Lingue e linguaggi al museo

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    L’andirivieni fra testo scritto e oggetto, fra linearità del racconto e tridimensionalità dello spazio, fra codici diversi: musei come attivatori di processi linguistici ma anche, in senso stretto, come luoghi in cui imparare o consolidare una lingua straniera.

    Su questa possibilità si sta avviando, con tempi diversi a seconda delle appartenenze geografiche, una riflessione molto ricca a livello internazionale, anche a seguito della “crisi dei rifugiati” che, vista la minore mobilità a scala europea, costringe a riflettere su strumenti per facilitare la comunicazione con chi non vede prospettive immediate di partenza verso un’altra destinazione, quella che magari si era sognata al momento della partenza. Stranded, si dice: prima in qualche carcere libico, poi in qualche centro di accoglienza europeo.

    C’è poi il tema dell’anchilosi linguistica in persone arrivate magari venti o trenta anni fa: che hanno imparato quello che serviva loro per la vita quotidiana, ma che spesso stentano a fare il salto verso un linguaggio più articolato per mancanza di tempo, di strumenti culturali o, spesso, di occasioni.

    Può, il museo, diventare una di quelle occasioni? In virtù di quali sue caratteristiche, scelte, posture? Con quale tipo di mediazione? E soprattuto, al fondo: in che modo relazionandosi con la “diversità culturale”, ovvero: ponendola come un tema forte che taglia, quasi implicitamente, anche gli aspetti curatoriali, comunicativi, educativi, o considerandola un punto su una mappa di azioni da compiere?

    E dove inizia, dove finisce questa diversità: ci basta parlare di migrazione, o si sceglie piuttosto di scalare il tema sul quartiere o sul territorio di appartenenza, su questioni di genere, di scelte politiche, di orientamento sessuale, di appartenenza religiosa, insomma di tutto quello che compone, dal grande al piccolo, la cartografia delle diversità culturali fra singoli?

    Semplificando, la polarizzazione è fra la tensione a “coinvolgere” i migranti, per lo più proponendo programmi nella loro madrelingua, e la concezione del museo come spazio educativo in cui apprendere alcuni contenuti nella lingua del paese d’accoglienza.

    Da molti anni il Tenement Museum di New York, che ha trasformato in museo un edificio del XIX secolo in cui hanno vissuto immigrati di varie provenienze, propone workshop di lingua inglese attraverso il progetto Shared Journeys. Si tratta di visite tematiche agli appartamenti che compongono l’edificio, cristallizzati in un momento della loro vita grazie a una capillare ricerca storica che ne ha recuperato arredi, storie, senso, e li ha restituiti alla città attraverso lo strumento esclusivo della visita guidata.

    Il museo mette a disposizione di chi partecipa a Shared Journeys delle schede pre-visita scaricabili online, una pubblicazione con risorse post-visita e un gioco virtuale, To Be an Immigrant. Il Tenement, che ha un discorso politico molto esplicito, ribadito anche recentemente in occasione del travel ban indetto da Trump, ospita regolarmente anche le cerimonie di naturalizzazione dei migranti.

    Il Louisiana di Humblebaek, in Danimarca, un museo di arte contemporanea, ha sviluppato in collaborazione con la Croce Rossa Travelling with art, un progetto per adolescenti rifugiati premiato nel 2016 come CECA Best practice (una descrizione scritta dalla responsabile di progetto, Line Ali Chayder, si trova anche in Best practice 5. A tool to improve museum education internationally, 2016).

    Qui la lingua viene veicolata da temi forti, da un approccio che immerge nel museo, e più in generale da un investimento forte a monte da parte dell’istituzione. I punti di forza del progetto sono la lunga durata, l’attivazione di processi creativi come il disegno e la scrittura e, soprattutto, il riferirsi ai ragazzi in quanto tali, non in quanto temporaneamente rifugiati. Quest’ultimo è un punto cruciale: troppi progetti educativi, sia con i minori che con gli adulti, insistono sul tema della migrazione come un nodo identitario insuperabile, un atto primario da cui non ci si scinde mai più.

    Troppi progetti insistono sugli oggetti d’affezione, la nostalgia, la memoria, le tradizioni, la “comunità” (tema, quest’ultimo, scivolosissimo, perché parte dalla presunzione dell’esistenza di comunità nazionali come strutture coese e solidali, fatto che semplicemente non si dà e che corrobora una narrazione fasulla e rassicurante, eppure cui molti operatori sembrano irrimediabilmente affezionati).

    Sono tutti spunti fondamentali, certo, ma che forse un migrante non vuole sentir ribadire per tutta la vita. Il museo offre in questo senso un filtro metaforico importante: si parla di arte e in filigrana di sé; si parla di antropologia e in penombra della propria storia; si cuciono nessi fra le collezioni e la propria traiettoria, ma sottovoce, magari individualmente, spesso su tempi lunghi e con epifanie imprevedibili.

    C’è poi il tema speculare della mediazione “in lingua”, ovvero quella offerta per i cittadini migranti o stranieri nella loro madrelingua, che ricade sotto il più vasto ombrello dell’accessibilità. Al Museo Egizio di Torino è stato promosso Fortunato chi parla arabo, che dal 19 dicembre scorso fino al 31 marzo di quest’anno regala una gratuità ogni due visitatori di origine araba, di prima o seconda generazione, dietro presentazione di un documento di identità.

    linguaggi, museo

    Sono circa 33.500 le persone di madrelingua araba regolarmente residenti nella Provincia di Torino (di cui 4.700 egiziani); circa 24mila nel solo Comune.

    Per comunicare questo progetto, in collaborazione con l’agenzia Etnocom, sono stati formati degli “ambasciatori” che sono andati nei quartieri maggiormente vissuti dai cittadini arabi, frequentandone mercati, centri islamici, negozi, caffè, centri di aggregazione e distribuendo materiale in lingua.

    Oltre a ciò, sono state attivate una campagna di affissioni (nelle edicole dei quartieri selezionati e sulla rete dei mezzi pubblici) e una campagna display e social.

    Inoltre è stato sviluppato un progetto, sostenuto dalla Compagnia di San Paolo, finalizzato alla formazione di un gruppo di mediatrici arabofone in partnership con MiC-Mondi in Città.

    Che impatto hanno tutte queste azioni? Il punto non è la mera bigliettazione. Si tratta di una scelta forte da parte del museo, una postura culturale, un investimento di lungo corso.

    È un invito, che ha senso in quanto tale. “L’Italia ha l’onore e l’onere di custodire una collezione che ha la sua conditio sine qua non nel suo Paese di provenienza, l’Egitto”, ha detto il direttore del Museo Egizio, Christian Greco. “Il rapporto costante tra soggetto e oggetto è ciò che può unire persone di provenienza socio-culturale diversa e che aiuta a riflettere su un’esperienza comune”.

    La traduzione in varie lingue – italiano, inglese e arabo – dei testi di sala e di quelli delle videoguide (in sette lingue) è un pendant importante, e non scontato, di questo atteggiamento; così come la presenza di personale di sala che parli anche l’arabo.

    Multaqa: Museum as Meeting Point ha formato delle guide provenienti da Iraq e Siria per offrire visite in lingua ai rifugiati in alcuni musei statali berlinesi (Museum für Islamische Kunst, Vorderasiatisches Museum, Skulpturensammlung, Museum für Byzantinische Kunst e Deutsches Historisches Museum).

    Il progetto, che è offerto gratuitamente e senza prenotazione con cadenza bisettimanale, ha avuto una grande copertura mediatica ed è stato pluripremiato.

    Qui la riflessione forte di fondo è che il museo, e non il singolo manufatto, sia un dispositivo critico attraverso cui leggere connessioni: fra religioni, pagine di storia, culture.

    Le visite non sono lezioni itineranti ma piuttosto contenitori dialogici, attivatori di conversazioni, spazi di educazione fra pari.

    Alla singola occasione si affianca un programma di incontri e workshop aperti sia a rifugiati siriani e iracheni che al pubblico germanofono con lo scopo di costruire una riflessione condivisa sulla storia tedesca in relazione con l’Oriente; sul museo come luogo di definizione delle identità; sui punti di convergenza e di frizione delle culture, e così via.

    Questo volet di lungo respiro, che esce dall’occasionalità della singola esperienza e porta insieme pubblici diversi, sembra davvero il valore aggiunto di un’esperienza che, al di là del suo appeal, rischierebbe diversamente di essere solo un bello slogan, ma di non costruire nulla sul lungo periodo.

    Questa, infatti, è la svista dei progetti di mediazione in lingua: il pubblico dei visitatori migranti può forse andare al museo una volta, se è interessato anche più d’una, ma in questo momento storico sembra necessario riflettere su politiche culturali di lungo corso, non su singoli episodi.

    Lavorare – al museo – sui concetti di cittadinanza, di diversità e affinità; non sempre e solo di migrazione ma piuttosto, a seconda delle collezioni, di città, genitorialità, educazione, politica, salute. Temi comuni a tutti, che tolgono dal cono d’ombra della “diversità”, in fondo uno stigma.

    Ma perché il museo? Perché è (anche) una scuola, certo. Perché è uno spazio protetto in cui sperimentare e mettersi in bilico senza la dinamica frontale e necessariamente valutativa dell’aula. Perché è, per definizione, un ambito di apprendimento informale.

    Perché riassume le dinamiche dello spazio pubblico – le regole, l’orientamento, le consuetudini, il gruppo – contenendole entro il perimetro educativo anche grazie alla presenza di facilitatori, che appunto mediano quelle regole. E non è la questione, trita e ritrita, della conoscenza del patrimonio locale: non è (solo) portando classi di migranti al museo archeologico che si comunicherà loro il senso, il percorso e le dinamiche della storia italiana, magari sottintendendo la tensione fra un “noi” e un “loro”. Va fatto anche quello, ma non basta: e può essere perfino dannoso, se non inserito dentro una prospettiva culturale ampia e articolata.

    Più importante, mi pare, sia per i neoarrivati che per chi ha una storia migratoria più lunga, sia il museo come metafora, come pezzo di città non diverso dalla città stessa ma depurato da certe sue asperità. In questo senso si parla spesso di uno “spazio sicuro”, una stanza tutta per sé in cui sperimentarsi, giacché le sensazioni positive e la curiosità abbassano quel “filtro affettivo” che inibisce l’apprendimento(Krashen, 1988), o almeno la comunicazione orale.

    La glottodidattica ci dice ormai da vent’anni che l’immersione in un contesto reale è la condizione per un apprendimento rapido e radicato (De Marco 2000; Balboni 2008; Diadori 2011). Le prove di realtà valgono più dello studio della grammatica. Sembra scontato, ma solo pochi anni fa si preferiva un insegnamento fondato sulle norme, in cui la comprensione delle regole di base della lingua era considerata la precondizione per poter aprire bocca in un contesto linguistico diverso da quello di origine: si insegnavano le lingue vive come le morte.

    Perché il museo, dunque? Proprio perché è il luogo dei realia: di oggetti, opere, manufatti veri, di cui imparare nomi e usi, da rapportare alla propria esperienza, su cui porre domande; oggetti caratterizzati da bassa ambiguità linguistica, “genuini” (Coonan, 2002).

    L’acquisizione di un nuovo lessico, facilitata dalla componente visiva ed emotiva propria del contatto diretto, si aggiunge il ricorso a funzioni-linguistico cognitive quali la descrizione, il confronto, la classificazione, e così via. Come scrive Irit Rogoff, il museo, allora, come “luogo della possibilità, luogo della potenzialità”.

    Può diventare una retorica anche questa. Ma si prova a evitarla, partendo da sperimentazioni e verificando, applicativamente, che cosa può funzionare e che cosa no.

     

    Quando il Museo del Novecento di Milano è stato inaugurato, nel 2010, ha avuto l’intuizione di prevedere, nel suo programma educativo, dei percorsi realizzati con approccio interculturale. Con la cooperativa ABCittà abbiamo progettato diverse proposte, cercando di lavorare sull’intercultura come metodo (dunque di sottrarci alla retorica delle “comunità migranti” come entità compatte e definite).

    Fra queste proposte c’era anche il workshop di lingua italiana Le parole per dirlo. Ci era chiaro, infatti, che il museo poteva e doveva essere anche uno spazio di apprendimento della lingua come prerequisito fondamentale per potersi muovere e orientare nella città; e ci era anche evidente come quello specifico museo, con la sua posizione privilegiata, con la sua grande sala affacciata su piazza del Duomo da un lato e verso la Torre Velasca dall’altro, potesse rappresentare una sorta di lente di ingrandimento di certi processi, di certi nodi storici fondamentali di questa specifica realtà. Una sorta di ambito privilegiato da cui leggere alcune dinamiche complesse: centro e periferie, guerra e ricostruzione, monumento e flussi, e così via.

    Non è qui il caso di descrivere nel dettaglio i contenuti del laboratorio: ma vorrei sottolineare il fatto che studenti di master internazionali, tanto quanto rifugiati e richiedenti asilo neoarrivati, in alcuni casi analfabeti, hanno trovato il modo di dire la loro sul Cirro luminoso di Lucio Fontana o sul Re delle parole di Gastone Novelli, opere complesse ma che, con le sollecitazioni adeguate, suggeriscono e parlano.

    Opere di cui certo non ci siamo messi a dare una spiegazione storico-artistica (neanche con studenti di livello linguistico più avanzato), ma a cui ci siamo appoggiati come ad attivatori di discorsi che ricadessero molto precisamente sulla sfera della vita personale.

    Il che non vuol dire lavorare sull’autobiografia, sulle memorie, sul racconto di sé, che – come ben raccontato nel volume Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale curato da Simona Bodo, Silvia Mascheroni e Mariagrazia Panigada – richiede tempi lunghi, delicatezza e una conoscenza personale precorsa per evitare di muoversi in modo brusco o, peggio ancora, di cadere in quel paternalismo che è lo spettro peggiore di chi lavora con persone fragili.

    Laboratori di L2 per classi di migranti vengono proposti anche dal Museo Popoli e Culture di Milano, molto attento alle dinamiche dell’educazione alla diversità culturale e sensibile alla sperimentazione di metodi e approcci.

    In questi laboratori, che vengono proposti alle scuole di italiano e si chiamano Guardare, scoprire, comunicare. Workshop per cittadini stranieri per imparare l’italiano al museo, si ricalca il modello contenuto nel QCER, ovvero il Quadro Comune Europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue, che organizza le competenze linguistiche in produzione orale e scritta, comprensione orale e scritta, e individua diversi livelli in base a una serie di parametri condivisi.

    I laboratori del museo sono articolati in base a queste competenze e a questi livelli, e lavorano partendo da un quadernino con testi, domande, proposte di attività individuali e di gruppo e un glossario, che lo studente può portare via per lavorarci da solo o in classe.

    Diversi musei italiani si stanno organizzando in questo senso, anche grazie alle sollecitazioni che vengono dal CLIL (Content and Language Integrated Learning), il programma di insegnamento di alcune discipline in lingua straniera obbligatorio negli ultimi anni della scuola secondaria superiore (con modalità diverse a seconda del tipo di orientamento).

    Qui l’accento non è tanto o solo sulla lingua straniera, ma sul metodo, che è learner-centered, prevede un approccio attivo, largamente basato sull’uso di tecnologie e sulla co-costruzione della conoscenza.

    Una vera rivoluzione per la scuola italiana, salutata da tanti docenti con fastidio (anche perché non sono molti ad avere la competenza linguistica richiesta, che è comprensibilmente molto alta, corrispondente al livello C1 del QCER), ma forse salutare se permette di inglobare strumenti basati sulla collaborazione, l’interazione, l’attivazione di pratiche di dialogo, negoziazione, creazione. Quelli, insomma, che il museo usa, nei casi migliori, non da oggi.

    Ecco dunque che il CLIL offre alla scuola l’occasione per andare di più, e con maggiore motivazione, al museo: perché lì, naturalmente, si fa quello che in classe gli insegnanti fanno con disagio o fatica, soprattutto se vengono da un’impostazione classica, indipendentemente da fattori generazionali.

    Si lavora a partire da domande (tecniche “object- and inquiry-based”), si usano strategie di visual thinking, si disegna, si sollecita l’osservazione individuale anche con lunghi momenti di silenzio (Shoemaker, 1998), si lavora – quasi spontaneamente – sulla sommatoria degli sguardi rispetto a un manufatto, giacché le intelligenze sono molteplici.

    La Fondazione Musei Civici di Venezia sta lavorando in questa direzione, anche grazie all’apporto teorico e sperimentale di Fabiana Fazzi, dottoranda dell’Università Ca’ Foscari. Palazzo Grassi e Punta della Dogana, oltre a proporre percorsi CLIL, hanno attivato forme di collaborazione con vari enti di formazione linguistica e un percorso partecipato che coinvolge i propri operatori – di madrelingue diverse – in collaborazione con il LabCom di Ca’ Foscari. Anche il Dipartimento Educazione di Palazzo Strozzi, a Firenze, lavora da tempo e approfonditamente sulla questione linguistica.

    La riflessione critica sulla lingua andrebbe poi estesa agli apparati comunicativi del museo: le didascalie, i testi in sala, le mappe, il sito web, la segnaletica e altro ancora. Il che non vuol dire tradurre tutto in tante lingue, ma porsi continuamente una serie di domande: comunicare a chi, come, con che strumenti, con quali linguaggi.

    In questo senso appare prezioso il lavoro promosso dal Dipartimento educativo della GAMeC di Bergamo, pioniere in questo grazie allo sguardo lucido di Giovanna Brambilla, che l’anno scorso ha promosso My place/My text, un progetto il cui esito principale è la scrittura di un catalogo biligue di alcune opere del museo da parte giovani di seconda generazione.

    Dal 2010 per ottenere il permesso di soggiorno detto “di lungo periodo”, in Italia, è obbligatorio superare un test di lingua, somministrato dalle Prefetture.

    I musei potrebbero porsi come un polo di questo percorso di consolidamento, uno spazio simbolico ma non retorico che possa contribuire non solo alla formazione linguistica, ma a una più articolata e consapevole formazione alla cittadinanza: come fanno, per esempio, gli Harvard Art Museums.

    Sono finiti i tempi dell’intercultura come l’abbiamo intesa negli anni Ottanta e Novanta: c’è più che mai bisogno di persone con background migratorio capaci non solo di comunicare chiaramente le proprie istanze di vita, ma di prendere la parola anche nei luoghi della rappresentanza, della cultura, della ricerca.

    Non è un percorso che avviene dall’oggi all’indomani. Per questo, a vari livelli (quelli della formazione, dell’innovazione, le sedi politiche) bisogna insistere sui progetti di lungo respiro e avere il coraggio di lasciar perdere le piccole azioni, le festicciole strapaesane, i micro-eventi che confortano, ma non trasformano davvero niente e nessuno.

    Note