Servono nuove modalità di resistenza alla crisi — partiamo dal pensiero contro l’estasi

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    Nei Testamenti traditi, Milan Kundera rievoca un episodio della sua infanzia: sedeva al pianoforte e si lasciava andare creando improvvisazioni tanto banali quanto appassionate, basate su due accordi ripetuti all’infinito. L’intensità del momento lo trascinava in uno stato di estasi: nelle sue parole, “identificazione assoluta con l’attimo presente, oblio totale del passato e del futuro.” Poco più avanti, lo scrittore precisa: “Siamo abituati a collegare la nozione di estasi ai grandi momenti mistici. Ma c’è anche l’estasi quotidiana, banale, volgare: l’estasi della collera, l’estasi della velocità al volante, l’estasi provocata dai rumori assordanti, l’estasi da partita di calcio.”

    Questo trionfo dell’estasi, in cui ogni contesto, complessità o razionalità vengono banditi, descrive piuttosto bene il modello di discussione oggi più diffuso. Un modello in cui ci si abbandona all’enfasi, alla rabbia, all’indignazione o alla commozione — insomma, alle emozioni nude — e che è divenuto assolutamente trasversale. Riguarda tutti, e sopratutto riguarda chi esercita una professione intellettuale. È arrivato infatti il momento di badare con serietà ai nostri errori e non solo a quelli degli avversari: agli errori degli amici che si spendono, con passione e gratuità, per le cause dell’antifascismo, del femminismo, delle vite dei migranti, della lotta di classe, della giustizia sociale e così via: fini meravigliosi, ma che mezzi sbagliati rischiano distorcere e svilire. Semplificando brutalmente, nel campo delle opinioni e del discorso pubblico il romanticismo estatico deve lasciare spazio a un nuovo illuminismo.

    Ogni giorno subiamo ed esercitiamo il proclama e il commentino brillante, il gioco al rialzo dello sberleffo, l’assalto verbale, l’uso di argomenti faziosi, la distorsione e falsificazione dei dati, il sarcasmo da due soldi, lo sprezzo del dubbio metodologico, la reductio ad monstrum di chiunque la pensi in modo diverso. Se il fine è giusto, è ancor più facile indulgere a pensare che tutto valga e i mezzi siano neutri; ed è altrettanto facile smarrirsi nell’estasi della discussione.

    Mi inquieta il modo in cui ogni ordine del discorso si stia adeguando alle forme di protesta più rapide e irriflesse: è una sorta di contagio. Mi inquieta anche perché so quanto sia attraente comportarsi così — quale soddisfazione possa dare, per quanto effimera. Ma c’è una bella differenza tra questo stile di commento e la critica ponderata e radicale: innanzitutto perché la seconda costa tempo, difficilmente produce manciate di like, e impedisce di sentirsi in automatico buoni e giusti. E tuttavia è proprio da qui che dovremmo ripartire.

    Certo gli intellettuali non devono per questo scrivere “a modino”, evitando il conflitto. L’esatto contrario: gli intellettuali dovrebbero andarci a fondo, nel conflitto; ma esercitando un controllo assoluto sulla forma, sul mezzo, sulla logica del pensiero. La parola stessa indica l’esercizio pubblico dell’intelletto, non dell’emozione: e per quanto barbari possano essere i tempi, delegittimare tale esercizio è un rischio enorme per tutti.

    Naturalmente, con ciò non voglio negare l’importanza degli aspetti emotivi, né imporre un regime che bandisca il ricorso all’ironia o alle grida, se necessarie. Soltanto, continuo a pensare che la ragione sia troppo importante per essere soppiantata dalla passione del momento.

    Perché possiamo essere i più sinceri garanti dei diritti dei deboli, i più strenui difensori degli sfruttati: ma se cediamo sui mezzi, abbiamo già compiuto un passo nella terra dell’auto-indulgenza e della violenza. Dobbiamo certo sostenere le migliori cause: ma se nel farlo abdichiamo alla logica non convinceremo mai nessuno: lasceremo coloro con cui discutiamo in un limbo di rancore crescente. Usando la conoscenza come un manganello difficilmente ne mostreremo il lato emancipante; e senza un continuo lavoro per sgomberare il discorso comune dalle incrostazioni della falsità e della protervia, dell’incapacità di argomentare e dell’aggressività scambiata per critica, non vedo come le cose possano cambiare. È grave anche perché, al di là della materia di quanto si discute, se perdiamo un quadro formale di riferimento — il gioco di fornire e chiedere ragioni — allora qualsiasi discussione perde senso e l’unico criterio valido resta la maggior forza, verbale o fisica.

    Mi si obietterà che tutto questo è moralismo d’accatto, anche un po’ borghesotto; che coi tempi che corrono non è il caso di andare per il sottile; che lo scontro è ormai frontale e non ci si può fermare a riflettere; che l’intero ordine della comunicazione è cambiato e bisogna cavalcare la tigre, come si diceva un tempo, per farsi comprendere da tutti.

    Non sono d’accordo. Rasoiate sagaci e battute spicce sono ovunque e in gran quantità; mi domando perché insistere a produrne quando quel che manca, la vera merce rara sul mercato delle opinioni, è il pensiero sobrio.

    Certo, siamo tutti un po’ esasperati: la situazione è difficile e di motivi per lasciarsi andare alla mera rabbia ce ne sono molti. In un recente articolo sul The Guardian, Elisa Gabbert parlava di “sfinimento della compassione”: a furia di essere esposti a un ciclo continuo di cattive notizie, rabbia e indignazione, la nostra capacità empatica e la nostra volontà di impegno ne escono svilite — e rischiamo di abbandonarci alla rassegnazione, o credere che il pensiero sia inefficace. Certo può sembrarlo, vista l’irrazionalità diffusa e che permea anche gran parte della classe dirigente. Ma proprio per questo è importante non cedere al ricatto dell’estasi, e difendere con ancor più forza le risorse della logica e della lucidità.

    Ho iniziato questo articolo citando una grande personalità boema; vorrei concluderlo citandone un’altra. Recluso per quattro anni e mezzo come dissidente, Vaclav Havel scrisse delle bellissime lettere a sua moglie Olga. Fra queste c’è un passo che oggi suona quanto mai attuale: “Non dimenticarlo mai, la prima piccolissima bugia detta nel nome della verità, la prima minuscola ingiustizia commessa nell’interesse della giustizia, il primo inavvertibile tradimento della morale commesso in nome della moralità delle cose […] significano inequivocabilmente l’inizio della fine.”

    Ecco: riflettere sui modi più adatti di resistenza alla crisi è un compito indispensabile quanto ridare linfa ai fini più giusti, prima che la fine abbia davvero inizio.


    Immagine da Unsplash

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