L’iper sessualizzazione della donna emancipata

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    In forme e intensità differenti, oggi tutti ci troviamo a vivere un momento di negoziazione, conflitto e trasformazione delle identità di genere. Esse sono scosse e ridefinite non soltanto per LGBTQIA, ma anche, e in misura non minore, per i giovani eterosessuali in cerca dell’anima gemella, anche magari di una sera soltanto.

    Il crollo del mito della famiglia mononucleare e di una sessualità monogama e moderata, la ridefinizione della donna e la sua emancipazione politica e sessuale operata dal femminismo, la sovraesposizione a una variante infinita di pratiche sessuali offerta da internet, sono tra i fattori che hanno contribuito a fare dell’oggi un momento cruciale per la creazione di codici culturali volti a costruire e interpretare nuove forme di femminilità e mascolinità.

    Cause I may be bad but I’m perfectly good at it.
    Rihanna

    Le donne di venti, trenta, quaranta anni si trovano a dover incarnare il profilo di un’emancipazione che spesso si percepisce frustrante e conflittuale, nonché difficile da attuarsi. Per non parlare degli effettivi benefici che da essa in effetti si traggono. Siamo infatti davvero sicure che il modello della “donna emancipata” che ci propongono le riviste al femminile, la musica pop e i best-seller sia davvero emancipante? O meglio: di che tipo di emancipazione si tratta?

    La caratteristica forse più evidente della donna emancipata è una chiara iper sessualizzazione. Dalla sessualità morigerata degli anni Cinquanta, alla sessualità liberata dei Sessanta-Settanta, si è passati alla sessualità aumentata della contemporaneità, evidente nelle immagini proposte dall’industria culturale. Le narrative di televisione, moda, cinema e musica (se si esclude ovviamente una pur importante nicchia elitaria o subculturale) ci mostrano una donna estremamente consapevole della sua bellezza, e che la porge con orgoglio agli occhi di un pubblico. Non per farsi meta passiva di sguardi, piuttosto per catturare quegli sguardi e bearsene, senza che questo leda la sua identità. Sono sguardi in cui ama riflettersi, guardare se stessa, e in questo movimento narcisista si esorcizza la paura di esser fatta oggetto, prodotto. La donna emancipata si racconta esplicitamente come soggetto sessuale, a volte in modo così estremo da risultare grottesco.

    La sua padronanza di sé può assumere derive semi-maniacali come quando si suppone debba gestire con perizia quasi medica le sue performance erotiche, magari seguendo consigli dalla precisione scientifica come quelli offerti da molte riviste al femminile. Su Cosmopolitan di giugno 2012, per esempio, c’è un lungo articolo su come far raggiungere al partner un orgasmo da sogno. L’idea è di mantenerlo in uno “stato di eccitazione controllata”. Il “segreto è portarlo ripetutamente al limite e poi rallentare”. Per farlo, ci dice la rivista, basta attuare alcuni trucchi: “fallo entrare dentro di te ma fermalo quando solo la punta del pene è nella tua vagina”; oppure “se è troppo vicino all’orgasmo, tira piano i suoi testicoli verso il basso”.

    La donna emancipata, dunque, è totalmente padrona del suo comportamento sessuale, nonché del suo partner, che gestisce in modo autonomo fermandolo quando lui non vorrebbe, o attuando pressioni da fisioterapista esperta con la sicurezza con cui si tocca un touch screen. Il controllo è, appunto, un controllo molto controllato, lontano dalla violenza naturale che fa parte di certa sessualità. Si tratta di un controllo professionale.

    Il discorso di Cosmopolitan si legittima infatti tramite il ricorso a un linguaggio parascientifico: “la ragione per cui è efficace? L’orgasmo è regolato dal sistema nervoso simpatico, lo stesso che determina anche la tipica reazione ‘combatti o fuggi’, una modalità dell’organismo che scatta quando sei sotto stress”.

    Il linguaggio medico si fa espressamente da manuale d’istruzioni o bugiardino delle medicine quando si tratta di posologia: “prova a ripetere l’operazione almeno due o tre volte, portando il partner fin quasi al punto di non ritorno e tornando indietro”; e di effetti collaterali da sovraddosaggio: “se vedi che la sua faccia comincia ad essere congestionata, il respiro si fa più rapido o i suoi muscoli sono molto tesi, allora è segno che non può più trattenersi”.

    A questo punto, la donna scienziata del sesso permette al partner di raggiungere il culmine, soddisfatta delle “ondate di piacere” che lo travolgono. Solo allora, suggerisce l’articolo, potrà farsi anch’ella “portare verso un’estasi mai provata prima”. Questa chiosa, oltre ad essere falsa – molti uomini dopo esser stati sottoposti a un simile trattamento sarebbero inclini solo all’estasi onirica – svela un aspetto inquietante dell’emancipazione: la donna si emancipa prima di tutto per controllare, non per godere.

    Tutta la perizia acquisita in anni di esperienze e letture, magari anche di riviste di fisiologia, sono dispiegati al fine di mostrare quanto si è brave ad un ipotetico “lui”, e per poterlo “controllare” misurando e pilotando il suo desiderio. Il fatto che poi la donna possa raggiungere l’estasi appare secondario, la liberazione del desiderio femminile può avvenire solo dopo aver controllato e soggiogato quello maschile. L’amore libero del femminismo e dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta pare essersi cristallizzato nell’amore controllato.

    Controllo però non significa moderazione, e neanche rigida selezione del gusto. Significa esercizio consapevole di un potere morbido, azione sulle azioni altrui. Quello che Foucault chiama biopotere. La “libertà” della liberazione sessuale si declina in libertà di scelta, possibilità di cogliere tra le molte opportunità disponibili. La donna emancipata pare infatti dover considerare piuttosto glam gli amori saffici e le pratiche sessuali alternative come il sadomaso. Non per questo ci si identifica, piuttosto si diverte a sperimentare, attraversando comportamenti sessuali diversi in modo fluido.

    Katie Perry – famosa pop star britannica – canta di aver baciato una donna nella canzone I Kissed a Girl and I liked it. È successo mentre era un po’ brilla, in un locale, e adesso spera che al suo fidanzato non scocci troppo. Lo ha fatto per divertimento, per vedere com’è, con leggerezza: “No I don’t even know your name/ It doesn’t matter/ You’re my experimental game”. Il bacio saffico non suggerisce alcuna empatia di genere, anzi, l’altra donna diventa oggetto di un gioco autoreferenziale tanto quanto quello proposto dal macho anni Cinquanta.

    Rihanna, altra icona pop, canta della sessualità sadomasochista nella canzone S&M : “Cause I may be bad, but I’m perfectly good at it/ Sex in the air, I don’t care, I love the smell of it/ Sticks and stones may break my bones/ But chains and whips excite me”. Nel video, vestita in ampi abiti con stampati vari sinonimi di ‘prostituta’, e in succinti completini di latex bianco, Rihanna porta a guinzaglio e frusta uomini inermi in camicia bianca, e appare poi sapientemente legata e supina sopra un tavola, mentre ripete: “I like it like it come on”.

    Ci si propone quindi una versione edulcorata di dominazione volontaria, subita ed esercitata, ancora, con molto controllo. Un controllo che è controllo dell’immagine, controllo nella comunicazione di uno status. L’erotismo di pratiche sadomaso appare quindi semplificato, e si ammanta di una patina glitter che ne elimina le complessità psicologiche, per rimandare un quadro in cui ciò che conta è l’affermarsi di un desiderio egotico mediato da giochi di ruolo e costumi di scena.

    Nelle narrative di sessualità aumentata articolate nei tre casi di cui sopra, l’altro è sempre più o meno irrilevante. L’uomo di Cosmopolitan è passivo e si lascia pilotare con mosse studiate, la donna di I Kissed a Girl è oggetto di un gioco, e i vari partner di Rihanna sono legati col nastro adesivo alla parete e camminano a quattro zampe portati al guinzaglio.

    L’emancipazione proposta dal discorso mediatico sull’iper sessualità è frutto dell’esercizio controllato di un potere morbido che scorre in un flusso unidirezionale. La donna agisce in uno spazio di prevedibilità in cui le reazioni dell’altro sono controllabili e innocue, come in una sterilizzata volontà di potenza che si nutre di tecniche ludiche dalla precisione scientifica.

    E dov’è il godimento? Probabilmente soprattutto in un auto-erotismo, nella soddisfazione implicita nell’esercizio del controllo di sé e dell’altro, nel respiro di sollievo che segue la sensazione di esser stata attraversata incolume dalle più svariate esperienze sessuali e sentimentali. La donna emancipata non soffre più di fronte alle manchevolezze del suo partner, piuttosto le previene, le gestisce, le punisce o le annienta. Oppure, vero climax dell’emancipazione, non si lascia neppure deludere da esse, poiché da subito priva di ogni aspettativa, come in una versione narcisistica e deforme dell’imperativo zen.

    Naturalmente, i modelli qui descritti non sono di facile attuazione poiché mostrano stereotipi idealizzati. Nella realtà i codici culturali di dominazione e arrendevolezza, spirito d’iniziativa e paura del fallimento, romanticismo e perversione, si intrecciano in una specie di DIY emotivo ed erotico in cui creatività, capacità di adattamento e autoironia, si propongono come gli strumenti più adeguati per la navigazione. In questo scenario gli archetipi della donna dolce, sognatrice, sensibile, romantica, convivono con una simbologia che la disegna invece come esperta, determinata, esigente, realista e disincantata. Si tesse così una trama fitta, in cui modelli pre e post femministi si mescolano in una miscela fluida e spesso confusa.

    Il video e il testo della hit dell’estate 2012 Call Me Maybe offrono una sintesi perfetta della situazione. La pop star Carly Rae Jepsen canta di aver incontrato un ragazzo, e avergli dato immediatamente il suo numero chiedendo di chiamarla, forse: “Hey I just met you/ and this is crazy/ but here’s my number/ so call me maybe”. Si tratta di una donna emancipata in quanto predatrice, che dà il suo numero ad uno sconosciuto mostrando indubbia sicurezza di sé.

    È molto meno sicura della reazione di lui: sa che lui la chiamerà forse. Se nello stereotipo pre femminista alla donna spettava il controverso vantaggio della reticenza, nella contemporaneità esso diventa prerogativa anche maschile. E infatti il fallimento della propria volontà, e l’insufficienza del proprio capitale sessuale, costituiscono l’elemento paranoico essenziale della donna emancipata.

    Nel video della canzone Carly performa il ruolo di una donna carina ma lontana dalle forme generosamente mostrate dalle sue colleghe Rhianna e Katie Perry. Carly si propone come modello raggiungibile, giocando sull’empatia della spettatrice. La telecamera indugia su dei romanzi rosa. Si suppone che la ragazza li legga certo con autoironia, ma in fondo permettendosi la fantasia di incontrare un uomo non dissimile dal protagonista. La donna si affaccia alla finestra, che incornicia un aitante giardiniere, canottiera bianca e jeans strappati, vagamente somigliante al personaggio raffigurato sulla copertina dei libri!

    L’uomo, còlto dallo sguardo acceso di Carly, diventa oggetto sessuale in perfetto stile post femminista, si tratta però dell’archetipo del giardiniere dal sudore selvaggio, lavoratore manuale sogno di proverbiali casalinghe di Voghera. Quando lui si spoglia (mostrando circa 36 fasce addominali) sfoggia un corpo da metrosexual palestrato e tatuato, incarnando così l’idea contemporanea di uomo iper curato e vanesio, perfettamente consapevole della sua carica erotica.

    La donna, affacciata alla finestra, è sensualmente affascinata da tale visione, e – per comunicarcelo con efficacia– si sventola con uno dei suoi romanzetti. L’emancipazione sottesa a un chiaro e compiaciuto riconoscimento dell’eccitazione, si stempera di romanticismo.

    Nelle scene successive la nostra eroina tenterà di conquistare le grazie del maschio mettendosi a lavare una macchina, cercando piuttosto goffamente di interpretare l’ideale di una pin up da drive in. Purtroppo i suoi tentativi si rivelano vani, perché l’uomo finisce per lasciare il suo numero ad un altro uomo. Ed ecco che l’iniziativa emancipante di una venticinquenne etero si scontra con l’emancipazione gay dell’oggetto dei suoi desideri. Ancora una volta la donna-emancipata resta orfana del contatto.

    Anche laddove l’ideale di una femminilità iper sessualizzata lascia spazio a un più realistico campo di negoziazione di codici culturali, la donna emancipata appare priva della possibilità di un vero dialogo con l’altro. Ciò non comporta necessariamente dolore o sofferenza, piuttosto ironica consapevolezza. L’emancipazione si svolge intorno ad un’attitudine blasé che previene il disequilibrio, e arreda il disincanto di acume e leggerezza.

    La ricompensa pare consista in una più forte affermazione del sé, una più profonda consapevolezza dei propri mezzi, e il raggiungimento di un’indipendenza paradigmatica. Tesori che però risultano di difficile condivisione poiché non sembra facile tradurli nella costruzione di un “noi”. La soggettività della donna emancipata non ha altro referente che se stessa, può conoscersi e capirsi solo in una sorta di solipsismo. È una soggettività che si individua ma che non riesce a co-individuarsi, e cioè a scoprire la sua identità attraverso un dialogo profondo con l’altro.

    L’emancipazione assume allora i connotati di una pratica di self-branding, di un’azione mirata al plasmare e comunicare un’immagine di sé che sia inattaccabile. Tale pratica, sebbene abbia a che fare con l’immagine, non resta per niente in superfice.

    Il marketing, quando riguarda la propria persona, diventa una profonda azione maieutica, in cui, in una specie di darwinismo introspettivo, si selezionano e accentuano gli aspetti più in linea con l’ecosistema socioculturale, e si cerca di assopire gli altri.

    Occorre allora chiedersi se questa emancipazione sia davvero emancipante, se tutte le energie impiegate nella costruzione e attuazione di questo modello siano ben spese. Un’emancipazione che resta ritorta su se stessa, che non crea dinamiche dialogiche, è emancipazione allo specchio. Uno specchio dietro il quale non sembrano celarsi tutte queste meraviglie.


    Precedentemene uscito in Miti 2.0 a cura di Societing

    Immagine di copertina: ph. Ian Dooley da Unsplash

     

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