Free party, nomadismo e Unione Europea

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    Per quanto uno dei motti della cultura rave sia diventato, negli anni, ‘support your local soundsystem,’ essa nasce nomade e si diffonde con la forza che l’ha caratterizzata proprio a causa di tale elemento, capace negli anni di ribaltare il tavolo da gioco e trasformare gli attacchi in spinte proiettive, come in una mossa di judo.

    Quando nel Regno Unito, in seguito a furiose campagne stampa alimentate dalle lobby dei locali notturni e degli alcolici, che si vedevano sull’orlo dell’apocalisse in un momento in cui i giovani migravano in campi e capannoni smessi arrivando addirittura a bere acqua – giacché l’alcol, si sa, non lega con l’MDMA e gli psichedelici –, vennero processati gli Spiral Tribe, rei, assieme ad altri soundsystem quali Bedlam, DiY, Circus Normal, Adrenaline e Circus Warp, di aver invaso il festival freak di Castlemorton armati di muri di casse e musica techno, trasformandolo in un baccanale che non voleva più finire, e poi, dopo uno dei processi più costosi della storia giudiziaria britannica (che vide la tribù della spirale comunque assolta) si arrivò a legiferare nel tentativo di arginare la voglia di ballare della gente, arrivando a quel famigerato Public Order and Justice Act del ’94 che vietando “eventi dove la musica include suoni pienamente o predominantemente caratterizzati dall’emissione di una successione di battiti ripetitivi” di fatto metteva fuori legge la cultura rave (un caso quasi unico di razzismo musicale elevato a legge, il cui unico precedente nella storia umana era il Regolamento per le orchestre del Reichsministerium für Wissenschaft, Erziehung und Volksbildung, il ministero della cultura nazista, che metteva rigidi limiti alla quantità di foxtrot suonabile in una serata), quello che accadde non fu un soffocamento, ma un fertilissimo spostamento.

    Le tribe, consapevoli di ritrovarsi per le mani qualcosa di grosso, certe per pura evidenza che quel sincretismo di reggae (il soundsystem come strumento di rivendicazione dello spazio pubblico), hippie (la psichedelia e l’idea di una comunità utopica di pari), punk (il ‘do it yourself’ e quella nota di nichilismo), disco (la musica elettronica e il ballo), e pura contemporaneità (l’appropriazione degli strumenti di produzione digitale) era qualcosa di potentissimo, emigrarono. Alle leggi repressive della nazione britannica faceva da contraltare un’Europa del tutto ignara di quanto stava arrivando, fresca di abolizione delle frontiere e immersa in una febbricola paneuropeista ancora poco messa in discussione e anzi alimentata dal progressivo calo dei costi di viaggio e dal’affermazione di Erasmus e esperienze di lavoro all’estero come elemento base della formazione dei giovani.

    Così le tribe scavalcarono la Manica e approdarono in Francia. Sebbene già orientate e determinate a diffondere le spore in tutto il continente – le prime feste free tekno in Germania e in Italia si registrano nel ’93, andando a sovrapporsi a una club culture (e conseguente afterhour culture) in entrambi i casi ben sviluppata e a legarsi per affinità naturale a parte del movimento delle occupazioni – fu la vicina Francia il primo luogo in cui la free tekno esplose, fondendosi lì a una forte scena hardcore, e si internazionalizzò: il primo teknival – termine che definisce un free party con più soundsystem – si svolse nel ’93 a Beauvais, e se la scelta di questo luogo è stata a suo tempo casuale, si tratta di uno di quei casi che, guardati a posteriori, assumono un nerbo simbolico tale da far pensare alla sincronicità jungiana. Beauvais è infatti il non-luogo europeo contemporaneo per eccellenza: tutti siamo stati a Beauvais, ma nessuno è stato a Beauvais, perché Beauvais è la sede dello hub aeroportuale Ryanair per Parigi. Quando si vuole raggiungere quella che è la prima destinazione turistica del continente con un volo low cost – voli che di lì a quattro anni sarebbero esplosi in seguito alla deregulation – si va a Beauvais, ma da tale luogo si viene immediatamente caricati su un Terravision o bus analogo e trasferiti a Parigi senza mettere piede nella cittadina. Migliaia di teknusi, invece, quella notte del 23 luglio 1993 si diressero senza incertezze proprio verso Beauvais, e per stare lì una settimana e più a ballare.

    La Francia ci mise qualche anno a reagire: la legge Mariani, analoga del Public Order and Justice Act inglese nel suo vietare ‘‘eventi con musica ‘amplificata’ da più di 500 persone’’ è del 2001, e arriva quando ormai la cultura dei free party è radicatissima nel paese – a dispetto della legge i teknival si susseguiranno, e quello del 2003, a Larzac, deliberatamente ‘illegal’, registrerà 40’000 presenze – ma anche in tutta Europa; tuttavia, la nuova legge costituirà motivo in più anche per le tribe francesi per emigrare o almeno intensificare le puntate all’estero. Se già molte di esse avevano fatto più che semplici passaggi da noi – Metek a Bologna, OQP alla Fintech di Roma, Tomahawk a Firenze… – è dal teknival sul Colle della Maddalena nel 2002, il primo post-legge Mariani, non per caso messo su al confine Francia-Italia, che iniziano a diventare presenze fisse, mentre ormai l’intera Europa è contagiata, anche in virtù di un’azione reiterata e costante, ai limiti del fervore sacro, tanto dei pionieri Spiral Tribe, che continuano imperterriti a organizzare feste, quanto di tutti coloro che decidono di raccoglierne il messaggio e la missione.

    In quegli anni, in ogni paese europeo, tribe e soundsystem si moltiplicano, ogni settimana le feste sono centinaia. Per capire un simile processo – o, facendo un passo indietro, questa indole nomade della free tekno – è necessario tornare a Castlemorton. Si è visto spesso, negli anni e nei lustri successivi, questo o quel festival freak trasformarsi in rave con l’arrivo di uno o più soundsystem: anche nella provincia toscana il non troppo noto ‘On the road festival’ della cittadina montana di Pelago si trasformava in un esaltante piccolo teknival, e lo stesso poteva capitare ai campeggi dei festival rock meno controllati dalle multinazionali – del resto la forza della free tekno stava proprio nel fatto che bastavano un pugno di casse, un generatore e un mixer per provare, almeno, a farla. Ma quello che era avvenuto in Inghilterra nel ’92 era di natura completamente diversa, a causa della natura non stanziale proprio di detti festival. L’azione dei primi soundsystem tekno, fattisi poi tribe, andava infatti a colpire una scena che in quel momento era dominata e animata dai cosiddetti ‘new age traveller’.

    Tale movimento post-hippie e nomade, cominciato come effettivo cascame degli anni ’70, aveva assunto una forza inaspettata negli anni ’80, quando il nomadismo, a fronte di una vasta rete di festival, fiere, comunità autogestite, villaggi disposti a ospitare, risultava per molti un’alternativa più che valida alla disoccupazione urbana e alla cappa repressiva dell’era Thatcher.

    Meggie Thatcher che però non mancò di tentare di stroncare il movimento, ordinando attacchi brutali – il più famigerato, detto ‘Battle of the Beanfield,’ benché non ci fosse stata alcuna battaglia, ma solo un feroce pestaggio di traveller, incluse donne incinte e bambini, da parte della polizia inglese, è dell’85 e si concluse con dozzine di feriti e 537 fermati (il più grande arresto di massa di civili della storia del Regno Unito), a partire da capi d’imputazione risultati poi falsi. I new age travellers si spostavano lungo tutta l’isola britannica e a volte anche nel continente in occasioni di fiere e festival, e i neonati tekno travellers, ibridandosi con tale cultura, trovarono naturale reagire agli attacchi con lo spostamento.

    Di più: ne crearono una versione rinforzata, dato che l’offerta (di intrattenimento, incontro, cultura) dei new age travellers poteva condensarsi solo all’interno di una rete preesistente di festival freak, mentre quella dei tekno travellers entrava a gamba tesa nell’industria del divertimento, offrendo con la sua musica un’alternativa infinitamente più divertente, liberatoria e carica di senso al popolare universo dei locali notturni e delle balere.

    Analogamente ai circhi di un tempo – ne è più o meno volontaria ma effettiva testimonianza la presenza del lemma ‘circus’ nei nomi di molte tribe di prima e seconda generazione, dalle inglesi Circus Normal e Circus Warp alla ceka Cirkus Alien – l’economia nomade delle feste può funzionare perché di feste c’è una vastissima, inesauribile domanda in tutta Europa. Un’Europa i cui giovani, che cominciavano a vedersi dire che, no, non avrebbero più potuto definire la propria identità in base al lavoro, destinato a precarizzarsi e parcellizzarsi, ma che dovevano trovarla nel loisir, ovvero in ciò che facevano ed erano (o stabilivano di essere) nel tempo libero – mentre, beninteso, tale tempo libero veniva immediatamente mercificato, svilito, chiuso entro regole di ‘decoro’ volte a far sì che l’incontro fosse sempre e solo consumo e mai politica – era pronta all’esperienza liberatoria dei free party: pronta a ricevere le tribe in viaggio, e pronta a viaggiare per raggiungere i luoghi delle feste.

    È intorno a un viaggio che si coagula una delle più grandi azioni del movimento, quella spedizione della tribe inglese Desert Storm proprio nel cuore nero dell’Europa, a Tuzla e Sarajevo durante la guerra, nel ’94, a portare un po’ di speranza e umanità in forma di battiti tekno a chi viveva da mesi e mesi sotto assedio (e proprio dall’aver ottenuto questa storia finalmente di prima mano, dopo averla sentita mille volte in forma di leggenda in giro per feste, nasce il desiderio di scrivere Muro di casse).

    Del resto il viaggio, il trovare la festa, la festa come riconfigurazione del concetto di meta del viaggio, è un fulcro centrale della cultura rave anche per i semplici partecipanti: improvvisamente ci sono nuovi motivi per attraversare i confini, per girare l’Europa, per trovare e mappare (una grande tribe francese ha il nome significativo di Trackerz) una nuova e diversa Europa, antecedente nei collegamenti – le vecchie statali – ma posteriore nei luoghi, che erano e sono i gusci lasciati vuoti dall’industria del Novecento, le vecchie fabbriche, le cave abbandonate, finanche gli spazi dell’industria e della cultura bellica.

    Significativamente, dopo il teknival di Pinerolo del 2007, svoltosi nell’ex ballatoio militare di Baudenasca, un anziano editorialista di giornale locale scriveva ‘ma quello non era il luogo dove i nostri ragazzi si addestravano a uccidere quelli degli altri paesi? E ora vengono qui a ballare tutti insieme? Qual è, ditemi, il problema?’

    In un passaggio di Muro di casse, la protagonista Viridiana, persasi cercando la location di una festa in Bielorussia (Europa o non Europa? Anche la costante tensione verso est del movimento free tekno, dopo la facile colonizzazione di Spagna e Portogallo, pone questioni di rilievo circa i confini effettivi del continente cui apparteniamo), si trova per caso a Maly Trotsenes, misconosciuto campo di sterminio nazista: lì, di fronte al piccolo mausoleo, ripensa a quella selva di puntini sulla mappa europea che erano i lager, vista un giorno su un libro di scuola. Il parallelo con la cartina d’Europa – con segnati i punti delle feste narrate – che apre il romanzo è voluto, e se il paragone può sembrare fuori luogo per la differentissima portata del fatto-olocausto rispetto al fatto-free party (ma d’altronde c’è anche chi, leggendo Muro di casse, ha voluto vedere nell’inizio della cultura rave un passaggio dal crollo di un muro – quello di Berlino – nato per dividere, al sorgere di un altro muro, quello di casse, nato per unire), è incontestabile che il movimento popolare e grass-root dei free party ha disegnato in Europa una punteggiatura di pace e incontro ben più reale ed entusiastica di qualunque monumento o iniziativa costruito dall’estabilishment europeista – e sempre parlando del secolo da poco trascorso, un’altra location chiave del romanzo è Roubaix, non solo perché, come mille altri posti in Europa, è stata teatro di grandi free party, ma perché è un luogo in cui le feste incrociavano in purezza il Secolo: lì sono stato una volta a una festa in un bunker della linea Maginot, tra i terril abbandonati di quella che fu l’industria del carbone, mentre alla distanza si scorgevano i cantieri della TAV in costruzione. Difficile immaginare più Novecento – e più Europa – in una botta sola. Retrospettivamente, si può dire che il movimento free tekno sia stato, oltre che la più rilevante controcultura giovanile degli anni novanta e zero, anche la prima ad essere sinceramente e intrinsecamente transnazionale e paneuropea, e la repressione che lo ha sempre accompagnato, significativamente supportata da media schierati nella più ottusa ‘testa bassa’, dovrebbe far riflettere, e molto, chiunque si senta e si pensi, oggi, europeo.


    Il pezzo di Vanni Santoni è uscito precedentemente su Eutopia il 23 ottobre 2015

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