Quello di cui abbiamo bisogno per pensare di nuovo al futuro

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    Nelle pause di questa quarantena mi ritrovo a immaginare sempre la stessa scena: un’auto si cappotta in slow motion, nel buio, giù per un declivio tra l’erba verde. I passeggeri hanno l’aria sbigottita, chi con gli occhi chiusi e chi sbarrati. Il parabrezza frantumato, il vetro vola in ogni direzione. La macchina ruzzola e ruzzola e io non si sa come va a finire. Magari nel modo più fatale. O forse a un certo punto l’auto si ferma: è distrutta ma gli occupanti escono, e strapazzati e sanguinanti iniziano ad inerpicarsi, alla ricerca di un passaggio.

    Continuo a pesarci da quando ho letto un po’ di cose sul normalcy bias: la tendenza delle vittime di incidenti e catastrofi a comportarsi, nello shock, come se tutto fosse normale. Perché in queste situazioni le persone reagiscono in modi diversi. Alcune scoprono risorse che non sospettavano di avere, altre crollano in modi imprevisti, altre ancora inseriscono il pilota automatico e continuano a pensare e a comportarsi come se nulla fosse cambiato. E sono la maggioranza: c’è chi le stima attorno al 70%. In queste settimane sembra che in moltissimi si stiano comportando in questo modo. Sguardi, discorsi, proposte, proiezioni. Troppo di quello che investe il nostro quotidiano recluso, luttuoso e spaventato si rifiuta di accettare un’evidenza semplicissima: viviamo nell’incognita. Viviamo un momento che non riusciamo a comprendere fino in fondo. Non riusciamo a capire come ci sentiamo noi e neanche – dietro alle mascherine e agli schermi – come si sentono gli altri. È  da qui – prima che da tutto il resto – che viene la nostra incapacità di immaginare quello che ci aspetta “dopo”.

    Ci aspetta uno scenario di recessione globale e di trasformazioni inimmaginabili sul piano sociale, culturale e politico

    L’unica cosa che sappiamo con certezza è che ci aspetta uno scenario di recessione globale e di trasformazioni inimmaginabili sul piano sociale, culturale e politico. A questa certezza dobbiamo imparare ad associarne un’altra: molte delle forme di pensiero che ci hanno accompagnati finora sono inadeguate a comprendere la radicalità e la vastità dei cambiamenti che ci attendono. E che gli sguardi, i discorsi, le proposte, le proiezioni fatte con il pensiero di ieri non ci possono bastare. Eppure da qualche parte tocca iniziare a provare.

    La prima cosa entrata in crisi è il legame che si è rafforzato negli anni tra cultura, marketing e self branding. La memoria si comporta in modo strano in questi giorni che sembrano troppo spesso tutti uguali, ma una delle cose che ci ricorderemo con più chiarezza in qualsiasi “dopo” sarà la rincorsa all’auto-promozione scomposta che accumula infiniti oggetti identici tra loro: diari della quarantena, narrazioni domestiche, letture sul divano, ricettari, selfie pandemici. È ovvio e umano e tenero che tutti sentano il bisogno di lasciare una traccia nella distanza che separa corpi ed emozioni. Ma il risultato è qualcosa che gli studiosi della comunicazione conoscono molto bene: il sovraccarico dell’infosfera rende ogni cosa virtualmente indistinguibile dal resto e ogni segnale rischia di diventare rumore.

    Per avere cura della nostra vita abbiamo bisogno di una nuova cura della comunicazione. Un esercizio che ci aiuti a selezionare, permutare e sottrarre. Che interroghi radicalmente le forme dell’esperienza su cosa vale davvero la pena produrre, condividere e consumare.

    Per avere cura della nostra vita abbiamo bisogno di una nuova cura della comunicazione

    Con il passare dei giorni e delle morti la cosa che mostra forse più la corda è l’ottimismo forzato. Anni di ossessione per il pensiero positivo si sono schiantati contro un muro di cemento dove campeggia un “andrà tutto bene”. Il risultato è un evidente estraniamento da sé, una rimozione della complessità e delle avversità, dei lutti e del bisogno di cambiamento. Rimuovere il senso del tragico dalla vita quotidiana è un’operazione alla quale ci siamo preparati per anni, infantilizzando la nostra reazione alla sofferenza, consolandoci con estetiche sempre più semplificate e retoriche ancora più innocue. Abbiamo usato le parole ed i simboli per costruire una distanza con il nostro vissuto e con quello degli altri, lasciando un vuoto. E preparando il terreno per altre parole, altri simboli e altre estetiche sempre più viscerali ed aggressive.

    È il momento di riconoscere collettivamente che abbiamo bisogno di nuovi segni, nuovi significati e nuovi rituali. Anche se abbiamo paura di ammetterlo – per primi a noi stessi – ci vorrà molto tempo prima di poterci incontrare e toccare di nuovo, nella beata confusione della folla. Quali pratiche culturali vogliamo abitare, nel mentre? A quali immaginari vogliamo dare da mangiare?

    Da tempo, da molto prima del virus, la distanza che ha intessuto le nostre vite ha prodotto la nostalgia per un feticcio della comunità che ha quasi il sapore dell’amnesia. Abbiamo imparato a proiettare su un dispositivo pavloviano di marketing – la community del web 2.0 – tutta la nostra fame di umanità, di relazioni, di connessioni, di responsabilità verso sé stessi e gli altri.

    Avrebbe dovuto avvertirci l’ondata sovranista e populista dell’ultimo decennio: la comunità può essere tutto e il contrario di tutto.

    È quella leva che fa organizzare le persone per portare la spesa agli anziani che non sfidano i luoghi pubblici e le loro promesse virali ma è anche, a volte con lo stesso volto e a volte con altri, quella che si organizza per cercare di tirare con la fionda ai devianti, agli untori, agli indisciplinati. È quella cosa che genera nuove forme e nuove risposte ma anche quella cosa che cerca la normalizzazione e i confini per poter passare il tempo a vigilarli. Per troppo tempo ci siamo anestetizzati alla complessità del mondo sociale ed i limiti oggi sono evidenti e sotto gli occhi di tutti.

    Abbiamo bisogno di imparare nuove grammatiche della vita collettiva

    Abbiamo bisogno di imparare nuove grammatiche della vita collettiva, riconoscendoci non solo come individui, familiari, cittadini o membri di comunità ma anche come parti di reti a maglie strette e a maglie larghe, famiglie allargate, scene a intensità variabile, pubblici produttivi e non, comunità di pratiche, comitati temporanei, connessi e connettori.

    L’impossibilità di comprendere che succede oggi e di immaginare quello che potrà succedere domani sta mostrando tutti i limiti di una forma di pensiero alla quale ci siamo addestrati per troppo tempo. Come levrieri in un cinodromo abbiamo rincorso lepri meccaniche sempre nuove, proiettando la nostra volontà verso i bersagli per risolvere problemi, conquistare obiettivi, espugnare postazioni: ci siamo ingegnati per esercitare forme straordinarie di efficacia riducendo la complessità, imponendoci l’astrazione, ottundendo l’intuizione. Forse oggi una parte di coloro che hanno la fortuna di non doversi concentrare sul rischio continuo in una corsia, su un furgone delle consegne, alla cassa di un supermercato o in una catena di montaggio può provare a imparare qualcosa delle giornate e dalle settimane sempre uguali.

    Abbiamo bisogno di nuove forme di progettazione per l’incertezza nelle quali il solido e il fluido, il predeterminato e l’imprevisto siano liberi di disegnare geometrie che ancora non conosciamo. Dobbiamo imparare a fare spazio per quello che esce dalle cornici, per lo scarto tra la regola immaginata e la possibilità che trabocca dal reale.

    In queste settimane per molti è stato facile chiedere di stare tutti a casa. In tante camere d’eco sui social network l’unica grande differenza messa sul tavolo è stata quella tra chi la casa ce l’ha e chi no. Nell’appello ininterrotto alle responsabilità individuali – usato troppo spesso per distogliere l’attenzione da quelle politiche – ci si è voluti sentire “tutti sulla stessa barca”, dimenticando che le catastrofi sono un moltiplicatore delle disuguaglianze e che non è vero che le affrontiamo nelle stesse condizioni.

    Abbiamo bisogno di riconoscere le forme del privilegio e della disuguaglianza

    C’è chi il lavoro ce l’ha e chi no. Se c’è, troppo spesso è precario o in nero. C’è chi ha alle spalle rendite grandi e piccole e chi è costretto ad arrivare alla fine del mese esclusivamente con quello che guadagna. C’è chi sta trascorrendo la quarantena tra terrazze, giardini condominiali e abbondanza di metri quadri e chi lo sta facendo in appartamenti sovraffollati che cadono a pezzi, senza affacci sull’esterno. C’è chi ha la nausea da streaming e chi non ha una connessione. È chiaro che, se vogliamo pensare a quello che arriverà “dopo”, abbiamo bisogno di riconoscere le forme del privilegio e della disuguaglianza ed imparare a chiamarle per nome. Prima che sia troppo tardi e che le scenografie che abbiamo costruito per anni ci crollino addosso.

    Note