Periferie e politiche pubbliche

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    cheFare mi ha invitato a riflettere su come le politiche pubbliche hanno definito la periferia nel corso degli ultimi anni. Raccolgo volentieri l’invito e azzardo una ipotesi interpretativa, spero utile per alimentare la discussione su un tema che è tornato, seppur in modo controverso, all’attenzione pubblica.

    Vedo due orientamenti: il primo riconosce delle parti di città che nomina “periferie”: su di esse disegna delle politiche, orientate a trattarne i problemi. Il secondo tende a riconoscere, in quelle stesse parti, soggetti e pratiche di innovazione; qui le politiche sono orientate a far emergere entrambi, ad abilitare i primi come attori e a trasformare le seconde in politiche pubbliche. Per il primo orientamento, le periferie sono uno spazio; per il secondo, sono un campo di azione.

    1. Il primo orientamento conosce varie declinazioni.

    Vi è la declinazione emergenziale: le periferie sono la sede dei mali della città: degrado, povertà, esclusione, più di recente anche culla del terrore nichilista. Le politiche contribuiscono a costruirne lo stigma, considerandole una emergenza sociale da trattare via programmi straordinari e misure urgenti di intervento.

    Ad un problem setting sbrigativo, segue la definizione di una soluzione inevitabilmente semplice: la seconda declinazione, di stampo riduzionista, è complementare alla prima: per essa, i problemi sono noti e sappiamo come trattarli. La cura va affidata ad opere pubbliche su cui canalizzare ingenti risorse. È la rigenerazione urbana via progetti cantierabili. Scrive Claudio Gnessi: «Il rigenerazionismo è l’altra faccia del degradismo. L’uno va a braccetto con l’altro. Moderni Stanlio e Ollio di una visione grottesca della città».

    Una nota di colore a questa seconda declinazione l’aggiunge la firma dell’architetto di fama. Essa ha il valore di una apparizione: la figura del salvatore che redime dai mali è una risorsa per decisori politici in lotta contro la complessità e per una stampa che, grazie ad una narrazione di stile messianico, trasferisce le storie di periferia dalla sezione “inchieste” a quella della “buona novella”1.

    Una terza declinazione è quella integrata: più sofisticata delle precedenti, argomenta che trattare la questione delle periferie implica assumere un approccio che faccia convergere più settori di politiche (urbanistiche, per la sostenibilità, sociali, culturali, del lavoro, della mobilità) su aree di intervento multiproblematiche. Promossa già con gli Urban pilot projects della Commissione Europea negli anni Novanta, è poi transitata nelle esperienze dei programmi Urban e, in Italia, nei Contratti di quartiere.

    Di questa declinazione, si danno due varianti: una che guarda all’integrazione da un punto di vista sostantivo e l’altra che la assume dal punto di vista del processo. L’una pone attenzione ai programmi di intervento: più ampia e variegata la lista delle azioni, maggiore il livello di integrazione della policy. Questa prima versione, largamente praticata nel nostro Paese, ha di solito consentito di nominare come integrate politiche per le periferie prive di focalizzazione. L’altra, decisamente minoritaria, interpreta invece l’integrazione come esito di un processo di convergenza (“corrispondenza”, direbbe Tim Ingold) tra problemi, risorse, sistemi di opportunità, attori, interessi attorno ad un ambito di intervento. Sono politiche integrate quelle «capaci di comprendere (nel doppio senso di “capire” e “tenere al proprio interno”) le diverse dimensioni dei problemi territoriali e soprattutto le interdipendenze tra tali dimensioni» (P. Fareri, Rallentare, Angeli, 2009, p. 122.).

    2. Il secondo orientamento riconosce le energie sociali

    Quest’ultima variante apre al secondo orientamento delle politiche per le periferie che ho individuato. L’azione pubblica diviene riconoscimento delle “energie sociali” presenti nelle città e supporto alla loro emersione e consolidamento. Le pratiche sono, secondo questo orientamento, “progetti impliciti” da abilitare. Esse infatti, dentro campi di azione difficili come le periferie, sono fragili e hanno bisogno di trovare sostegno da parte delle politiche pubbliche.

    Tale orientamento mi sembra emergente. Ha radici nel paradigma dello sviluppo locale: messo alla prova nell’iniziativa dei Bollenti Spiriti in Puglia, se ne trovano tracce, ad esempio, nelle Case di Quartiere di Torino e nella Strategia nazionale aree interne. Può contare oggi su programmi dedicati, misure di accompagnamento, schemi finanziari, sia dal lato pubblico (asse inclusione sociale del PON Metro e misure analoghe in qualche progetto del cosiddetto “bando periferie”), sia del no profit (programmi di fondazioni bancarie e di impresa). Alimentato da spirito pioneristico e tensione generativa, conosce numerose sperimentazioni da parte della ormai folta schiera dei city maker.

    Nella promozione dell’intelligenza sociale, incrocia alcune cruciali sfide di policy. Ne richiamo tre: la riattivazione degli asset, il cui valore – come ha sostenuto di recente Mario Calderini – è dato dalla densità di progettualità̀ e di imprenditorialità̀ sociale incorporata; le nuove forme di territorializzazione del lavoro, dell’abitare e dei servizi (i “new urban body” ibridi), del fare impresa (imprese e cooperative di comunità) e della produrre (il neomanifatturiero e l’agricoltura urbana); la finanza di impatto e gli strumenti di investimento per le imprese sociali.

    Pur in presenza di regolazioni obsolete, culture tecniche che faticano a confrontarsi con l’innovazione o le resistono apertamente, inabilità diffuse, politica debole, un percorso è stato intrapreso. Vi sono tuttavia, a mio avviso, diversi nodi da affrontare. In particolare: l’impianto teorico che sostiene questo orientamento è ancora debole (molti sono gli spunti promettenti ancora privi di sistematicità); l’incrocio con i soggetti di riferimento, sia gli innovatori (che chiedono riconoscimento, capacitazione e reti), sia quelli più tradizionali (a cominciare dalle organizzazioni del privato sociale, che sollecitano un processo di riqualificazione) rimane problematico; il paesaggio al mainstream nelle politiche urbane va collocato nel quadro di una agenda urbana nazionale interamente da scrivere.


    1 Esemplare è l’epifania di Renzo Piano nel quartiere di Ponte Lambro a Milano raccontata dal Corriere. Segnalo due riferimenti: “Renzo Piano e la periferia a metà” e “Milano, Piano e la rinascita del quartiere-ghetto”.

    Immagine: ph. di Stephen Crowley da Unsplash

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