Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo

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    “Dopo il Covid-19 nulla sarà più come prima”.

    Quante volte abbiamo sentito questa frase? La pandemia come spartiacque. La pandemia come crisi capace di offrirci la via d’uscita, il momento epocale da cogliere, il portale verso un altro mondo possibile. L’emergenza che apre uno squarcio nel futuro. Proprio quel futuro che così a lungo ci eravamo dimenticati di pensare, appiattendoci su un eterno presente che degenerava stanco.

    Dobbiamo evitare la scorciatoia dell’apocalisse. L’idea che sia la catastrofe a restituirci quelle redini del tempo che ci parevano sfuggite di mano. Perché forse non esiste un momento catartico. Un’interruzione definitiva, una sincope storica, una scelta netta fra perdizione o salvezza. Forse è proprio il nostro concetto di progresso e di avanzamento storico attraverso le crisi ad averci portarci sul baratro.

    Forse la pandemia ci presenta l’occasione di intendere e vivere il cambiamento in maniera diversa

    Forse la pandemia ci presenta invece l’occasione di intendere e vivere il cambiamento in maniera diversa. Di tornare, sì, a pensare il futuro, ma di farlo ricostruendo il nostro rapporto proprio nei confronti del tempo. E di costruire così una società che non abbia bisogno di alcuna catastrofe per sbocciare in ciò che già potrebbe essere.*

    “Gli eventi correvano più veloci della mia penna… scrivevo su un vascello durante una tempesta e pretendevo di dipingere come oggetti fissi le rive fuggitive che passavano e s’inabissavano lungo il bordo”

    Chateaubriand ci lascia queste parole riflettendo sulla propria esperienza di storico e contemporaneo della Rivoluzione francese. Insinua così un tema che accompagnerà tutta l’esperienza moderna: l’accelerazione della storia.

    La Rivoluzione francese introduce infatti una caratteristica fondante della modernità: il sovvertimento del presente come proiezione futura e collettiva. Così come l’individuo diviene costruttore della propria storia personale, ecco ora che l’umanità stessa diviene costruttrice della propria storia collettiva. E inizia a navigare le acque del tempo, forgiando vele capaci di governare il vento grazie alla propria arguzia e libertà. Sarà attraverso un’inclinazione collettiva che si potrà trasformare e fare la storia. Una storia che appartiene all’uomo, come scrive Schelling nel 1798, “non perché vi partecipa, ma perché la produce”.

    È da qui che il pensiero acquisisce la sua proiezione futura. La storia diviene flusso, progresso, e il compito dell’umanità è di farla avanzare fino al compimento della promessa. Non è un caso che proprio in questo contesto la parola crisi emerga nella sua accezione contemporanea. Nell’antica Grecia krisis stava ad indicare il momento di svolta in un processo giuridico, medico o teologico. L’attimo della scelta: torto o ragione, vita o morte, salvezza o dannazione. Ma nuovo sarà il suo utilizzo in ambito politico ed economico.

    Crisi servirà a definire una fase storica di passaggio, quello che Reinhart Koselleck chiamerà un concetto epocale, capace, dunque, di marcare i diversi stadi dell’avanzamento del tempo. Da qui deriva anche la connotazione di opportunità. Perché, come recita Schiller, ciò “che offre il momento e non si prende / Nessuna eternità lo rende”. Carpe diem. L’inclinazione moderna ci chiama a cogliere l’attimo della possibilità di una nuova epoca.

    Il concetto di crisi porta in dote il combustibile che alimenterà il motore della modernità per il suo fantastico viaggio verso il futuro. I panorami promessi al viaggiatore non hanno eguali nella storia umana, superando in ambizione, dettaglio e creatività molte delle descrizioni dell’al di là propagandate dalle vecchie religioni. Ma nonostante le migliori aspirazioni, è oggi sempre più diffusa la percezione che questo motore stia portando la nostro traballante umanità a schiantarsi contro un muro.

    “Marx dice che le rivoluzioni sono le locomotive della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”

    La dialettica della crisi procede attraverso un’accelerazione sempre maggiore nelle relazioni di vita, nelle trasformazioni politiche e nella produzione economica. La danza si fa vorticosa e surriscaldata, con una posta sempre più alta e distruttiva. È Walter Benjamin a invocare esplicitamente il freno. Sovvertendo così il concetto stesso di rivoluzione. Non più tensione verso l’avvenire, ma meccanismo di blocco di un treno destinato allo schianto.

    Non dovrebbe essere questa un’immagine, e un’emozione, oggi così estranea. Quante volte abbiamo sentito dire, durante la pandemia del Covid-19, parole come “il pianeta respira”; quante volte abbiamo sentito invocare il blocco, il freno, che avrebbe posto il virus alla danza macabra della nostra civiltà distruttrice. Costringendoci, seppur temporaneamente, a fermarci.

    Il sentimento dominante della nostra epoca è quello di un incipiente, indicibile collasso generale. La promessa della libertà e dell’emancipazione si presenta con le vesti stracciate dell’impotenza collettiva dinnanzi ai grandi cambiamenti della nostra epoca. Il futuro ci pare abbandonare ogni dimensione di progresso e diventare costante degenerazione. Più che l’uomo costruttore di storia abitiamo ora una realtà in cui la storia, fugace come un fascio di luce, ci lascia ansimanti e alla rincorsa, attrezzati di una politica divenuta suono flebile e in costante, tragico ritardo.

    La promessa dell’abbondanza materiale è divenuta la premessa del collasso climatico come ultimo lascito della moderna società termoindustriale. E questo sulle ali di un meccanismo che riesce nella miracolosa combinazione di produrre così tanto da portare all’implosione dell’ecosistema e di farlo in maniera così ingiusta da mantenere una straordinaria ineguaglianza di accesso alla sua iperproduzione mortifera.

    La promessa dell’abbondanza materiale è divenuta la premessa del collasso climatico

    Il freno a mano non ha funzionato. E il treno sta per colpire il muro. Il futuro si ripiega su sé stesso. E appare che solo un disastro potrà restituirci quella capacità di dare forma al tempo che sembriamo avere perduto. La catastrofe come momento catartico capace di espiare i nostri peccati, come deus ex machina pronto ad intervenire e donarci quel futuro mondo possibile che non ci sentiamo più capaci di costruire con le nostre mani. È questo l’indicibile che si cela dietro all’espressione tutto cambierà dopo il Covid-19.

    Mi sento di dire questo: non aspettatevi troppo dalla fine del mondo.

    Non esiste freno della storia. Dimenticate i sogni campestri di decelerazione. Basti pensare a questo paradosso: l’accelerazione vorticosa del mondo e del tempo intorno a noi avviene attraverso una crisi che ci costringe a rallentare. Sembra instaurarsi uno strano meccanismo per cui più ci fermiamo più la realtà viene trasformata dal nostro stare a casa. Il Covid-19, lungi dal rallentare il mondo, ha fortemente accelerato processi di trasformazione personale, politica ed economica già in atto.

    Questo paradosso è anche al centro della contraddizione delle nostre richieste verso il tempo: chiediamo di rallentare il mondo – di fermare quella modernità che chiedeva sempre di più – ma una trasformazione di questo genere rappresenterebbe essa stessa una straordinaria accelerazione del cambiamento storico. Ecco un esempio: nei giorni della pandemia Giorgio Armani ha pubblicato un testo per richiedere una decelerazione al mondo della moda. Che la moda torni a rispettare le stagioni, anche se i consumatori vogliono acquistare lino in inverno. Che gli abiti siano pensati per durare, anche se il guadagno ne risentirà. Che il lusso smetta di seguire la strada del fast fashion. Giusto. Ma non basterà che il lusso si prenda il vezzo di distanziarsi dal fast fashion se quest’ultimo, lo strumento di consumo della maggioranza, resterà così com’è. E trasformarlo comporterà una gigantesca ricostruzione delle catene di produzione del valore, del nostro approccio alla felicità materiale e alla gerarchia economica fra nazioni. È la totalità che andrà cambiata. E questo è un patto quasi faustiano con la trasformazione storica – altro che rallentare!

    L’accelerazione della storia ci proietta contro un muro. Ma non c’è modo di fermarsi e non sarà una catastrofe a salvarci. Quindi?

    意味

    Il concetto cinese di YiWei combina il carattere del significato con il carattere del sapore. Indica una consapevolezza che si mostra non già con la lucidità e la nettezza del pensiero logico ma con il progressivo dispiegarsi di un gusto nella bocca. Un senso che avvolge la lingua e lentamente si lascia intuire; un’idea che si trasforma, che non può essere definita in maniera statica ma che evolve, sparisce e ritorna. Non vi è una logica binaria netta – ignoranza o comprensione. Non c’è un momento eureka. Ecco: e se la nostra realtà attuale, più che uno stanco ripetersi della dialettica della crisi, con la sua violenta temporalità precipitata nell’attimo, fosse qualcosa di più simile a questa idea dell’apprendimento, inteso come un divenire dipanato nel tempo?

    Pensate quanto poco del momento critico della krisis abbiano le nostre crisi (perdonate lo scioglilingua). Parliamo così spesso di crisi climatica. Ma non vi è un momento di svolta: quella che chiamiamo crisi agisce piuttosto come un piano inclinato. Un costante divenire di una natura che risponde, drammaticamente, trasformandosi. E lo fa seguendo dinamiche che iniziano sempre più ad essere indipendenti dal nostro comportamento – come nei circoli di rinforzo in cui lo scioglimento del permafrost rilascia la Co2 immagazzinata sotto le nevi che a sua volta accelera lo scioglimento del permafrost. La stessa retorica del collasso climatico potrebbe essere priva di alcun punto di caduta. Nessuna implosione del sistema nella sua totalità ma un costante venire-meno e un nuovo aggiustamento. Come immaginiamo la catastrofe climatica? Come una livella che porterà tutto quanto a zero e l’umanità nel suo complesso a scomparire? O come un processo squisitamente umano, con zone di privilegio e di esclusione, con gated communities e grandi sobborghi oramai sotto il livello dell’acqua?

    Quella che chiamiamo crisi agisce come un piano inclinato. Un costante divenire di una natura che risponde trasformandosi

    Oppure insistiamo a chiamare il grande fenomeno migratorio crisi, mentre si tratta di un movimento che non farà altro che crescere nel secolo in corso. E da più di un decennio parliamo di crisi economica per descrivere il nostro presente. Ma così il momento epocale rappresentato dal concetto di crisi sembra divenire sempre più ampio, fino a perdere di senso.

    La stessa disintegrazione dell’Unione europea, così spesso invocata, è forse già accaduta. O, più esattamente, non è forse da intendere come un singolo evento critico – la caduta – ma come un graduale venire-meno di legami sociali, di solidarietà e dunque politici. Uno sfilacciamento più che un collasso.

    Nemmeno il Covid-19 farà saltare in aria il mondo. Ma potrà certamente portare a una sua ulteriore degenerazione: i negozi artigianali potranno chiudere sempre più rapidamente a beneficio della grande distribuzione organizzata, quella che schiaccia la filiera ed elude le tasse; in tanti potranno diventare irrilevanti al processo produttivo, che si vorrà sempre più automatizzato così da potere proseguire anche in futuri contesti pandemici; vi potrà essere un inasprimento delle misure di austerità per espiare la colpa dell’indebitamento necessario; si potrà rafforzare la tendenza dei più ricchi a prepararsi vie di fuga, accelerando il processo di distaccamento delle élite dalla propria comunità nazionale.

    Il punto è che la crisi non è più interruzione della normalità. La normalità è crisi. La crisi diviene il lamento che sostituisce lo schianto nella famosa chiosa di TS Eliot. Diviene piano inclinato, degenerazione, morbosità. La crisi non è più un momento decisivo, non più uno spartiacque, non più il momento eroico. E dunque non è più un concetto utile.

    L’idea di crisi va forse sostituita con un altro termine di origine medica: quello della lisi.

    Il termine lisi porta con sé due accezioni diverse. Può riferirsi al processo di distacco o rimozione di elementi patologici, così da restituire agibilità a un organo malato. In questo senso si riferisce anche all’abbassamento graduale della febbre che accompagna il processo di guarigione. Oppure può riferirsi al processo di distruzione di elementi, anche vitali, dell’organismo. Così come agiscono tanti batteri o virus, che al termine del loro ciclo distruggono la cellula infetta.

    Anche il concetto di lisi, dunque, contiene in sé una bipolarità, una duplicità di prospettiva. Cura o degenerazione. Ma non vi è alcun riferimento a un momento topico, alla singolarità della scelta. Non vi è eroismo nella lisi. Vi è invece un processo che si dispiega attraverso una pratica costante. Come il senso-sapore che si dipana in bocca. Nel paradigma della lisi scompare il dilemma della crisi, la scelta se accettare la scommessa dell’accelerazione, sperando di potere guidare il momento epocale verso la vita e non verso la morte, o se provare, invece, a tirare il freno, a raffreddare i motori. Vi è invece una processualità da gestire. D’altronde proprio a questo ci indirizzava Benjamin scrivendo che ogni frammento di tempo, ogni singola azione, è la piccola porta da cui potrebbe entrare il messia. Non nel senso di una possibilità dell’arrivo di qualcuno o qualcosa, del momento epocale, della svolta. Ma perché ogni singolo atto va agito come se il messia fosse già arrivato. Ogni momento è carico di potenza e significato. E ogni momento è un fine, non un semplice mezzo.

    Accettare e non rinunciare il cambiamento. Ma fare si che diventi una cura

    Vi è movimento nella lisi. E vi è accelerazione. Ma ne viene cambiata la direzione. Non banalmente indirizzandola, come su di un piano, verso un orientamento più prossimo all’emancipazione che all’asservimento, alla felicità che alla distruzione. Cambiando strada, come dinnanzi a un bivio. Ma trasformandone l’approccio bidimensionale. Non già qualcosa sempre più in là, qualcosa proteso verso l’esterno e dunque verso l’accumulo di macerie. Ma ripiegato su sé stesso, capace di passare dal piano al cubo, dalla bidimensionalità alla tridimensionalità. Un’accelerazione che non mira a spostare in avanti l’Angelo della storia ma a scavare al suo interno. Distaccando gli elementi patologici e restituendo agibilità agli organi malati. Accettare e non rinunciare il cambiamento. Ma fare si che diventi una cura, nella doppia accezione medica e sentimentale, capace di farci germogliare.

    È una procedura che aggiunge potenza, che apre all’abbondanza, al più, non al meno, che porta crescita, non decrescita. Ma che trasforma questi concetti, rendendoli intensivi e non più estensivi. Ecco un esempio. Se dovessimo fare una lista delle cose che più ci sono mancate in questa quarantena – esercizio utile, se non altro per rendersi conto di quanta poca importanza un certo consumismo rivestisse nelle nostre vite – le relazioni umane sarebbe senz’altro ai primi posti. Ci mancano gli amici. Ma proprio tutti? Incontriamo e ci rapportiamo con sempre più persone. E il risultato è che diventa improbabile imbastire relazioni veramente significative. “Beviamo qualcosa”, sì, ma senza andare troppo sul personale e senza instaurare legami troppo stretti.

    Ma lo stiamo scoprendo: sono i legami a potenziarci. Legami con altre persone, con la natura – se avete piante in casa, è cambiato nulla nel vostro rapporto durante la quarantena? – con gli animali, con il mondo esterno e con il mondo interiore delle nostre favole. Ecco un primo gesto necessario: sapere scegliere e su questa scelta sapere approfondire. Guardarsi negli occhi, parlarsi e sentirsi veramente, sviluppare l’empatia. Ed ecco un esempio semplice di cosa significa superare la scelta binaria fra crescita e decrescita. Meno amici e più amicizia.

    Fra gli articoli più inusuali apparsi durante la quarantena vi è quello di Jennifer Toon, scarcerata dopo venti anni di reclusione proprio agli esordi del lockdown. L’esperienza della lunga detenzione le ha portato la contezza che il tempo esista solamente in rapporto ad un’emozione o ad un’esperienza e che possa dunque essere controllato tramite la capacità di essere presenti al momento. Leggere un libro attentamente, ascoltare un’altra persona profondamente, seguire i propri pensieri e le proprie attività consapevolmente. Tutto ciò ci rafforza e arricchisce. E allarga il tempo di vita.

    Noi proveniamo da un mondo che è quanto di più diverso ci possa essere da una cella di prigione. E in cui accumulavamo sempre più esperienze, sempre più frenetica attività, sempre più multitasking esistenziale. Riprendere in mano le esperienze, ridurne il numero ma restituirne senso e profondità, non serve solo per vivere meglio, ma anche per vivere più a lungo e più intensamente. Vedete come la dinamica dell’accrescimento moderno può essere ripiegata su sé stessa?

    Questo semplice esempio, così umano, può essere esteso su tanti altri fronti. Vale lo stesso, ad esempio, nel molto più freddo mondo delle costruzioni. La modernità chiedeva sempre più cemento e sempre più impresa. Il balzo in avanti della Cina è definito in primis dalla straordinaria trasformazione delle sue città. L’alternativa non è fermarsi o immaginare un semplice ritorno alle campagne per tutti. Ma ricostruire o costruire-su-di-sé, ripiegando l’estensione esterna in intensità interna. Trasformare il volto delle nostre città riducendo il consumo di suolo e rendendole compatibili con la vita umana e naturale richiederebbe un dispiegamento di forze pari o forse maggiore di quello alla base dello scempio edilizio degli ultimi decenni. Ma rappresenterebbe un processo di cura invece che di degenerazione.

    L’alternativa non è fermarsi, ma ricostruire o costruire-su-di-sé

    L’idea della lisi, la sostituzione del binomio freno e ripartenza con un concetto del degenerare o del fiorire, significa prendere la modernità e rigirarla su sé stessa. Non ci sono più binari, non più un treno da lanciare verso il progresso o arrestare. Ma una casa comune da accudire e abbellire, utilizzando tutta la straordinaria potenza tecnologica ed economica di cui disponiamo.

    Non è questo il luogo per indugiare oltre in esempi. Ma per capire come sia possibile scendere da quel treno manca un ultimo tassello: capire come il concetto di lisi cambi il nostro rapporto al futuro.

    “La rivoluzione non può trarre la sua poesia dal passato, ma solo dall’avvenire”

    È dalle acque dell’umanesimo europeo che emerge l’isola di Utopia. Utopia è rottura rispetto a questo mondo. Ma non è l’al di là, non è la visione mistica del paradiso oltre questa vita. È un altro mondo possibile, desiderabile e forse perfino ottenibile. Con l’Illuminismo, e più generalmente con l’entrata in scena preponderante del concetto di progresso, avviene un curioso slittamento temporale. Laddove l’Utopia di Moore era contemporanea al presente – era un altrove geografico, ma non temporale – ecco che ora Utopia non abiterà più oceani sconosciuti ma tempi futuri; ora ma non qui diviene qui ma non ora. Questo slittamento della temporalità serve a dare concretezza e raggiungibilità alla promessa utopica: perché l’uomo moderno si sente padrone del tempo ed è più facile raggiungere il futuro che non una terra di cui non si conoscono le coordinate. Sarà la poesia dell’avvenire, nelle belle parole di Marx, a guidare la rivoluzione.

    Ecco, forse avremmo bisogno invece di un genere nuovo: la fantascienza del presente. Perché la lisi, a differenza della dialettica della crisi, non guarda solo in avanti, ma si proietta dentro.

    Una fantascienza del presente significa immaginare cosa, del futuro, è già fra noi. Ecco un esempio: tutti, intimamente, sappiamo che si potrebbe, già ora, vivere degnamente. Ma, a fronte di una produzione di beni senza precedenti, viviamo una generalizzata mancanza di benessere condiviso e accettiamo l’esistenza di condizioni di lavoro abiette. Mentre oggi l’abbondanza è già qui. E non vi è nessuna necessità di attendere oltre affinché venga equamente ripartita. Ciò di cui abbiamo bisogno non è una proiezione verso l’avanti ma una capriola al nostro interno, un lavoro di cura di un sistema malato e causa di degenerazione. È questo il senso di un reddito di base o di servizi universali gratuiti. L’estensione di tali servizi sembra essersi arrestata con l’invenzione del Servizio Sanitario Nazionale, di cui proprio in questo periodo scopriamo tutta la necessità. Ma perché? Condividere l’abbondanza significa anche: trasporto pubblico gratuito ed universale; accesso ad internet gratuito ed universale; quota base di consumo energetico, culturale e di informazione gratuito ed universale; diritto universale a un alloggio degno. Viviamo già in un mondo di abbondanza. Ed è possibile e giusto che una vita degna venga garantita come diritto inalienabile ed universale di ciascun individuo. Qui ed ora.

    Una fantascienza del presente significa immaginare cosa, del futuro, è già fra noi. E farlo sbocciare. Ma una fantascienza del presente significa anche immaginare cosa, nel nostro presente, proietta già verso il futuro. Ecco un esempio: il Covid-19 è paura. Una paura che ci ha portato a fare l’inverosimile e quanto in molti ritenevano impossibile: modificare il nostro stile di vita. L’evoluzione ci ha programmato proprio per utilizzarla, la paura, per garantirci la sopravvivenza. Ma l’evoluzione pare essersi dimenticata di instillarvi una temporalità larga. Nel mondo animale essa è sempre immediata: il predatore, la trappola, la fame.

    Ed è così che stiamo rispondendo al Covid-19, spinti da una cascata di notizie catastrofiche che ci assordano da mattina a sera. È comprensibile. Ma non è sufficiente. Perché non abbiamo futuro se rimaniamo ancorati alla paura dell’immediato e non di ciò che l’immediato potrà scaturire. Ne abbiamo un esempio evidente quanto banale nel nostro rapporto con la sanità pubblica. Abbiamo paura del virus e abbiamo paura di non riuscire ad essere curati. Ma molto meno avevamo paura quando anni di tagli alla sanità lasciavano intendere la potenzialità di un sistema sanitario incapace di proteggerci. Per non parlare dell’emergenza climatica a venire. Impariamo allora a proiettarci in avanti come prima non riuscivamo a fare, lanciandoci dentro noi stessi e futurizzando i nostri sentimenti più atavici.

    Trovare il futuro nel presente e aiutarlo a germogliare.

    La verità è che abbiamo ancora le chiavi per una trasformazione epocale del nostro presente. Non aspettando una catastrofe catartica, ma iniziando un lavoro di cura quotidiana. Una lisi che scavi al nostro interno e apra a una possibile fantascienza del presente.

    Ho scelto di utilizzare due termini inediti, per certi versi due neologismi, per segnalare che è proprio il nostro approccio al tempo storico e la nostra teoria del cambiamento che andrà ripensata. Che c’è qualcosa di insufficiente nella maniera in cui pensiamo alla drammatica fase storica che stiamo attraversando.

    Quante volte durante la pandemia abbiamo pensato “sembra di essere in un film”? Lasciamoci contagiare da questo senso di possibilità di una trasformazione della totalità. Ma chiediamo al pensiero di darci gli strumenti per superare il motore a scoppio della modernità.

    Queste non sono che poche note maldestre di un lavoro attualmente in corso. Sono anche un invito a portare avanti la discussione insieme.

    Note