale (Amazon proprio dai libri partì…), dal 2016 a oggi si calcola siano 2.300 le librerie che hanno gettato la spugna.

    A chi è andata peggio – come per la Pecora Elettrica a Roma – l’attacco non è stato solo economico/finanziario ma addirittura terroristico, con i locali e i volumi dati alle fiamme per ben due volte. Soggetti fragili quindi che non potevano certo pensare di passare indenni la tempesta perfetta di un virus globale e invisibile che abbatte i livelli di domanda e offerta di qualsiasi bene all’infuori di medicinali e cibo e che  – nel tentativo di circoscrivere il contagio – annienta la socialità e la mobilità di cittadini e cittadine, interrompendo i legami relazionali di prossimità che sono la vera (e forse unica) matrice distintiva delle librerie indipendenti.

    Gli impatti di questa crisi li stanno provando a quantificare librai e libraie, editori ed editrici molto più esperti e capaci di quanto posso esserlo io. Tra fiere e festival annullati o rimandati, calendari delle uscite stravolti e scenari difficili da decifrare ora dopo ora il mondo dell’editoria non appare particolarmente resiliente e – proprio per questo motivo – l’intervento di Paolo Canton va accolto come una sollecitazione al confronto da non lasciar cadere.

    Tentativi nel mare silenzioso, ma in tempesta

    Il giorno della chiusura sono uscito dalla due punti con uno scatolone contenente una quarantina di libri, tra nuove uscite e titoli che erano in sospeso nei miei programmi di lettura. “Armato” per la quarantena e pronto a suggerire – in collaborazione con la mia socia Elisa – un paio di letture al giorno attraverso i nostri canali social (Facebook e Instagram) e la nostra newsletter, fin dall’inizio strumento privilegiato di una comunicazione il più possibile coinvolgente.

    Tutto attorno – nel mare silenzioso, ma agitato, dell’Italia e del mondo – in molti provavano a mettere in campo strategie capaci di dare continuità al lavoro, pur in assenza dello spazio fisico dei negozi. Quasi immediatamente hanno cominciato a far capolino incontri virtuali con autori e autrici (una vera valanga di podcast, web radio, conferenze tramite Zoom, ecc.) e parallelamente si è attivata quella che è stata definita “solidarietà digitale”, con un numero crescente di case editrici disponibili a offrire gratuitamente o a costi molto contenuti pezzi dei loro cataloghi in formato ebook.

    C’è poi chi, non pochi, ha voluto mantenere accesa anche la scintilla della fisicità, da un lato attivando sinergie con edicole amiche (come fatto a Rovereto dalla libreria Arcadia) o – giocando sul filo delle norme ballerine contenute nei decreti – proseguendo in un capillare lavoro di consegna a domicilio, come sperimentano gli splendidi libertari sorridenti di Edicola518 a Perugia. Su questi ultimi due metodi, con l’aggiunta della possibilità di utilizzare il mitologico piego di libri, ci stiamo orientando in questi giorni anche noi per togliere il freno a mano che tiene bloccata la nostra libreria e per permetterle di riprendere una minima andatura nell’attesa di capire quali saranno le tempistiche per l’allentamento delle restrizioni in atto. Ponendo le basi di questa fase interlocutoria ed emergenziale non abbiamo smesso di osservare il contesto dentro cui si inserisce. Eccone alcune riflessioni, in forma aperta.

    Filiera bloccata, filiera da rifare?

    Ho letto volentieri la disamina di Paolo Canton sulle falle della filiera editoriale attuale. Non mi ritengo pronto (per via della gavetta ancora in corso…) a controbattere alle sue affermazioni, cui mi limiterò a far riferimento cercando di allargare le questioni sul campo.

    Per quanto riguarda le varie figure della filiera editoriale più che il non riconoscimento delle professionalità in campo la sensazione (in libreria noi beneficiamo di un 50% di forniture dirette e di un 50% da grossista) è quella che a sommarsi siano eccessive concentrazioni di potere – e presunte rendite di posizione, oggi incrinate – in diversi ruoli della catena e l’incapacità di mettere a valore i possibili punti di collaborazione nel percorso che va dalla penna dell’autore allo scaffale. Dentro questo corto circuito competitivo credo si inserisca la difficoltà di utilizzare una sola voce (di sistema) nei confronti del legislatore, non riuscendo a essere sufficientemente incisivi rispetto alle sue scelte, anche dove queste sono da guardare con vivo interesse.

    Se da un lato infatti è un bene che si riduca la possibilità di applicare sconti sul prezzo di copertina – come imposto dalla nuova legge appena entrata in vigore – questa misura rischia di diventare debole o controproducente se parallelamente non si spiega il perché la si attua affiancando a essa uno sforzo comune per abbassare, in partenza, il costo dell’oggetto libro e dispiegare a ogni livello un investimento massiccio e sensato per campagne di avvicinamento – non moraliste e giudicanti, ma sfidanti e coinvolgenti – alla lettura, tanto individuale quanto collettiva.

    Sappiamo tutti che Amazon è il principale competitor, quello più aggressivo e con le armi più affilate. È passato un po’ in sordina nei mesi scorsi il tentativo del colosso di Jeff Bezos, partito anni fa dalla consegna a domicilio del libro, di proporsi oggi anche come fornitore grossista per le librerie. Il prodotto si chiama Amazon Business e gioca sui quattro grandi temi d’interesse per qualunque libraio: ampiezza del magazzino, migliore scontistica, tempi di consegna e libertà nei tempi e nei quantitativi delle rese. A quando i primi franchising Amazon, soprattutto nei contesti più periferici e più bisognosi di agilità e facilità nei servizi? Il mio ovviamente non è un auspicio.

    Il nuovo senso della Cultura, dentro le comunità

    Per mia deformazione ho bisogno di mettere a fuoco il senso profondo di una situazione per chiarirmi le idee su quali possono essere i modi per reagire a essa.

    Cosa sono e cosa dovranno essere le librerie indipendenti? A mio modo di vedere non più (solo) punti vendita di libri diversi, selezionati accuratamente e raccontati con passione. Certo continueranno a essere i luoghi privilegiati per la ricerca dell’ignoto ignoto, lì dove gli amici/cittadini/clienti possono vivere la meraviglia di trovarsi di fronte a un titolo di cui non conoscevano l’esistenza e che – per quanto può un libro – migliorerà un poco la loro vita. Va tenuta viva questa indispensabile funzione, che va contornata d’altro.

    Come ricordava bene Paolo Venturi nel suo webinar, dedicato al Terzo tempo della cooperazione sociale, l’innovazione è “l’esplorazione dello spazio reale e l’allargamento dello spazio del possibile”. Su questo doppio binario come librai avevamo, abbiamo e avremo il compito di muoverci. Assumendoci il compito ibrido e generativo di artigiani della comunità, protagonisti di una coesione sociale che partendo dalla cultura incide sul benessere dei quartieri e delle relazioni che li tengono vivi.

    Contribuendo alla ricostruzione di reti di fiducia e mutualismo, restituendo e migliorando gli strumenti collaborativi delle esperienze di vicinato, tanto in termini di valori fondanti che di servizi offerti. A questo proposito potrebbe fare la differenza – parlo anche per la nostra piccola libreria – scegliere forme sociali adeguate alla sfida (cooperative? cooperative di comunità?) e dotarsi di leve fiscali ed economiche funzionali al contesto della prossimità (che ne pensano gli amici di Sardex? come potrebbero aiutare le Fondazioni, bancarie e non?).

    Romano Montroni intitolò un suo prezioso libro dedicato al lavoro del libraio Vendere l’anima. Oggi quell’anima va probabilmente ricostruita sulla base dello spirito del tempo. Quelli che ho elencato spero possano essere spunti utili non solo a sopravvivere al caos dentro il quale siamo finiti  – di sopravvivere non possiamo accontentarci – ma per assumere il rischio come condizione di passaggio per contribuire, cito sempre Paolo Venturi, alla “trasformazione delle regole del gioco: la società, l’economia e le politiche.”

    Un ultimo accenno, prima di concludere

    Il 2020 – con l’annullamento addirittura di Olimpiadi e campionati europei di calcio, oltre alle già citate fiere e festival – ci offre l’opportunità di ripensare i modi di progettare e costruire eventi e attività culturali nelle nostre città. Nella nuova legge sull’editoria si fa riferimento alla Capitale del libro. Perché per questo primo anno – così complicato e anomalo – non immaginarci tutti parte di una rete di Capitali culturali, diffuse e tra loro in comunicazione? Potremmo in questa maniera – unendo energie e fantasia – ridefinire l’idea di distretti culturali, di rigenerare l’essenza dei Festival, restituendo loro la capacità di essere riconosciuti e attraversati oltre i confini angusti dei mondi culturali tradizionali.

    Un terreno di sperimentazione necessario, subito

    Abbiamo bisogno di una grande alleanza per affrontare questo tempo. Non difensiva ma progettuale. Non resistente ma visionaria. Non impaurita ma combattiva. Il campo è pieno di macerie certo, ma anche di un capitale sociale ricchissimo e variegato che deve sperimentare e sistematizzare le proprie energie, idee e desideri. Va fatto ora.

    “Non sarà la lettura a salvarci dal Coronavirus, ma la cultura ci può dare fondamenta più solide per ricostruire”. Parola di Marina Berlusconi. E se lo dice pure lei, come non crederci. Diamoci da fare.

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