Perché la storia del cinema è politica, un’intervista con Maurizio Braucci

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    Il cinema come politica, l’arte come impresa sociale. E la pandemia come occasione per gli artisti per tornare a lavorare insieme, cooperando e interrogandosi sui modi per reinventare il mondo, a partire da un nuovo immaginario e dalla consapevolezza che l’individuo è già natura, dentro la società e i suoi rapporti di forza, mai definitivi.

    In quest’intervista con cheFare Maurizio Braucci, scrittore, migliore sceneggiatore italiano del nostro tempo, interlocutore di registi come Pietro Marcello, Matteo Garrone, Abel Ferrara e Francesco Munzi, riconduce le domande sul cinema e sulla pandemia a una convinzione profonda, una matrice originaria che parte dal centro sociale Damm di Napoli e dall’esperienza teatrale di Arrevuoto e che arriva fino a Martin Eden, il film di Pietro Marcello del 2019 di cui è stato sceneggiatore, premiato agli ultimi David di Donatello: l’artista come operatore sociale, con responsabilità di coerenza verso se stesso e verso la società.

    Partirei dalla lettera aperta “per il sostegno all’esercizio cinematografico indipendente italiano”, in cui si dice che “l’Italia è ricca di una miriade di piccole sale cinematografiche che svolgono in modo indipendente e coraggioso, a volte faticoso ma remunerato dall’apprezzamento del pubblico, il loro servizio al territorio”. Perché hai deciso di firmare l’appello, nato durante la pandemia? Qual è la posta in gioco?

    Alla base dell’appello c’è la presa d’atto che il sistema del cinema sta cambiando: l’avanzamento tecnologico e i mutamenti della società producono trasformazioni inevitabili, di fronte alle quali a rimetterci sono le realtà più piccole, le sale di alcune città italiane, veri e propri piccoli monumenti, che ospitano i cineforum, organizzano i dibattiti dopo le proiezioni, i laboratori prima dei film, che mantengono e custodiscono l’idea del cinema come visione non soltanto di consumo, come avviene invece nelle multisale, secondo la logica della grande distribuzione.

    L’industria cinematografica sta cambiando, i grandi operatori hanno tutele che non mi interessa affatto difendere

    La pandemia evidenzia dunque una questione avviata da anni: il cinema che cambia, lo streaming, la richiesta dei grandi produttori di non uscire nelle sale così da presentare i film nei festival, la riduzione del tempo tra l’uscita in sala e lo streaming.

    L’industria cinematografica sta cambiando, i grandi operatori hanno tutele che non mi interessa affatto difendere. Mi interessa invece chi pensa al cinema come al momento di incontro tra persone che discutono di una visione: il passato del cinema è il suo futuro.

    Nell’appello c’è l’invito a “fare di questa fase un momento di riflessione sull’importanza della sala e progettare insieme un futuro del cinema plurale, sostenibile, equo”. Anche qui è evidente l’idea che la pandemia sia l’occasione per ripensare radicalmente il presente, l’idea che il virus possa fare la rivoluzione, per dirla con Zizek. Ma l’altra grande lettura è di natura opposta, penso alle tesi del filosofo sudcoreano Byung-Chul Han. Tra le due letture, quale sposi?

    Io sto in una posizione di mezzo, ma sono convinto che il mondo si dividerà sempre di più in due, tra chi penserà a mantenere i monopoli, le posizioni di privilegio e chi proverà a cambiare le cose. Mi schiero con questi ultimi, ma non vedo una trasformazione univoca, lineare, né nell’uno né nell’altro campo. Anche nel cinema sta avvenendo un processo già in corso altrove: i margini di profitto del capitale si riducono e allora si cerca di espandere le aree e gli strumenti che garantiscono nuovi profitti.

    A proposito di ripensamento: credo che le rivendicazioni economiche da parte degli artisti siano certo legittime, anche perché i governi – colpevoli di aver assecondato la logica del profitto e della finanza – sono responsabili dello stato attuale delle cose e sono tenuti a garantire una continuità di reddito, per esempio con un reddito universale -, ma credo anche che non ci si dovrebbe limitare a questo.

    Avanzare soltanto rivendicazioni economiche e finanziarie rischia di far rimanere gli artisti dentro la stessa logica di continuità economica che ha creato le attuali condizioni

    Avanzare soltanto rivendicazioni economiche e finanziarie rischia di far rimanere gli artisti dentro la stessa logica di continuità economica che ha creato le attuali condizioni. Soprattutto oggi, l’arte dovrebbe discutere molto di più dei contenuti, dei valori che trasmette, dovremmo ripensare alle ragioni che hanno ridotto l’arte e la cultura a merce, intrattenimento, amministrazione dello status quo. Una simile ridiscussione può avvenire soltanto se gli artisti si interrogano sui contenuti e sulle forme di innovazione che servono per cambiare la nostra idea del mondo, per creare una diversa opinione tra le persone.

    La crisi che stiamo vivendo è innanzitutto una crisi sanitaria e ambientale, che poi produce conseguenze economiche e che rende impossibile cooperare, stare insieme, negando la prossimità con l’altro e la stessa natura del cinema, che è una forma d’arte collettiva.

    Mi è venuto da ripensare alla grande crisi degli anni Trenta del Novecento e alla risposta keynesiana del New Deal, quando furono adottate alcune misure – penso per esempio al Federal Project Number One – che favorivano il lavoro collettivo degli artisti.

    L’incentivo a cooperare avrebbe poi contribuito alla formazione di grandissimi artisti come Elia Kazan, Orson Welles, Ralph Ellison. Oggi servirebbe qualcosa di simile: gli artisti dovrebbero ripensare il criterio stesso della produzione artistica, senza necessariamente aspettare produttori e governi, così da attribuire nuovi valori all’arte.

    Siamo troppo abituati a pensare l’arte come un’attività individualistica, mentre nessuna arte lo è davvero: l’artista è un interprete, il portatore di una certa idea di società, dietro al quale c’è sempre una comunità, come dimostra il caso del cinema.

    Siamo troppo abituati a pensare l’arte come un’attività individualistica, mentre nessuna arte lo è davver0

    La pandemia ci sollecita a ripensare l’arte come azione più collettiva, a riguadagnare una verità della cultura come impresa sociale. L’arte è sempre fatta da operatori sociali, nessuno può pensarsi privo di responsabilità verso la società. Siamo operatori sociali perché attraverso la cultura incidiamo sulla società, che ne siamo consapevoli o meno. Dobbiamo riguadagnare il senso di responsabilità verso il pubblico e verso la società, e dove possibile farlo insieme.

    Trovo interessante quest’idea: dall’isolamento forzato della quarantena viene la spinta alla cooperazione e al mutualismo in ambito artistico. Hai in mente qualche esempio specifico?

    Con alcuni cineasti campani stiamo facendo una battaglia per aprire una scuola di cinema in Campania. Stiamo incontrando tante resistenze, perché per molti la funzione della cultura è mantenere lo status quo e i monopoli formativi. La nostra idea è quella di una scuola del “fare cinema”, non solo teorica dunque, ma artigianale, a partire dalla convinzione che sia importante creare luoghi di formazione che ispirino gli artisti futuri, secondo il criterio collettivo a cui mi riferivo prima.

    Porto un altro esempio: in Italia in tutte le scuole si insegna un unico metodo di scrittura, per così dire industriale, che va a tutto vantaggio degli attuali rapporti di forza e del controllo del capitale sulla produzione. Avere tante scuole di scrittura cinematografica ma un solo metodo è come immaginare che esista una sola scuola di economia. Non può essere così.

    Invochi la responsabilità degli artisti verso il pubblico e verso la società e quella dei governi verso cittadini e lavoratori, e suggerisci progetti come il “Federal One” del New Deal americano. Però i rapporti di forza indicano una situazione diversa: la Italian Film Commission ha trovato un accordo con Netflix per un “fondo salva-troupe” da 1 milione di euro, come a dire che è il privato a svolgere il ruolo del pubblico. Mentre pare che negli Usa Amazon sia in trattativa con la Amc Theaters, che gestisce centinaia e centinaia di sale, e che Disney e Netflix abbiano interessi simili, oltre all’home theater. Com’è lavorare dentro un’industria culturale di questo tipo, per uno con il tuo punto di vista?

    Ti rispondo con un aneddoto: quando con Matteo Garrone abbiamo portato Gomorra agli Oscar, pochi mesi prima che morisse siano andati a incontrare il produttore Dino De Laurentiis, che ci ha detto: “in questo Paese il cinema non appartiene ai produttori, ma alle multinazionali, perché dietro i produttori ci sono le compagnie elettriche e petrolifere, il cinema è un’estensione della grande industria e finanza”.

    Anche nel cinema si vanno a toccare interessi forti e consolidati, che qualcuno tutela vigilando su forme e contenuti (difficile, per esempio, parlare male delle banche in un film). La grande questione di oggi, ripeto, è che il mondo sempre più si dividerà in due, tra chi a partire da questa drammatica crisi vorrà provare nuove forme di composizione sociale, nuove forme di produzione culturale, e chi invece tenderà a mantenere le proprie rendite.

    La questione a cui fai riferimento, già in corso prima della pandemia, lo rivela: il passaggio dalle sale pubbliche all’home theater, lo streaming, la proprietà delle produzioni culturali nelle mani di grandi multinazionali (sempre di più anche in Italia), sono tutte questioni che vanno discusse e vissute anche con il conflitto e con la disobbedienza.

    Credo che la scelta di Netflix sia un modo per approfittare della situazione per consolidare un monopolio, per ottenere maggiore legittimità con il pretesto di voler salvare l’industria del cinema. A dover tutelare i lavoratori dovrebbe essere il pubblico, la funzione keynesiana dello Stato. Dovremmo anzi procedere verso un tipo di economia più socialista, che si prenda cura della società e dei più fragili. Mentre gli artisti dovrebbero creare valori, opinione nel pubblico, introdurre le questioni più urgenti, l’ambiente, la società, il lavoro, le donne, le minoranze, i migranti. Si sta aprendo un grande scontro, una grande battaglia tra “conservatori” e “progressisti” e gli artisti devono essere consapevoli del loro ruolo.

    Vorrei spostare ancora di più la discussione dagli aspetti “produttivi” a quelli dell’immaginario. Partendo dall’idea che il cinema possa anticipare o riflettere i grandi cambiamenti sociali, mi chiedo se dobbiamo aspettarci che la pandemia produca nuovi e più radicali interrogativi sul rapporto tra individuo e società o tra società e ambiente, o sui modi con cui stare insieme in modo eticamente sostenibile. O se al contrario potrebbe esserci un appiattimento dell’immaginario su strade conosciute, consolidate, sicure per così dire…

    Le generazioni di artisti e operatori che si sono formati in questi ultimi anni sono in gran parte tarati su un concetto di cultura e di arte come mantenimento dello status quo, per cui non mi aspetto che cambino di punto in bianco. Farei un investimento sulle generazioni successive per creare un ripensamento del mondo così come lo invochi tu.

    In Campania – dove dal 2001 al 2010 la crisi dei rifiuti ha visto una mobilitazione contro gli interessi delle banche, le multinazionali e la criminalità organizzata – abbiamo appena creato una rete che si chiana “Terre in movimento”, con cui vogliamo seguire i conflitti ambientali. Partiamo dalla contestazione del concetto di ecologia dello sviluppo sostenibile, che con la sua mediazione con il capitale è stata corresponsabile dell’abuso e dello sfruttamento della natura, proprio perché non ha contemplato il conflitto. La pandemia dimostra che la mediazione ha fallito.

    Gli artisti e gli operatori che si sono formati in questi ultimi anni sono in gran parte tarati su un concetto di cultura e di arte come mantenimento dello status quo

    C’è bisogno di un’ecologia che accetti il conflitto. In Italia scontiamo anche un enorme deficit di cultura ecologica. Non è un caso che non esista un vero partito ecologista o ambientalista e che anche i partiti di sinistra abbiano avallato scelte come la Tav, perché la sinistra è sempre stata industrialista e sviluppista.

    Un criterio forse comprensibile un tempo, ma oggi l’urgenza è ripensare la cultura progressista. Lo sviluppo sostenibile è una bestemmia. Per una società che tende verso l’autodistruzione, che sostenibilità può esserci? Un suicidio più dolce e lento? Noi di “Terre in movimento” pensiamo che vada creata una cultura dell’ecologia popolare: non c’è bisogno di essere esperti, degli ecologisti già formati, basta conoscere il valore della vita e della salute.

    Per tornare al cinema, non saprei quanto la cultura cinematografica, perlopiù di sinistra e progressista, ma non ecologista, possa diventare portatrice di questi valori. La sfida è per le generazioni future. Ma sarei ingenuo se mi aspettassi che improvvisamente i padroni rinunciassero a essere padroni e i servi a essere servi. Bisogna lottare, accettando il conflitto, e allo stesso tempo piantare semi profondi di ridiscussione della nostra weltanschauung nelle generazioni più giovani. È un percorso non semplice e senza esiti certi, ma va fatto, perché l’autostrada verso l’autodistruzione ha passato il primo casello – Covid-19 – e se non ripensiamo la nostra cultura ecologica ci saranno presto altri caselli lungo la destinazione finale: il baratro.

    Le cose che dici sull’“inadeguatezza” della generazione attuale di artisti fanno pensare al saggio di Amitav Ghosh La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, che ruota intorno alla questione del clamoroso deficit di attenzione della letteratura nei riguardi dei mutamenti ecologici. Diresti che anche nel cinema c’è una cecità simile?

    Mi rifaccio molto a quel libro di Amitav Ghosh, lo ritengo importantissimo, così come il successivo, L’isola dei fucili, in cui pratica nella letteratura le idee di cui scrive ne La grande cecità. Ghosh sostiene che nella letteratura l’ambiente e la natura non siano mai stati veri personaggi, perché la nostra cultura ci impedisce di vederli come tali. Ne L’isola dei fucili Ghosh rende invece la natura un vero e proprio personaggio, con un’intuizione geniale. È un autore che rispetto profondamente proprio perché segna la distanza da quella visione dell’arte come mantenimento dello status quo di cui parlavamo prima.

    Guy Debord ha descritto la cultura nel modo più efficace: il modo attraverso il quale una società percepisce se stessa. La cultura ha dunque a che fare con il modo con cui ci pensiamo, con il nostro immaginario, che è colonizzato dall’idea dello status quo. Per questo non credo che il cinema possa acquisire improvvisamente questa capacità, perché oltre alla produzione cinematografica di per sé c’è tutto quell’insieme di segni, simboli, processi che costituiscono una società e che vanno nella direzione opposta rispetto a quella che indichi.

    Da parte mia, riconosco due grandi guide per le idee e per i contenuti. Uno è proprio Amitav Ghosh, per quanto riguarda la cultura, mentre per l’ecologia si tratta di Joan Martinez Alier, il primo a intuire che l’ecologia “tradizionale” non era sufficiente, perché i concetti di ambiente e individuo venivano ridotti a una visione monopolizzata dall’economia, con l’idea che in fondo si potesse distruggere la natura, anche se dentro certi limiti. Non è così.

    Un grande intellettuale italiano come Lorenzo Tomatis ha fatto una battaglia importantissima contro le sostanza tossiche. A chi diceva “riduciamole, non mettiamone troppe negli alimenti o nell’aria”, rispondeva che se una cosa è tossica rimane tossica. Vanno semplicemente eliminate.

    Un altro grande personaggio come Mario Tommasini, battagliero sindaco di Reggio Emilia, basagliano, diceva che esiste l’ecologia della mente, l’ecologia delle città e l’ecologia della natura. Nel suo pensiero anche l’individuo è immediatamente una questione ecologica. Non è un caso – ho scoperto attraverso Simone Weil – che Karl Marx sia stato molto ispirato da Darwin. Secondo la Weil, che ne criticava alcuni esiti, Marx avrebbe costruito tutta la sua visione sui rapporti di forza, sulla concretezza, sul materialismo a partire dalla grande osservazione sulla biologia di Darwin.

    Tutto questo per dire che siamo essenzialmente biologia, natura. Per rispondere alla tua domanda sul rapporto tra individuo e società, dunque, nessuno è individuo veramente e nessuno è assolutamente società. La stessa cosa vale per l’ecologia: con un pensiero distruttivo l’uomo non può tutelare la natura. Da qui la necessità di agire sul pensiero.

    A proposito di individuo e società, vorrei finire con Martin Eden, il film di Pietro Marcello di cui sei sceneggiatore. Nel film, come nel libro di Jack London, ci sono almeno tre temi cruciali: l’individualismo, la lotta di classe, l’industria culturale. Nel vostro film emerge forte, soprattutto nella parte finale, la consapevolezza che la cultura può essere strumento di emancipazione solo quando è in rapporto con gli altri, pensata insieme alla solidarietà, per un battaglia comune. Mi pare che qui ci sia molto del modo in cui intendi il tuo mestiere, in particolare le collaborazioni con Pietro Marcello…

    È così. Alla base c’è la convinzione che l’arte è politica. Non tutti la pensano così, però. Qualcuno è in disaccordo, qualcun altro tira fuori la vecchia questione dei rischi dell’“arte ideologica”. Io penso che tutto sia ideologia e che ci siano ideologie diverse nell’arte, e che per fortuna c’è anche un’ideologia che tenta di ridiscutere tutta l’ideologia e che è pensata a vantaggio della collettività. Anche chi non ritiene di fare politica, in realtà la sta facendo: siamo tutti operatori sociali che lavorano nella società attraverso la cultura, per mantenerla così come è o per cambiarla.

    Quanto a Martin Eden, è un’opera molto complessa, perché è il punto di arrivo dell’attività di scrittore e in qualche modo della biografia di Jack London, che partorisce una proiezione in negativo di se stesso, equiparabile a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.

    Martin Eden una grande metafora della degenerazione della cultura quando perde di vista il senso

    Nel libro, London mette in scena anche il fallimento di se stesso come primo grande scrittore di massa, la nascita dell’industria culturale, il rischio che il ruolo di intellettuale non sia più legato all’emancipazione. Tutto ciò viene reso con una metafora e con un personaggio che per così dire si “negativizza”. Ci identifichiamo con lui fino a quando non smette di identificarsi con la grande causa del socialismo, come gli dice il mentore Russ Brissenden.

    Una volta che perde la funzione sociale dell’arte, sfocia nel nichilismo, fino al suicidio. Perde la ragione, il senso, piomba nell’abisso del non senso, in un nichilismo che lo distrugge.

    Da questo punto di vista è un’opera molto attuale: parla di noi, del Novecento, profetizza i totalitarismi. Martin Eden è un eroe negativo, ricorda i tanti piccoli artisti che nella frustrazione e nella perdita del senso diventano cinici, perdono il senso del loro operare socialmente e finiscono con l’essere disposti ad accettare tutto, non credono più a niente e si prestano a vere e proprie empietà verso se stessi e verso gli altri.

    È una grande metafora della degenerazione della cultura quando perde di vista il senso. In fondo tutta questa nostra chiacchierata riguarda questa questione. Come diciamo nel manifesto di “Terre in movimento”, il Covid mostra che “a buon intenditor, poche parole”. Il prevalere del consumo, della merce, non è più soltanto una questione di stili di vita, di rapporti di forza, ma indica una ridiscussione fondamentale della vita e della morte, perché a rischio sopravvivenza è la nostra specie. Per ribaltare la situazione, occorre smettere di delegare, e agire insieme.

    Dietro la crisi attuale, c’è l’onnipotenza che negli ultimi 50 anni abbiamo attribuito alla finanza, all’industria, ma anche alla cultura. Ora che siamo arrivati di fronte a questo baratro, come nel caso del Titanic che sta per affondare abbiamo due soluzioni: c’è chi grida al si salvi chi può e chi si mette insieme ad altri per cercare soluzioni a vantaggio di tutti.

    Negli ultimi tre decenni la storia è stata fatta solo dalle élite, dai gruppi di potere. I popoli sono diventati terreni di sperimentazione della scienza più terribile e riuscita, il marketing. La pandemia ci dice che è tempo di tornare a rendere i popoli protagonisti della storia, senza più delegare.

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