Oltre il confine dell’innovazione

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    Collaborazione, partecipazione, open access, sharing economy, commons, non sono cose interessanti perché più giuste di per sé, non sono auspicabili perché sono cose buone o perché noi siamo buoni, o più buoni di altri. Non ci vediamo niente di particolarmente esaltante o positivo ma ragionarci sopra ci serve per comprendere meglio cosa sta succedendo e quali siano i bisogni, i desideri e le aspettative delle persone che fanno innovazione.

    Per altro verso è la prospettiva storica che ci interessa; il mondo dei prosumer, per esempio, non è il futuro che ci auguriamo, semmai è il nostro presente e futuro prossimo che sembrano avere queste forme, quindi ce ne interroghiamo, cerchiamo di capire come funzionano certi dispositivi tecnici e semantici, per prepararci a quello che viene. Questo perché una lente rivelatrice è spesso quella della funzionalità, una lente molto valida per discernere tra i fenomeni i loro differenti gradi di fattualità.

    Similmente, ci domandiamo cosa abbiamo da imparare dal discorso sull’audience development o sulla sharing economy o sulle nuove forme di governance.

    Il settore culturale è un segmento strategico per la costruzione di immaginario

    Penso che se fossimo in grado di descrivere lucidamente questi elementi e i loro meccanismi, allora offriremmo un servizio valido ai produttori di cultura, ai pubblici, agli operatori e alla collettività in generale. C’è sempre bisogno di saper orientare lo sguardo e l’azione verso il benessere comune. Altrimenti, meglio andare a raccogliere margherite nei prati.

    Durante questa operazione di mappatura di pratiche e concetti, è richiesta una buona dose di attenzione e autocontrollo per girare al largo dalla lusinga di costruire regole ulteriori da imporre ad altri. Ossia, per nessuna ragione la ricerca di modi inediti di progettazione, produzione e fruizione (culturale) dovrebbe essere normativizzante.

    È più desiderabile, per quanto possibile, creare spazio anziché confini; aprire, non determinare altri steccati. La frontiera è bella quando si supera, non quando costringe a una nuova geografia di consumo. La costruzione di nuovi poteri non ci interessa. La diffusione dei saperi sì.

    Il settore culturale è un segmento strategico per la costruzione di immaginario, a partire dal quale lavorare sull’emancipazione sociale. E noi lo riconosciamo come un’area cruciale per la diffusione di quelle pratiche collaborative che aumentano il grado di unità e benessere collettivo. Ma proprio questi motivi di interesse lo rendono particolarmente attrattivo anche per altre forze, di diversa natura.

    Essere con coscienza un soggetto attivo del settore culturale, vuol dire fare esperienza diretta di un nodo di problemi e contraddizioni tipico della nostra contemporaneità. Ciò ha a che fare con la capacità polimorfica del capitale di rigenerarsi, con le politiche neoliberiste dell’Unione Europea, con la fame di innovazione della finanza internazionale, con la voglia di ridurre l’impatto sociale delle humanities, con la programmazione del desiderio e la sua induzione in segmenti merceleogicamente specifici. Altresì ha a che fare con il passaggio dall’estrazione del valore dal lavoro all’estrazione del valore dal non-lavoro e dal tempo libero, dalla biopolitica al biolavoro, dallo sfruttamento delle passioni al lavoro gratuito, alla sussunzione della voglia di partecipazione e della felicità che comporta.

    Com’è possibile allora prendere posizione in questo dedalo di spinte e intenzioni? Oggi sono molti i lavoratori che subiscono questo scontro tra pulsioni di diversa natura.

    Se mi guardo intorno vedo una fitta rete di soggetti coinvolti in varie forme nella medesima deriva. Professionisti, il più delle volte persone altamente preparate, ben alfabetizzati digitalmente, con una diversa idea di proprietà e che hanno interiorizzato moduli di collaborazione e sanno usare a proprio vantaggio i cambiamenti imposti dalla modernità liquida.

    Ma cosa significa restare umani? Siamo certi che sia davvero il lavoro da fare, il nostro obiettivo preferibile, un obiettivo promettente?

    Nell’ambito che frequento, spesso prendono le forme dell’attivista culturale che ha fatto sua una prospettiva alternativa a quella dell’intellettuale novecentesco, e ha pochi e chiari obiettivi: saldare insieme il sapere, la cultura e la vita.

    Questi soggetti però, non sempre sono consapevoli della partita più grande che si gioca sulle loro teste – e attraverso i loro corpi. A volte sono le prime vittime delle loro stesse retoriche, perché si affidano a parole d’ordine e modelli poco indagati e assunti come propri e legittimi con i migliori propositi. Credo però che ridiscutere le forme del proprio abitare il mondo sia uno dei compiti più importanti in carico a chi lavori a vario titolo nel settore culturale. Restiamo umani.

    Ma cosa significa restare umani? Siamo certi che sia davvero il lavoro da fare, il nostro obiettivo preferibile, un obiettivo promettente? Non è meglio andare in frantumi e ricomporci per dare vita a nuovi esseri? Sappiamo ormai da tempo che l’idea di essere umano è una costruzione ideologico-discorsiva intrecciata strettamente con quel pensiero della modernità che ha disegnato le nostre attuali società per essere funzionali al movimento perpetuo del capitale e ai suoi bisogni. Per quale motivo dovremmo quindi rimanere fermi a una idea che non ha nulla di immutabile o eterno?

    Restare umani andrebbe quindi inteso come un diventare umani sempre di nuovo, perché le condizioni di esistenza del progetto “essere umano” sembrano mutate enormemente nel corso del novecento e spesso ora risultano mortifere, nefaste, senza futuro. Ma c’è chi, da sempre, è innamorato del futuro.

    Occorre dunque avere la capacità di immaginare relazioni inedite attraverso cui il nuovo possa manifestarsi, modi stra-ordinari di stare insieme e collaborare sul piano sociale, cognitivo, fisico, digitale, ambientale, affettivo, politico. Essere umani è un significato che va realizzato e ricomposto senza fine, continuamente, perché non lo si è mai stati una volta per sempre, per fortuna. Non è anche questa innovazione? E allora diamoci delle forme nuove.

    Note