Le piattaforme di abilitazione

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    Uno sportello/punto di accesso che accoglie le famiglie di un territorio che si confrontano con la non autosufficienza, costruisce con esse conoscenza condivisa su bisogni, possibili risposte, risorse territoriali attivabili (pubbliche e private, servizi e moneta, lavoro professionale e apporto volontario, etc.), supporta le famiglie nella composizione delle risorse, le accompagna e sostiene nella ricerca di nuove soluzioni all’emergere di nuovi bisogni. Un punto quindi, che è parte di una linea (la filiera dei servizi), di più linee (la rete territoriale). Lo si è chiamato Agenzia di cura pensando, inizialmente, che il termine decisivo fosse il secondo (cura come superamento della pura prestazione, la considerazione dell’insieme dei bisogni della persona non autosufficiente e dei suoi familiari, l’accompagnamento di lungo periodo), ma, col passare del tempo, agenzia è il termine che si sta rivelando il decisivo, nel senso di un complesso di azioni che rende capaci di nuove (e in parte non prefigurate) azioni.

    E ancora: un hub/makerslab nato da un mix tra pubblica amministrazione, terzo settore e giovani maker. Uno spazio nato e pensato per i giovani, ma capace di accogliere costruire relazione e senso con le generazioni più anziane. Uno spazio che nel tempo ibrida linguaggi e strumenti per sperimentare attività di innovazione sociale, spazi pubblici, occasioni di co-produzione, esperienze di partecipazione, connessioni tra il sistema delle opportunità e le persone appartenenti a comunità diverse. Uno spazio generativo e aggregatore dove promuovere cittadinanza e costruire reti sociali fatte di competenza e conoscenza (percorsi formativi sul making a favore dei bambini, scambio di competenze tra generazioni, esperienze di mobilità europea, etc.).

    E ancora: un incubatore/dispositivo territoriale volto ad accompagnare alla generazione di idee imprenditoriali, ma non sia a questo limitato, si ponga invece come sistema di produzione di capitale sociale in grado di innovare la comunità e a dare un senso nuovo alla partecipazione. Un dispositivo che permette ai giovani di esprimere le proprie competenze, di manifestare la propria creatività diventando così soggetti attivi all’interno delle proprie comunità di appartenenza.

    Sono questi tre interventi che nascono dal confronto con l’attuale incapacità dei sistemi di welfare nel rispondere a bisogni che, è cosa nota, sono sempre più individuali, segmentati, complessi e, quindi, non riscontrabili da risposte stock, seriali, automaticamente riproducibili, massive. E, d’altra parte, se un’offerta rigida, ripetitiva, troppo standardizzata risulta oggi inadeguata rispetto ai problemi (finisce con l’essere sempre fuori misura), si è però consapevoli che non ci sono le risorse, né oggi né in futuro, per la sostenibilità di apparati eccessivamente articolati e sofisticati. Si rende necessario allargare il perimetro delle risorse e questo allargamento è reso possibile (anche) da un cambio di approccio: da utente passivo a co-protagonista attivo, da portatore di bisogni a generatore di soluzioni. Questa, lo sappiamo, è la scommessa del welfare generativo.

    E dunque: come innescare queste trasformazioni, come facilitare questi nuovi posizionamenti? La risposta che ci siamo dati, l’ipotesi di intervento che è alla base delle esperienze sopra descritte, è che il cambiamento è possibile, prima di tutto, se le risorse/soggetti sono visti e accolti, se sono conosciuti e ri-conosciuti, se sono messi in condizione di. I tre interventi di cui sopra sono stati dunque pensati e progettati come piattaforme capaci di farsi vedere e di vedere a loro volta, di accogliere, di conoscere e ri-conoscere, di mettere in grado, capacitare, in estrema sintesi quelle precedentemente descritte vanno intese come delle piattaforme di abilitazione.

    Dare parola e supporto alle famiglie con anziani non auto-sufficienti creando le condizione per relazioni simmetriche; offrire ai cittadini di un territorio la possibilità di sperimentare la propria creatività e partecipazione attraverso le tecnologie; costruire con i giovani dei setting condivisi in cui si lavori a un livello individuale (competenze) e sociale (generazione di idee e proposte per la comunità). Nella diversità di bisogni, soggetti, attività, quali sono i tratti comuni delle piattaforme precedentemente descritte?

    Per prima cosa stiamo parlando di luoghi in cui la componente fisico-strutturale-logistica non è affatto secondaria, così come non lo è la dimensione esperienziale, per non dire estetica: sono luoghi ben visibili, luoghi che attraggono, in cui ci si trova bene. La componente di ben-essere è decisiva.

    Sono poi dei luoghi ibridi (Cfr. testi e lavori di Paolo Venturi e Flavio Zandonai sulle imprese ibride), sono sempre qualcosa e qualcosa d’altro, qualcosa di più, di diverso. Luoghi, strumenti, sistemi a nostra disposizione, quelli che abbiamo ereditato, che sono stati normati e codificati, questi luoghi e strumenti non sono più sufficienti, non bastano. Luoghi e dispositivi che abbiamo in mente si estendono e si allargano, invece, oltre la loro funzione originaria (sportello, makerslab, incubatore), che resta presente, ma non ne esaurisce significato e potenzialità.

    Sono flessibili, si adattano, non restano ingabbiati nelle etichette, non temono interpretazioni e utilizzi diversi da quelli inizialmente prefigurati. Sono sì sufficientemente strutturati da risultare, come detto, identificabili e accoglienti, ma non respingono in virtù della loro predeterminatezza. Soprattutto offrono ampi spazi di creatività, sperimentazione, co-elaborazione della piattaforma stessa e dei suoi servizi e funzioni.

    Possono essere l’esito di progettazioni ex novo oppure di aperture/trasformazioni di un qualcosa di preesistente, ma in entrambi i casi chi compie questo intervento, pur non rinunciando alla responsabilità, non si illude rispetto alla possibilità di governare completamente processi ed esiti. È proprio in quegli spazi che vengono lasciati aperti, indeterminati, da coprogettare che queste piattaforme rilevano la propria (continuamente rinnovabile) capacità di abilitazione e innovazione.

    Costituiscono/contengono uno o più touchpoint (fisici o digitali) che sono le porte di ingresso, permettono al cittadino di entrare in relazione, essere partecipe di soluzioni sociali, sviluppare abilità e competenze sulla base di problemi e passioni, promuovere attività innovative e aperte alle esigenze del momento. Favoriscono la nascita di reti di peer che interagiscono tra loro, creano e scambiano valore. In questi luoghi si costruiscono relazioni, si collabora, si co-genera.

    Nella rete fra pari non c’è indistinzione e indifferenza di ruoli, compiti, responsabilità, ma è piuttosto il potere ciò che viene effettivamente messo in gioco. Questi sono anche gli elementi che permettono, da un lato, la costruzione di nuovi mercati, dall’altro, invece, la crescita di relazione e di fiducia tra le persone e all’interno delle comunità di riferimento. In questo senso possiamo evidenziare un effetto secondario di queste esperienze ovvero la crescita di fiducia e di resilienza all’interno della comunità.

    Il modello di funzionamento è basato su dispositivi che hanno come elemento centrale quello di liberare, ibridare e potenziare le conoscenze, le competenze e le capacità di azione delle persone. Sono dispositivi che promuovono processi divergenti in grado di produrre nuove opportunità e nuove occasioni a partire dalle azioni realizzate. In questa direzione gli elementi che crediamo possono contribuire a definire i dispositivi delel piattaforme di abilitazione sono:

    I bisogni individuali vengono raccolti e connessi all’interno di una piattaforma digitale e/o sociale che permetta di identificare/costruire nuove soluzioni socialmente sostenibili;

    Queste soluzioni pretendono sempre attività di carattere abilitante in modo da sviluppare dei processi di empowerment in prima battuta individuale e successivamente di gruppo e/o comunitario;

    Si sviluppano strategie e percorsi di risposta e/di fronteggiamento delle problematiche che attivano elementi di co-produzione sociale da parte delle micro-comunità.
    Preme sottolineare che quelli qui descritti non sono sistemi primariamente e principalmente intesi alla disintermediazione, altro ricorrente leitmotiv di questi anni in tema di servizi. Con questo non si intendono certo negare le potenzialità dei processi di disintermediazione, anche nei servizi di welfare, di elementi quali:

    Semplicità dell’accesso

    Le persone riescono, attraverso dispositivi e applicazioni, ad accedere facilmente a informazioni, conoscenze, esperienze, occasioni, opportunità. Si tratta di un accesso individuale e individualizzato, governabile in una quasi totale autonomia, dove sembrano non esistere i gradi di separazione;

    Sostenibilità e scalabilità

    Si riducono i costi strutturali e i costi non aumentano in maniera proporzionale ai volumi di funzionamento. Non esistono, letteralmente, confini alle possibilità di espansione e penetrazione dei mercati.

    E tuttavia la disintermediazione, nel momento in cui viene applicata a processi sociali e di produzione di comunità, non è esente da rischi e criticità:

    Selezione più o meno involontaria del target

    Nessuno strumento è neutro, anche la app più semplice e accessibile di fatto seleziona i propri utilizzi e i propri utilizzatori (si pensi alle differenze di età, cultura, scolarizzazione, etc.). È illusorio pensare a piattaforme neutre rispetto al target. Si rendono necessari fattori di riduzione/bilanciamento delle assimetrie.

    Nascita di oligopoli/impoverimento dell’offerta nel lungo periodo

    I sistemi di disintermediazione digeriscono male la compresenza di diversi attori nel medesimo ambito e segmento di mercato. Lo si vede nel mondo delle comunicazioni, in quello dei servizi profit, non ci sono elementi per pensare che nei servizi sociali il comportamento sia differente. Nei servizi sociali, sociosanitari, educativi, riteniamo invece che la diversità dell’offerta rappresenti una ricchezza da conservare e promuovere.

    Opportunità che creano disuguaglianza

    In una società come quella italiana in cui i livelli di disuguaglianza sono tra i più elevati in Europa (e in ulteriore crescita) il rischio che l’offerta di opportunità diventi occasione di ulteriore disparità è concreto, soprattutto nel momento in cui le opportunità siano proposte in assenza dei fattori di “traduzione”, accompagnamento, riduzione delle asimmetrie, a cui prima facevamo riferimento.

    La scommessa delle piattaforme abilitanti è dunque quella di mantenere gli elementi di accessibilità, sostenibilità, innovazione contenendo però i rischi di selezione, oligopolio, disuguaglianza. Per ridurre questi rischi si ritiene che, anche nell’epoca della disintermediazione, resti centrale il ruolo e decisivo l’apporto degli operatori e, in generale, delle risorse umane coinvolte. Pensiamo, ad esempio, sia decisivo il ruolo del manager di rete come colui che ha la responsabilità di facilitare l’evoluzione dei processi, lo sviluppo di nuove opportunità, l’accesso di nuovi soggetti, la nascita di processi divergenti, ma evitando la frammentazione dell’esperienze.

    Questo elemento appare centrale per permettere la nascita di esperienze collettive all’interno delle quali le persone possono essere abilitate e partecipare a processi di empowerment individuali e comunitari. E pazienza se questo significa vedere ridotto il perimetro e le possibilità di scalabilità perché non si sfruttano nel loro estremo potenziale le risorse tecnologiche a disposizione: queste piattaforme, quali dispositivi capaci di identificazione di nuovi bisogni, modalità di risposta, processi organizzativi e di comunità, risultano comunque socialmente innovative.

    Esistono altri ambiti in cui le piattaforme di abilitazione possono trovare applicazione?

    Due ci sembrano particolarmente interessanti:

    Le comunità che non scegliamo ovvero i luoghi di abitazione e lavoro (condomini, imprese, coworking, etc.). L’elemento di opportunità è rappresentato dal fatto di essere luoghi in cui trascorriamo comunque gran parte della nostra vita, senza che vi sia bisogno di una scelta volontaria quotidiana, dall’altra parte questo sembrerebbe rappresentare un loro limite (soprattutto in termini relazionali, si pensi ai conflitti condominiali e organizzativi), insieme alla difficoltà nell’attribuire alla “casa” e all’”ufficio” potenzialità diverse da quelle tradizionali.

    La sfida a questo proposito è, quindi, non soltanto e non principalmente quella di sfruttare questi luoghi per veicolare un’offerta di servizi (a questo, a volte, sembrano ridursi alcune operazioni di welfare aziendale), quanto piuttosto quello di proporre e liberare nuove interpretazioni di questi luoghi e di coloro con cui “ci è capitato” di condividerli al fine di acquisire consapevolezza sulle potenzialità che questi spazi e queste persone possono assumere. In altre parole: proprio perché riconosco al mio condominio e ai miei vicini di casa la possibilità di essere altro, allora ci metteremo in gioco, ci impegneremo insieme nella coprogettazione e ridefinizione di questo luogo e delle attività e dei servizi che vi potranno trovare spazio;

    I Centri di Formazione Professionale, settore che fatica oggi nella lettura delle trasformazioni apportate dalla crisi economica e dalle innovazioni tecnologiche e dai cambiamenti culturali ad esse legati: scomparsa o forte riduzione dei confini tra vita privata e vita lavorativa, tra gioco e professione, tra momenti/luoghi di socialità e momenti/luoghi di collaborazione (co-working), tra fare e imparare (fab lab, maker space), tra intraprendere e imprendere (start up).

    Questi cambiamenti – che stanno modificando il modo stesso di intendere l’intreccio tra formazione e lavoro (non solo non più un “prima” e un “dopo”, ma neanche più una chiara e netta distinzione di ciò che è formazione e ciò che è lavoro) non hanno di fatto (ancora) toccato e modificato la struttura e l’organizzazione del Centro di Formazione Professionale che ricalca ancora un modello fortemente scolastico (orari per materie, attività solo o prevalentemente mattutina, divisioni dei gruppi per età/classi, spazi rigidi e monofunzionali: aule, laboratori).

    Ci sono però segnali, anche se ancora deboli, di cambiamento che si possono cogliere in alcune esperienze di apertura dei CFP alla collaborazione con soggetti non consueti (non solo aziende e amministrazioni, ma imprese sociali, associazionismo) con i quali si costruiscono e si realizzano azioni e progetti (fablab per le scuole primarie, laboratori pomeridiani a utilizzo plurimo, etc.) diretti a popolazioni più ampie e nuove rispetto a quelle storicamente coinvolte (giovani, lavoratori e disoccupati).

    Queste esperienze non solo arricchiscono l’offerta formativa del CFP, ma ne ridefiniscono la mission stessa nella direzione di renderlo sempre più una risorsa a disposizione del territorio per usi e fruizioni non del tutto preventivamente determinabili intorno ai temi del lavoro, della produzione, della formazione, della creatività, dell’imprenditorialità, un Centro di Formazione Professionale ibrido, dunque, che richiede un ripensamento delle proprie forme organizzative, che richiama l’apporto di nuove professionalità educative e professionali, che attrae fasce diverse di popolazione, che – infine – conferisce e produce nuovi significati in un costante dialogo con comunità e territori di appartenenza.

    Sono questi solo due esempi dei molti ambiti che possiamo oggi esplorare, nei quali sperimentare nuove interpretazioni, significati, potenzialità, se sapremo essere, in un certo senso, narratori di luoghi che (ancora) non esistono.


    Contributors: Vittorio Artoni, Giuseppe Imbrogno (ACLI Lombardia); Stefano Mariotti (Fondazione ENAIP Lombardia); Nicola Basile, Pierpaolo Forello (Il Torpedone cooperativa sociale)

    Note