La percezione della disabilità al museo

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    Al museo, patrimoni materiali e immateriali sono costantemente soggetti alle interpretazioni dei visitatori, da intendersi quali soggetti attivi, portatori di esperienze e competenze proprie che determinano la rielaborazione di significati ogni volta diversi. La consapevolezza di questa libertà interpretativa non deve però farci desistere nello sforzo di veicolare percezioni complesse e il più possibili neutrali su persone e gruppi a rischio di esclusione sociale rappresentati, direttamente o indirettamente, al museo.

    Viviamo di stereotipi sugli altri, percezioni rassicuranti e approssimative acquisite sulla base di un sentire comune. Le etichette che associamo comunemente alle persone sono una pretesa banale che riduce la complessità degli individui che ne sono oggetto (o vittima) ad uno o pochi aggettivi. Immagini degli altri che contribuiscono a plasmare, al contrario, l’identità che vorremmo fosse a noi associata; a farci sentire parte di quelle comunità che, neppure sempre unite, oppongono loro resistenza.

    Certe etichette possono essere facilmente intuibili: sono i migranti, gli omosessuali, i rom, ad esempio, ma possono anche essere più subdole, socialmente meno significative o pretenziosamente innocue, come quelle che considerano in modo omogeneo i visitatori che, al museo, giocano a farsi i selfie. Puntare il dito contro un insieme, presumendolo compatto, significa comunque ribadire ad altri (sempre gli altri) la differenza della nostra presunta correttezza.

    C’è sempre una normalità attesa e un confine giusto che delimita chi siamo. Quando esplicitiamo la nostra distanza da un gruppo, o addirittura il disaccordo, in genere, ci appelliamo all’incapacità altrui di scelta: avrebbero potuto non venire in Italia, avrebbero potuto scattarsi le foto in montagna. Opposizioni rispetto alle quali sembra facile definire i margini (e dunque i rischi) perché spesso dichiarate, visibili. Eppure resistono stereotipi ai quali non sentiamo, come società civile, di poter esplicitare liberamente l’aderenza: uno di questi, eppure reale, è certamente associato alla disabilità.

    Per retaggio culturale e prossimità inevitabile (fosse anche solo una proiezione del nostro futuro) la disabilità ci è comunque vicina: con un occhio cerchiamo di non vederla, con l’altro ci soffermiamo curiosi. Comprendere la storia della disabilità in Italia, in questo senso, è centrale. Uno snodo significativo si verifica nel Novecento con lo sviluppo di nuove politiche e forme associative che diventano di riferimento. Le racconta bene il libro Storia della disabilità (Schianchi, 2012), ribadendo in più punti come nel nostro paese sia tuttora assente un insegnamento dedicato ai disability studies, critico e diffuso, capace di promuovere nuovi fronti della percezione in grado di incidere sui tabù.

    Come la disabilità incroci, a oggi, i temi del museo è storia sempre più nota e recente, vòlta principalmente all’abbattimento delle barriere fisiche, sensoriali e cognitive: pratiche e opportunità di confronto teorico che, via via, cercano di colmare uno scarto con altri paesi, contribuendo (lentamente) a fare dell’accessibilità museale una disciplina vera a propria anche da noi. Quello che allo stato attuale delle cose, tuttavia, merita un’azione più risoluta sono i presupposti stereotipati che una rappresentazione distorta o assente della disabilità al museo può contribuire a rafforzare.

    La riflessione su come il museo possa veicolare il senso dell’identità di gruppi sociali diversi, per tutti coloro che hanno dimestichezza con la museologia contemporanea, rappresenta un tema indagato da decenni, soprattutto nello sviluppo di competenze di tipo interculturale.

    In questo senso, alla stregua di una riflessione anche di natura antropologica, la museologia si è interrogata in più casi sulla parzialità di esposizioni che raccontano la diversità culturale da punti di vista incapaci di mettersi in dialogo con i soggetti delle loro narrazioni.

    Un esempio macroscopico è quello descritto da Ivan Karp, curatore della sezione di African Ethnology presso il Museum of Natural History di Washington DC, che esplicita i rischi connessi a una comunicazione inevitabile anche quando implicita: è appunto il caso del museo citato, dove, fino al 2000, le sale riservate alle culture africane erano situate alla fine dell’area dedicata all’era delle glaciazioni. La scelta era motivata da ragioni di tipo logistico, e coinvolgeva due sezioni progettate da dipartimenti diversi a 15 anni l’una dall’altra ma che lasciavano intendere – le segnalazioni erano state proprio dei visitatori – come nella scala dell’evoluzione culturale quella africana (nel diorama di una popolazione namibiana degli anni ‘50) seguisse direttamente l’uomo di Neanderthal. Un equivoco intollerabile per qualsiasi istituzione che pretenda di essere autorevole.

    Gli esempi di questo tipo sarebbero migliaia perché nessun museo può dirsi neutrale. Consapevoli però delle responsabilità associate, si tratta di ipotizzare soluzioni per contenerne i rischi, esplicitandone il filtro, moltiplicando i punti di vista connessi al patrimonio materiale e immateriale, allargando e differenziando la base di chi definisce i contenuti.

    Il tema della rappresentazione è dunque sempre più centrale, quantomeno laddove il consenso sulle finalità del museo risulta condiviso da tutti i livelli, a iniziare da quelli che ne detengono la leadership. Anche nell’ultima edizione di TrendsWatch, la pubblicazione annuale che traccia le tendenze in atto nel settore museale, questo aspetto emerge come trainante soprattutto associato a questioni culturali e di genere.

    Se degli aspetti connessi alla mancata o distorta narrazione di gruppi identificati come omogenei e a rischio di pregiudizio si è detto rispetto agli ambiti dell’informazione, del cinema, della pubblicità, troppo poco si è riflettuto sulle specificità museali, soprattutto con riferimento al significato simbolico di un’istituzione che pretendiamo sappia descriverci tutti in modo complesso, sulla scorta di un controllo, anche in questo caso, quantomeno di tipo rappresentativo.

    In riferimento agli studi sulla rappresentazione al museo il portavoce più autorevole resta indubbiamente il Research Centre for Museums and Galleries (RCMG) dell’Università di Leicester, che da anni promuove ricerche approfondite sul tema, con un focus specifico sulla disabilità. Sul sito del centro di ricerca è possibile scaricare molte delle indagini dedicate agli impatti generati dalle percezioni elaborate dai visitatori. Fra le finalità attese, ricorrente è il tema che mira alla promozione della giustizia sociale attraverso pratiche che sappiano fare della disabilità, nell’esempio specifico, un tema trasversale di comprensione capace di emergere sia nella proposizione dei contenuti delle opere (moltissime, anche storiche, quelle invisibili eppure esistenti sul tema) o nel coinvolgimento diretto di artisti o di personale museale con disabilità.

    Nulla su di noi senza di noi, del resto, è uno slogan nato negli anni ‘90 negli Stati Uniti all’interno di movimento attivista afroamericano per la disabilità. Un richiamo forte che, valido per qualsiasi istanza di correttezza sociale, richiama alle necessità di coinvolgimento diretto delle persone che in prima persona ne rivendicano i diritti.

    È la stessa consapevolezza che, del resto, guida alcuni dei numerosi comitati di interesse diffusi in molti musei all’estero che collaborano alla definizione e revisione periodica di strumenti per l’accesso e talvolta anche questioni legate alla rappresentazione, come il Museum Access Consortium di New York o il gruppo di lavoro associato alla mostra Life Beyond the Label; nati dalla stessa consapevolezza, d’altra parte, di quegli annunci di lavoro (da noi ancora improbabili) che ricercano figure professionali dedicate all’advocacy, ovvero alla difesa dei diritti e dei punti di vista delle possibili comunità di riferimento del museo.

    È evidente, anche in questo caso, che non necessariamente quella intesa come una comunità debba però condividere le stesse esigenze o le medesime idee.

    È stato di estremo interesse, per esempio, il confronto diretto con Mike Irvin, giornalista e sceneggiatore, da me intervistato due anni fa sulle specificità dell’esperienza del Victory Garden Theatre di Chicago, teatro modello negli Stati Uniti per quel che riguarda l’accessibilità. Mike Ervin, attivista con una grave disabilità motoria, alcuni anni fa ha realizzato un documentario piuttosto discusso (The kids are all right, 2005) in cui accusava un famoso programma televisivo di raccolta fondi per una malattia proprio perché, secondo il suo punto di vista, veicolava un’immagine pietistica della disabilità. In questo caso, la presa di posizione era evidentemente forte e non da tutti condivisibile, ma lasciava certamente emergere con chiarezza l’esigenza di promuovere una percezione neutrale della differenza equiparandone il valore alla definizione concreta di soluzioni per l’accesso.

    La letteratura dei disability studies, in questo senso, mostra chiaramente come i rischi connessi alle pratiche di rappresentazione (quando la rappresentazione sia presente) oscillano principalmente fra due variabili: la persona con disabilità come vittima oppure come eroe. Queste accezioni, evidentemente, possono emergere attraverso scelte comunicative che, in senso lato, non sempre sono esplicite: se il RCMG pone l’accento sulla necessità di rendere, seppure in forme diverse, la disabilità visibile, un’altra possibile declinazione di questo paradigma riguarda certamente le competenze comunicative dei musei, con specifico riferimento alla promozione delle proposte per l’accessibilità.

    Se la rilevanza di una comunicazione corretta su questi temi è stata fra gli argomenti di un recente convegno svoltosi a Palazzo Strozzi di Firenze, più in generale permane la necessità di orientare un nuovo discorso che scardini la paura di offendere, questione ricorrente in molti studi occidentali, a prescindere dal contesto culturale di riferimento: l’umorismo poco politically correct di un attore riconosciuto come Matt Fraser, il cui lavoro è promosso anche dalla Museum Association britannica, ne è un esempio chiarissimo, che nasce da un portato di sapere molto più strutturato anche da un punto di vista istituzionale.

    Si tratta dunque di scardinare le facili associazioni di idee. Perché se, banalizzando e con riferimento soprattutto ai territori di provincia, i luoghi di servizio e benessere possono essere il centro diurno, chissà l’oratorio, o le associazioni di volontariato, andiamo riferendoci a realtà necessarie, imprescindibili, ma che ad oggi difficilmente hanno contribuito, spesso per mancanza di risorse e competenze specifiche, a svincolare la disabilità da un’immagine che non fosse connessa, in primis, ai bisogni.

    È il riferimento metaforico alle “mostre di lavoretti”, da sostituirsi, nelle potenzialità di una competenza museale, in percorsi espositivi che nascano da premesse chiare e persino da font attentamente scelti. Non dei musei sulla disabilità (pure esistenti), ma musei capaci di esplicitare le differenziazioni fra stili di apprendimento, approcci multisensoriali che concepiscano diversi canali di comunicazione come paritetici. Non un museo sulle sedie a rotelle, ma un museo sulle decine di declinazioni possibili del movimento.

    In questo senso, del resto, ricalibrare la gerarchia delle pratiche significa anche ripensare in modo nuovo alla stessa accessibilità. Un esempio: per quanto la pratica visiva sia sottoposta a progressive pratiche di revisione in ambito museale (Candlin, 2003) l’esperienza tattile è ancora intesa come compensativa esclusivamente per i visitatori con disabilità visive, alla stregua di una velata ‘normalizzazione’.

    L’esigenza che emerge, nuovamente, è quella di rete, di rimessa in discussione delle istanze di forma e di contenuto che, da un lato, insista sulle pratiche di scambio fra realtà dalle competenze complementari, e che, dall’altro, si faccia carico di una comunicazione sempre pensata come carica di significati impliciti e intesa come olistica.

    Nelle specificità dell’istituzione cui ci riferiamo, il tema trova così chiara traduzione anche sul fronte dei contenuti: è il confronto suggerito da Sandell e Dodd (2010) fra la scultura di Marc Quinn raffigurante Alison Lapper (nuda, focomelica, incinta) e la Venere di Milo dagli arti amputati dalle vicende storiche; è il lavoro di riallestimento del Musée de l’Homme di Parigi che nell’ultima sezione associa protesi differenti: perché una gamba artificiale compensa una disabilità mentre la protesi di silicone di un seno ridefinisce la bellezza e gli occhiali possono rappresentare un vezzo intellettuale? Sono le scarpe estremamente simili di una mostra del 2007 allestita alla Northampton Museum and Art Gallery dove la prima è una scarpa ortopedica degli anni Venti e la seconda un modello tutto arroganza e seduzione anni Novanta.

    L’evidenza empirica degli studi ha dimostrato che le mostre, indistintamente, sono spesso lette in un modo che riflette la loro percepita autorità culturale. Per questa ragione, viene da domandarsi se i musei d’arte contemporanea (che nel paradigma delle percezioni comuni sono forse quanto di più distante dalla disabilità) non possano avere una responsabilità determinante nell’orientare la neutralità di un sentire comune. Del resto, è proprio una questione di cura dell’immagine, per la quale il riferimento trasversale all’accessibilità come modello merita di essere incluso persino nelle pratiche di curatela, come dimostra anche lo studio condotto da Amanda Cachia, curatrice indipendente australiana.

    Due casi statunitensi (ma esistono anche buone prassi italiane) offrono un ulteriore spunto interrogativo: l’importante valorizzazione delle attività legate all’accessibilità, opportunità anche per lavorare con artisti contemporanei con disabilità, al Whitney Museum di New York; o anche l’azione di Creativity Explored di San Francisco, una galleria e centro di inserimento professionale dedicato alle arti visive che rilancia, quando di spessore, il lavoro dei propri utenti all’interno di circuiti di mercato ufficiali, al di là delle etichette da outsider comunemente associate a questi artisti.
 Musei e gallerie considerati luoghi rigorosi, inarrivabili, di tendenza: cornici capaci di riassegnare valore alle persone, alle opere, alle scelte di cui si fanno portavoce.

    Durante un workshop museale condotto qualche anno fa in un museo d’arte contemporanea, una persona aveva detto: “Quest’opera per me è arte perché si trova in un museo”, esplicitando il senso di una frase comunque corretta. Il museo, quando credibile, affidabile, può infatti restituire più facilmente agli oggetti e alle persone che accoglie, la stessa credibilità e affidabilità delle sue cornici: per questo motivo, se il museo saprà farsi portavoce di una chiave neutra potrà contribuire ad assegnare anche alla disabilità un nuovo portato di percezioni, dove la differenza, senza retorica, possa rappresentare solo una possibilità inevitabile capace di scalzare quel principio abusato della media.

    Perché non è affatto questione di appellarsi ai dettagli, come potrebbero dire in molti, quanto, piuttosto, di concepire un sistema integrato di consapevolezze complesse che lavorino sui servizi e insieme sui loro significati: perché quando metteremo a fuoco che la sfida maggiore è sfuggire alle etichette, avremmo fatto certamente anche un passo avanti per una maggiore comprensione dell’arte, contemporanea soprattutto.
 Sono il bello, il brutto, il giusto, l’errore: per negoziare le trasformazioni culturali e sociali servirà ripensare anche al senso degli aggettivi più banali che usiamo ovunque, al museo, sul lavoro, nelle scuole o comunque in ogni altrove.

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