Raccogliere mondi tra le rovine, perché abbiamo bisogno delle environmental humanities

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    Quando il bosco arde e le fiamme incendiano tutto, le pigne del pinus contorta si aprono e rilasciano i semi. Sono granate fertili che esplodono lente, che sfruttano la distruzione per diffondersi e crescere. Il destino dell’intera specie dipende dagli incendi. Meno il terreno è ricco e fecondo, più il suolo è eroso e consumato, – magari dalle interferenze di animali, umani e macchine – meglio l’albero attecchisce e cresce. Per chi sa cercare e ha fortuna, a volte ai loro piedi si possono trovare tesori prelibati e preziosi: i funghi matsutake, fra i più costosi al mondo. Una volta trovato il fungo, se il felice cercatore continuasse a scavare vedrebbe una massa di filamenti bianchi intrecciati alle radici del pino.

    È un nodo vitale: sciogliendolo verrebbero meno sia l’albero sia il fungo, sia molte altre relazioni con chi attraversa quel bosco: piante, animali, umani la cui sopravvivenza dipende dalla vendita di quel fungo. Se avessimo messo questa scena di fronte a un antropologo, a un sociologo o a un filosofo del tardo Ottocento, in pieno furore positivista, è facile immaginare che cosa avrebbero guardato e annotato sui propri taccuini i padri delle scienze sociali: soltanto gli umani, troppi umani passanti e abitanti di quel bosco.

    La situazione è cambiata. Lo scorgiamo nei cataloghi di tante case editrici impegnate a pubblicare libri di scienze umane e sociali, nelle bibliografie dei corsi universitari e nei testi che si trovano su tavolini e scaffali negli spazi dell’arte contemporanea, del design e dell’architettura. Sembra una favola, o un cartone animato: le stesse figure che prima sembravano saldate allo sfondo, paralizzate fra gli oggetti di scena, finalmente si animano, prendono vita e occupano il palcoscenico. Per ragioni di inventario sono stati assegnati diversi nomi a questo evento, che non segna una novità assoluta ma forse è sempre corso in modo sotterraneo fra le antiche discipline dello spirito: alcuni le chiamano environmental humanities, altri multispecies studies, o ancora le si assegna alle lande epistemologiche del postumano. In Il fungo alla fine del mondo l’antropologa Anna Tsing fa un’ulteriore proposta: si tratta semplicemente di allenare la nostra attenzione, come se fosse un’arte.

    È proprio l’immobilità dei cereali ad aver cambiato per sempre il destino della nostra specie.

    I nostri sensi non devono star vigili solo quando sono rivolti al presente o quando passeggiamo in una foresta. Prestare una maggiore e migliore attenzione all’operoso brulichio di funghi, piante, animali, batteri e virus è indispensabile per comprendere la storia. Che cosa può succedere quando mettiamo mano ad archivi e documenti senza presupporre che gli esseri umani ne siano i protagonisti indiscussi? Pensiamo alla relazione tra umani e cereali. Uno dei più grandi longevi romanzi d’amore della storia umana è sbocciato nella Mezzaluna fertile oltre diecimila anni fa in una delle sue forme più radicali. Alcune varietà di grano addomesticarono la specie umana: ne cambiarono la dieta, la capacità riproduttiva, inventarono nuove gerarchie sociali – lo Stato e la proprietà privata – e modi di abitare prima sconosciuti.

    Siamo abituati a concepire gli attori storici come soggetti dinamici, agitati da movimenti frenetici che sconvolgono le epoche. È proprio l’immobilità dei cereali ad aver cambiato per sempre il destino della nostra specie, dando alimento alla nascita di re, armate, miti e divinità. Sfogliando i libri di storia per diverse migliaia di pagine arriviamo alle piantagioni coloniali europee. La canna da zucchero fu il carburante fondamentale dell’espansione imperialista occidentale per secoli, e una sorgente di inconcepibile violenza per milioni di schiavi: a Porto Rico gli schiavi “si difendono” (se defienden) e “combattono” (bregando) con la canna da zucchero. Il lessico bellico in questo caso non è metaforico. Le piantagioni di canna da zucchero furono anche luoghi fondamentali per stabilire le gerarchie razziali e mediche che tuttora insistono fra il Nord e il Sud del mondo.

    Le piantagioni sono luoghi chiave della storia globale per più di un motivo. Come racconta lo storico Sidney Mintz, tra il Sedicesimo e il Diciassettesimo secolo i Portoghesi colonizzarono il Brasile con una formula di espansione agevole e replicabile alle più diverse latitudini. Prima occorreva sterminare la popolazione e la vegetazione locale per svuotare la terra, che doveva quindi essere riempita da manodopera e coltivazioni accomunate da un tratto distintivo: i nuovi lavoratori e vegetali erano stati estratti dal loro contesto sociale ed ecologico originario. Il concetto di alienazione è indispensabile per chiarire la natura di questo cambio di paradigma. I cloni di canna da zucchero trapiantati dalla Nuova Guinea al Brasile dovevano essere autonomi e replicabili, cioè del tutto indifferenti alle malattie, agli insetti e al clima del luogo in cui venivano spostati. Ogni clone di canna da zucchero doveva essere intercambiabile con qualsiasi altro clone, senza attriti, e così la manodopera: ogni schiavo era immediatamente sostituibile. Le piantagioni di canna da zucchero si espansero e si diffusero in tutte le regioni calde del mondo proprio perché sia le piante sia la manodopera schiava furono trattate come unità astratte, scalabili. Le piantagioni di canna da zucchero ispireranno il modello di organizzazione adottato nelle fabbriche durante la Rivoluzione industriale, macchine interamente dedite a una sola funzione: tutte le differenze e le relazioni impreviste dovevano essere obliterate in nome del Progresso. Sembra che la ciclopica macchina del Capitale sia riuscita a trasformare in un clone di canna da zucchero qualsiasi cosa sulla terra: tutto può essere scambiato al suo valore di mercato, tutto è scalabile. 

    Il modello della piantagione ha prodotto una scia di catastrofi arcinote e distese di rovine dove prima c’erano paesaggi. Torniamo ai pini. Se il mio obiettivo è massimizzare la produzione di legname, allora non mi importerà nulla delle relazioni ecologiche essenziali per la sopravvivenza della pianta, e il destino delle centinaia di specie che da essa dipendono. Chiunque studi ecologia lo sa: sopravvivere significa collaborare, e senza collaborazione siamo tutti morti. Questa idea non è sempre stata accettata dal pensiero scientifico, anzi: scienziati come Richard Dawkins considerano l’individuo il protagonista unico e centrale della storia evolutiva sul nostro pianeta, sotto il segno della competizione perenne fra geni, organismi, specie. È solo grazie al lavoro di biologhe e biologi come Lynn Margulis, Dorion Sagan e Scott Gilbert che ora possiamo riconoscere che tutta la vita è simbiotica, che tutti gli individui sono in realtà assemblee permanenti di specie diverse fra loro. Ogni vivente è un’ecologia. Non siamo mai stati individui. Questa visione della vita però è tutt’altro che rassicurante. Sia la sopravvivenza sia l’estinzione sono eventi multispecie, che si propagano ben oltre i limiti di una singola popolazione. Non si tratta di vivere in armonia con la natura, quasi fosse una scelta morale: se non cooperiamo crepiamo. È finito il tempo in cui potevamo permetterci di immaginare la Natura come un’entità immensa ma passiva, l’indifferente terreno calcato dagli stivali delle sette leghe della Storia umana. Il pianeta in cui abitiamo non ha nulla a che vedere con il fondale che secoli di storia del pensiero hanno sognato. Per nostra fortuna, le scienze offrono alla nostra attenzione delle formidabili protesi planetarie, che ci consentono di percepire l’immenso campo di relazioni in cui siamo perennemente inseriti ben oltre le modeste capacità dei nostri cinque sensi. Mentre la fanfara delle grandi saghe epiche del progresso e della natura si affievolisce possiamo finalmente ascoltare e partecipare a una polifonia di ritmi che ora si intrecciano e ora stridono, come in una fuga o un madrigale.

    Mentre la marcia del progresso arranca, si dissolve anche l’idea che qualcosa o qualcuno possa salvarci tirandoci fuori dal pandemonio in cui ci siamo infilati. Ma sia il più nichilista dei pessimisti sia l’ottimista più sfrenato non possono che inciampare e barcollare quando le storie, i concetti e le immagini che li hanno mossi o paralizzati si rivelano comicamente inadatte ai tempi geostorici che corrono. Fare attenzione alle rovine in cui abitiamo non vuol dire abbandonarsi a una forma di muta e disincantata contemplazione o romanticizzare la catastrofe, ma collaborare per inventare tesori a partire dai rottami che ci circondano. I boschi in cui crescono i funghi matsutake sono solo alcuni dei molteplici spazi comuni che sopravvivono e prosperano malgrado soprusi e violenze. Stanno negli spazi abbandonati delle nostre città, ai margini di infrastrutture colossali, sulle rive dei fiumi e non hanno protagonisti né eroi.

    Che cosa accadrebbe se fabbricassimo le nostre storie con una forma diversa, fatta per raccogliere invece che cacciare?

    Questi luoghi raccontano storie evanescenti, fatte di intrecci improvvisati fra attori improbabili. Per notarle bisogna essere allenati e saperle raccogliere con cura. Nel saggio The Carrier Bag Theory of Fiction la scrittrice Ursula K. Le Guin propone un formidabile esercizio di paleonarrativa. Siamo abituati da millenni ad ascoltare storie che hanno sempre la medesima forma: quella della battuta di caccia. Un eroico cacciatore parte da solo alla ricerca di una preda, affronta mille peripezie e pericoli, rischia la vita ma infine riesce a sopraffare con la forza o con l’ingegno la propria vittima, che, una volta stramazzata al suolo, viene trascinata a casa e accolta dagli schiamazzi festosi del villaggio. In questa tradizione ogni storia assume il profilo di un’arma. Che cosa accadrebbe se fabbricassimo le nostre storie con una forma diversa, fatta per raccogliere invece che cacciare? Nonostante secoli di violenza, anche mentre l’Oceano brucia, i margini sfilacciati del nostro pianeta rattoppato strabordano di gemme concettuali, pepite narrative, storie preziosissime: attendono solo di essere notati. Forse è a questo che servono le environmental humanities: a raffinare i sensi, a imbastardire i saperi, a intrecciare cestini capienti.

    Immagine da Unsplash

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