Roma, la capitale vuota

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    Anche chi non esce di casa e resta chiuso nella sua stanza, non si affaccia alla finestra, non legge il giornale, non parla con il portinaio o con la donna, anche il recluso, il carcerato o il monaco o il malato, anche il cieco, a Roma, non può non accorgersi dei giorni di festa. Poiché le feste, le grandi feste, a Roma sono, si può dire, sonore e atmosferiche, e si celebrano nel rumore e nell’aria. Sono, in fondo, feste campestri, per le quali, di colpo e all’improvviso, la città diventa quella che era prima della storia: campagna e foresta. […] Uniti come un enorme sciame sotto questa cupola di suoni, e separati l’un dall’altro dal proprio sonoro diaframma, come dalla cera delle celle di un alveare, la folla passa tra le baracche dei giocattoli, degli zuccheri filati, e dei meravigliosi tiri a segno, e si contempla rispecchiata negli altri, felice di vivere oggi, in questa serena notte d’inverno, di vivere insieme, per l’artificio di un suono innumerevole, in una eterna, immobile notte d’estate, prima della città e delle vicende, in una arcaica immutabile campagna notturna, nella oscura immobile primitiva solitudine dell’anima.

    Carlo Levi, La solitudine di Roma

    Giovanna Silva, Roma. Never Walk on Crowded Streets

     

    A ridosso delle elezioni comunali del 9 novembre 1946, si svolse a Roma una conferenza organizzativa della federazione romana del Partito comunista italiano. Il clima politico in città era da tempo infuocato, in sintonia con il resto del paese.

    Erano passati poco più di tre anni dall’ignominiosa fuga della famiglia reale, la notte dell’8 settembre 1943, mentre la mancata difesa militare della capitale aveva lasciato tramortiti i suoi cittadini. I tedeschi occuparono in poco tempo la città: una reazione fu comunque tentata dai granatieri, dai soldati, dai carabinieri e dai civili (tanti gli operai e i proletari) che alla Magliana, alla Montagnola, sulla via Laurentina, all’Ostiense, a Porta S. Paolo, su viale Aventino, combatterono disperatamente una battaglia persa in partenza. Ne ha lasciato un ricordo vivido Claudio Pavone nelle memorie sulla sua scelta resistenziale. Giungendo dal Colosseo e da via San Gregorio (un tempo via dei Trionfi), con alle spalle l’arco di Costantino, oggi tra i siti archeologici più visitati al mondo, Pavone si diresse verso il Circo Massimo: lì si trovò di fronte «due paracadutisti tedeschi e accanto a loro un cannoncino anticarro colpito da un proiettile italiano», poco più in là la vista di «un altro paracadutista» che «era andato a morire con le spalle appoggiate al muretto del Circo Massimo». Il racconto dello storico si conclude con la desolante descrizione della divisione Piave, in attesa di ordini mai giunti, «schierata in perfetto ordine a Villa Borghese». Di lì a breve la divisione sarebbe stata circondata e disarmata dai reparti tedeschi.

    L’occupazione nazista durò poco meno di 9 mesi: tanto bastò per infliggere alla popolazione civile terrore, guerra interna, deportazioni, bombardamenti, rastrellamenti, rappresaglie, delazioni, paura e fame. Il 4 giugno 1944 gli anglo-americani entrarono, finalmente, a Roma, divenuta la “prima capitale dell’Asse” ad essere liberata. Segnata dalle distruzioni e dalla miseria dilagante, la città, a capo di una nazione ancora occupata da eserciti stranieri contrapposti e lacerata dalla guerra civile, divenne il palcoscenico della ricostruzione democratica. Sotto il controllo delle forze alleate di occupazione, infatti, si assistette ad una vivacissima ripresa delle attività politiche. Il 9 giugno si costituì la Confederazione generale italiana del lavoro, grazie all’accordo delle diverse componenti sindacali (comunista, cattolica e socialista). Pochi mesi più tardi, il 29 agosto, vennero fondate le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), il 31 ottobre, invece, nacque la Confederazione nazionale dei coltivatori diretti.

    Per quasi tutto il 1945, con la guerra ancora in corso, le principali forze politiche del paese tennero i loro congressi a Napoli o nel Meridione liberato, ma già in agosto il Pci organizzò a Roma la sua prima conferenza economica, mentre di lì a poco, il 29 dicembre, sempre nella capitale, si sarebbero svolti i lavori del suo V congresso.

    Il 1946 vide susseguirsi innumerevoli iniziative democratiche, impossibili da sintetizzare in questa sede, senza contare le tante e decisive scadenze elettorali: tra il 10 marzo e il 7 aprile si svolse una prima tornata di elezioni amministrative, il 2 giugno fu la volta del referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente, tra il 9 e il 10 novembre, come abbiamo visto, si concluse il secondo turno delle amministrative. A Roma il confronto tra monarchia e repubblica vide una piccola ma significativa maggioranza di consensi nei confronti della monarchia, in particolar modo nei quartieri borghesi, mentre in quelli popolari dei quadranti sud-orientali prevalse la scelta repubblicana. Nelle elezioni per l’Assemblea costituente, invece, la Democrazia cristiana divenne il partito più votato in città. Pochi mesi dopo, tuttavia, nelle elezioni comunali del 10 novembre, il primo partito fu il Fronte dell’Uomo Qualunque con il 20,7% dei voti.

    Il movimento era stato fondato dal commediografo Guglielmo Giannini nel dicembre 1944, ritenuto, da prospettive storiografiche diverse, l’antesignano dell’odierno populismo. L’improvvisa radicalizzazione a destra della capitale ricevette un ulteriore incentivo dalla fondazione, il 26 dicembre 1946, del Movimento sociale italiano. Questa spinta, tuttavia, fu controbilanciata da un altrettanto poderosa virata a sinistra dell’elettorato romano: il Blocco del popolo, infatti, l’alleanza tra socialisti e comunisti, ottenne il 36,9% dei suffragi, una percentuale mai più raggiunta fino al 1976, quando una coalizione di sinistra portò a sindaco lo storico dell’arte Carlo Giulio Argan.

    In questo mutevole contesto, aggravato da una situazione sociale esplosiva, dalla disoccupazione, dalla miseria e dalla diffusione della piccola criminalità, si stava svolgendo, all’interno della Federazione romana del Pci, un acceso confronto, iniziato fin dagli ultimi mesi del 1945, sulla natura e sugli indirizzi che il partito doveva assumere a Roma. Il Pci s’era insediato in quasi tutti i quartieri della capitale, ma con un’irradiazione prevalente in quelli popolari e proletari: la Resistenza armata era stata sospinta verso le periferie, dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, perpetrato, il 24 marzo 1944, dai nazisti come rappresaglia per un attentato compiuto in via Rasella, nel centro storico della città, da una cellula dei Gruppi d’azione patriottica (Gap), l’organizzazione clandestina organizzata dai comunisti per la guerriglia urbana.

    Giovanna Silva, Roma. Never Walk on Crowded Streets

     

    Le discussioni interne ai comunisti romani coprivano i temi più disparati: come recuperare al partito, ad esempio, le forze che si erano collocate alla sua sinistra durante l’occupazione e che avevano fornito un contributo decisivo alla lotta contro i nazi-fascisti.

    Si trattava di un passo importante perché ciò significava assorbire tradizioni antiche che si richiamavano alle culture anarchiche, repubblicane e radicali, in un contesto sociale, tra l’altro, privo di un’imponente classe operaia, come nei grandi centri industriali del nord.  Era divenuta urgente, perciò, la necessità di intercettare i ceti medi che a Roma costituivano l’ossatura sociale della città: una caratteristica che dal punto di vista comunista costituiva un’anomalia, rendendo la capitale un enigma e al contempo un vero e proprio laboratorio politico.

    Scorrendo i testi di questi dibattiti – da lungo tempo consultabili presso l’archivio della Fondazione Gramsci di Roma – colpisce l’attenzione rivolta alle periferie come luogo privilegiato d’intervento: non solo per quanto riguarda le misure possibili per contrastare la miseria e la disoccupazione, ma anche per individuare gli strumenti idonei a stimolare la partecipazione attiva della cittadinanza alla democrazia, nelle aree urbane e nei contesti sociali più difficili.

    Consigli di caseggiato, cellule di condominio e di strada, consigli di quartiere, sezioni, scuole itineranti per l’alfabetizzazione e per innalzare il livello culturale della popolazione delle periferie, circoli sportivi, reti associative specificamente rivolte alle donne e ai giovani. Il risultato non si fece attendere. Un rapporto interno inviato dal Quarticciolo alla federazione cittadina preconizzava per il Pci il 60-70% dei suffragi alle elezioni amministrative del 1946, contro le percentuali scarse che erano attese dal partito nei quartieri centrali. Un anonimo funzionario di una sede del centro storico commentò, con ironia tipicamente romana: «in questa sezione, noi comunisti avremo tre voti: il mio, quello del rappresentante di lista e quello del compagno Togliatti che ha votato qui».

    Molto più pregnante il rapporto inviato dalla sezione agraria della Federazione cittadina del Pci, all’epoca investita di un ruolo non secondario per via delle lotte contadine che interessavano direttamente i quartieri periferici della città, rivolti com’erano verso le province limitrofe all’area urbana. Scriveva, infatti, l’estensore della nota:

    l’obiettivo politico fondamentale…è quello di creare tali condizioni di lotta economica e politica nella nostra città e nella nostra provincia per cui quelle masse di cittadini e di lavoratori che oggi sono su posizioni di sfiducia, su posizioni qualunquiste, che sono…sfiduciati della democrazia non si trovino stretti da una situazione economica dalla quale non sanno come uscire, abbiano la sensazione che esiste una forza la quale non è soltanto una forza di protesta e di rivolta come l’U.Q. (l’Uomo Qualunque, NdA) ma una forza costruttiva, una forza attiva…. Il problema che noi ci poniamo è di sottrarre al qualunquismo, all’opera che questo svolge, una parte della sua base elettorale…affinché alle masse di sfiduciati appaia chiaro come la democrazia possa ridare loro la fiducia perduta.

    A rileggere oggi questi dibattiti si prova una vertigine. Tanto più perché i comunisti non erano certo gli unici ad essere presenti all’interno delle grandi e tumultuose periferie romane. I quartieri della capitale, infatti, brulicavano di attori politici e sociali: a partire dai grandi partiti di massa, come la Democrazia cristiana, capillarmente presente, anche nelle roccaforti “rosse”, come il quartiere di Centocelle; per non parlare delle reti associative cattoliche e della stessa chiesa locale. Fino a includere i partiti e i movimenti di estrema destra che a Roma tradizionalmente hanno raccolto un non trascurabile consenso nelle zone popolari.

    L’immagine dei quartieri romani come terra di contesa e come laboratorio di sperimentazione democratica, anche nelle sue formi più conflittuali, si scontra con la vulgata imperante oggi nel discorso pubblico come nella riflessione intellettuale. C’è da chiedersi quanto sia lecito un paragone tra epoche così distanti – il secondo dopoguerra con l’emergenza sanitaria dei nostri giorni – tanto più perché gli ultimi 75 anni hanno visto susseguirsi, in maniera ininterrotta, cambiamenti sociali e trasformazioni urbane di una portata tale che si fa fatica ad associare la città di ieri a quella odierna.

    Eppure per comprendere la Roma di oggi è necessario volgere lo sguardo alla sua storia recente e alla difficile eredità che il XX secolo ha lasciato alla capitale. Il rischio, altrimenti, è quello di appiattirsi su una lettura monocromatica, immutabile e astorica della realtà romana. C’è un abisso tra l’immagine del Colosseo restituitaci dalle memorie di Claudio Pavone, in cui l’eterno splendore di Roma viene forzato dai corpi dei paracadutisti tedeschi nel cono d’ombra del ‘900, e l’atemporale raffigurazione dell’anfiteatro Flavio così ricorrente nelle lettere e nelle arti visive. Dalla terrazza della Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (2013) alla descrizione che ne fa Nicola Lagioia nel recente La Città dei vivi (2020): «Il vecchio anfiteatro comparve all’improvviso in fondo al viale, così pallido e grigio, simile alla luna quando è bassa all’orizzonte e sembra venirti addosso. Il Colosseo nell’aria fredda di marzo, tra le cartacce, i senzatetto, l’acqua putrida nelle fontane. Poco distante, coperto a malapena da una siepe, un signore di mezza età stava pisciando all’aria aperta».

    Giovanna Silva, Roma. Never Walk on Crowded Streets

     

    La letteratura ha rappresentato la spia d’allarme più vistosa di questa tendenza volta a fissare l’immutabilità antropologica della cittadinanza romana: Walter Siti, ad esempio, nel romanzo, Il contagio (2008), ne aveva fornito una rappresentazione emblematica: «Annegate nella promiscuità sociologica e nell’onirismo progettuale, le borgate persistono e rivendicano identità nei tratti di una costante antropologica: l’indifferenza cronica (e ironica) a tutto. I borgatari apprezzano qualunque novità, prosperano dentro l’assenza di disciplina come i topi nel formaggio». Non si discosta da questa lettura, ancora una volta, Nicola Lagioia, quando scrive: «Roma esisteva da 2.700 anni, ne aveva viste di tutti i colori. […] Ogni cosa era sospesa tra armonia e disordine, bellezza e noncuranza, socialità e sfacelo. Poi, però, tutto aveva preso a scivolare rapidamente verso la parte notturna», riferendosi, con queste ultime parole, all’operazione “Mondo di Mezzo” che tra il 2014 e il 2015 aveva portato alla luce il connubio tra criminalità organizzata, spezzoni della società civile e politica in diverse attività illegali.

    Lo scandalo, all’origine di un vero e proprio terremoto politico, le cui ripercussioni sono visibili ancora oggi, era stato “profetizzato” dal romanzo-inchiesta Suburra di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, pubblicato nel 2013. In realtà, molto probabilmente, un espediente utilizzato dal giornalista e dal magistrato per portare a conoscenza il magma nero che ribolliva nel cuore della città.

    Ma già nel 1998 Massimo Lugli, uno dei cronisti di “razza” di «Paese Sera» e di «Repubblica», aveva inaugurato, con il suo reportage d’autore, Roma Maledetta. Cattivi, violenti e marginali metropolitani, il filone “criminale” che di lì a poco, sarebbe diventato la chiave di lettura prevalente per narrare e interpretare la realtà romana: grazie anche al cinema e alle serie tv, come Romanzo criminale che hanno traslato sul piccolo e sul grande schermo, ancora una volta, la rielaborazione letteraria del recente passato della capitale.

    L’unica narrazione alternativa a quella mainstream si ritrova nei fumetti di Zerocalcare, alias Michele Rech, in cui la grande periferia romana non è più un luogo desolato abitato da persone amorfe e senza storia, ma l’immenso teatro di una grande e multiforme comunità che vive, però, in un contesto post-politico. La predisposizione alla ribellione dei diversi personaggi e l’eco delle più o meno recenti rivolte di piazza fanno sembrare le periferie di Roma le banlieue parigine raccontate nel film L’Odio di Mathieu Kassovitz (1995), un richiamo, non a caso, frequente nelle tavole di Zerocalcare. La rivolta come sola possibilità della politica, tuttavia, rischia di ridurre il conflitto a jacquerie, senza offrire una vera alternativa alla visione dei “borgatari”, verrebbe da dire con Walter Siti, ridotti a un fascio di corpi, istinti primordiali e voglia individualistica di rivalsa sociale.

    La metafora della realtà è, dunque, più forte e persuasiva della realtà stessa. Le ricadute politiche di questo processo hanno reso Roma la camera d’incubazione della più grave e duratura crisi di rappresentanza democratica nell’Italia del XXI secolo. Nel 2016 il Movimento 5 Stelle conquistava il Campidoglio con il 67,2% dei suffragi a favore del candidato sindaco Virginia Raggi, ottenuti al secondo turno contro lo sfidante di centro sinistra, Roberto Giachetti (fermo al 32,8%). La futura sindaca otteneva l’80% dei voti nei municipi VI e X: un’ondata di consensi senza precedenti, all’interno di due aree urbane enormi e diversissime. Il municipio VI, infatti, raccoglie diverse zone all’estrema periferia est della città: parte del quartiere don Bosco, Torrespaccata, Torre Maura, Giardinetti, Tor Vergata, Torre Angela, Acqua Vergine, Borghesiana: non propriamente delle cinture rosse, ma sicuramente aree tradizionalmente d’insediamento per i partiti di sinistra. Il municipio X, invece, presenta una morfologia urbana (ed elettorale) eterogenea, abbracciando diverse zone della città che propendono verso il mare: Acilia, Casal Palocco, Infernetto e altre ancora, fino ad arrivare a Ostia.

    Giovanna Silva, Roma. Never Walk on Crowded Streets

     

    Un’analisi a caldo elaborata dal Centro Riforme dello Stato descriveva un quadro – per quanto lecito sia questo paragone – all’opposto di quello che si era profilato nelle elezioni amministrative del 1946: in sintesi il Partito democratico e le altre micro-formazioni di sinistra ottenevano dei risultati discreti nei quartieri centrali (Trastevere, Celio, Aventino, Della Vittoria), mentre crollavano in quasi tutte le periferie, con punte, ad esempio, fino al – 25% a San Basilio e al Tiburtino Nord. Il successo del Movimento 5 Stelle – ampiamente annunciato – era dipeso da una molteplicità di fattori: la guerra fratricida a sinistra, innanzitutto, che nel 2015, dopo solo due anni, aveva portato alle dimissioni del sindaco Ignazio Marino.

    Attorno alla sua giunta si erano addensate molte aspettative in seguito al disastroso governo della città imposto dalle destre con l’elezione di Gianni Alemanno nel 2008. Ragion per cui la protesta, scoppiata sotto la giunta Marino, contro il degrado e i servizi, la cui inefficienza e i cui costi erano aumentati in proporzione alla crisi sociale ed economica che attanagliava la città, divenne particolarmente rabbiosa.

    La diffusa insofferenza fu facilmente intercettata dal partito di Beppe Grillo che la saldò al malumore per la mancata soluzione di diversi temi cruciali per la vivibilità della capitale: la questione dei trasporti, il problema dello smaltimento dei rifiuti e infine il nodo dell’immigrazione (con tutti i suoi annessi, inclusa l’emergenza abitativa), quest’ultimo divenuto un vero e proprio volano di consensi che il Movimento 5 Stelle capitalizzò sostanzialmente guardando a destra.

    Il trionfo dei pentastellati fu il risultato, tuttavia, di un altro fattore cruciale: il silenzioso logoramento della rappresentanza democratica di tutte le forze politiche, con una progressiva accelerazione a partire dalla seconda giunta capitolina di centro-sinistra guidata da Walter Veltroni (29 maggio 2006-13 febbraio 2008). Uno dopo l’altro, infatti, partiti, movimenti, reti associative e altre realtà sociali entrarono in una crisi profonda. Il caso più clamoroso era rappresentato dalle destre che a Roma si declinano in chiave prettamente radicale ed estremista: nel 2008 l’elezione di Alemanno alla guida di una coalizione di centro-destra, sostenuta da decine di liste civiche, sembrò prefigurare un’egemonia decennale sulla città, annunciata dalla selva di saluti romani che accompagnò la presa del Campidoglio.

    La campagna elettorale era stata giocata tutta all’insegna dell’emergenza, dopo il degrado dell’ordine pubblico e l’assassinio, nell’ottobre del 2007, di Giovanna Reggiani, derubata e stuprata, vicino alla stazione di Tor de Quinto, da Romulus Mailat, un giovane muratore rumeno, sfollato in un campo rom, sito nelle vicinanze. L’estrema destra riuscì a intercettare le ansie della popolazione, rovesciando il malcontento, da un lato, sul tema dell’immigrazione, dall’altro, fornendo l’illusione di avere una proiezione organizzativa e associativa sui territori, mostrandosi in grado, perciò, di garantire una parvenza di sicurezza.

    Basti guardare alla produzione cinematografica di questi anni per rendersi conto di quanto sia stata potente la mutazione, tutta raccontata a destra. Nel film ACAB – All Cops Are Bastards (2012), tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e diretto da Stefano Sollima, tutti i personaggi, in conflitto tra loro, sembrano incarnare le diverse anime della destra romana: come ad esempio i tre poliziotti del reparto Celere simpatizzanti o dichiaratamente militanti neofascisti; il figlio ribelle di uno degli agenti, “Mazinga”, che frequenta un centro sociale di destra ed è vicino alle tifoserie politicizzate; una giovane recluta, infine, protagonista del film, che si scontra con un assessore della destra istituzionale accusato di non aver mantenuto la promessa di risolvere a suo favore una vertenza per una casa occupata da cittadini tunisini.

    Pochi anni dopo, nella popolare serie Netflix Suburra (2017-2020), il fascino criminale di Samurai, ex-terrorista neofascista, sembra dominare le tre acclamatissime stagioni: la scena gli è brevemente contesa dal suo figlioccio, un giovane militante della destra radicale impegnato, nelle periferie, nella battaglia contro gli insediamenti dei campi per migranti, disilluso dalla sua figura di riferimento perché compromesso col potere criminale e perciò traditore degli ideali di un tempo.

    Giovanna Silva, Roma. Never Walk on Crowded Streets

     

    C’è da interrogarsi su questa presunta egemonia delle destre nella capitale. Indubbiamente la cultura di strada e alcune caratteristiche antropologiche delle periferie romane rendono le destre più idonee a intercettare gli umori della popolazione. Tuttavia la conquista dei quartieri da parte dei diversi partiti e movimenti di estrema destra – a cui si deve aggiungere l’ingresso nell’arena politica capitolina delle Lega guidata da Matteo Salvini – non si è mai del tutto verificata. Così come la “colonizzazione” delle curve calcistiche o la presa sul mondo giovanile di alcune formazioni, come Casa Pound Italia che si è mostrata inesistente dal punto di vista elettorale, mostrandosi più un fenomeno di marketing che una vera e propria realtà politica, in un contesto, tra l’altro, come quello della capitale, che ha conosciuto tradizionalmente la presenza di una multiforme realtà giovanile di estrema destra. In realtà le strutture organizzative e le reti dei diversi partiti e movimenti di destra sono al collasso, corrose, da un lato, dallo scandalo di “Mafia capitale”, dall’altro dall’incapacità di fornire risposte soddisfacenti alle richieste provenienti dalla cittadinanza. Le elezioni comunali del 2016 ne hanno certificato la crisi, sebbene con percentuali meno traumatiche di quelle raccolte dalle forze di centro-sinistra, con un drenaggio di voti, ancora una volta, a vantaggio del Movimento 5 Stelle.

    Siamo, dunque, in presenza di una crisi di rappresentanza, effetto della combinazione tra il dissesto economico e quello sociale, non di una deriva antropologica. Una condizione talmente evidente che sembra impossibile non possa essere compresa, soprattutto a sinistra. Partiamo dalle sue componenti radicali. Per lo meno a livello teorico, Roma apparirebbe oggi una vera e propria prateria, così piena di opportunità per l’affermazione e lo sviluppo di una sinistra antagonista. Tanto più perché fin dai primi anni Novanta, la capitale avevo visto prosperare diverse realtà: dai movimenti collettivi (inclusa un’agguerrita avanguardia femminista) ai partiti – Rifondazione comunista, Comunisti italiani, etc. – partecipi alla governance della città, fino ai centri sociali (diversi per orientamento e tradizione), culturalmente influenti e presenti in non pochi territori dell’area urbana.

    Nel giro di due decenni, tuttavia, la parabola di quell’esperienza sembra essersi definitivamente esaurita, complice la frammentarietà e la litigiosità che contraddistingue i partiti e i movimenti di sinistra radicale. Molteplici sono le cause del logoramento che qui possiamo sommariamente indicare: la continua trasformazione del tessuto urbano, l’impatto della crisi economica e sociale, il drenaggio di migliaia di giovani in fuga da una capitale senza prospettive di lavoro e di integrazione.

    Non da ultimo hanno pesato i fattori di “crisi culturale”: l’incapacità dell’antagonismo di porsi come alternativa credibile, innanzitutto; il nichilismo e il pessimismo antropologico alla base di una vera e propria paralisi politica; l’arroccamento a difesa di una concezione logora dell’antifascismo, di taglio militante, uno dei tanti problemi irrisolti lasciati in eredità dalla stagione degli anni Settanta. È infatti prevalso l’irrigidimento identitario in una città in cui le destre hanno sentito di avere un ampio margine di manovra soprattutto per gli spazi che si sono lasciati vuoti. Un vero spreco, tanto più perché l’antifascismo ha continuato ad essere un sentimento diffuso in gran parte della popolazione romana, avvertito come elemento della comune cittadinanza condivisa.

    Un’appartenenza particolarmente sentita dalla comunità giovanile e studentesca, non di rado bersaglio delle azioni violente dei neofascisti, fino alla tragica morte di Renato Biagetti, avvenuta il 27 agosto 2006 per mano di due giovanissimi estremisti di destra. Una cappa generazionale, costituita da ex-militanti e dai reduci degli anni Settanta, ha soffocato, tuttavia, le energie più giovani che avevano saputo, invece, interpretare e declinare la tradizione antifascista in forme originali. C’è da chiedersi se un ragazzo di 13 anni o di 16 anni possa definirsi “fascista”, come ha scritto Christian Raimo, e qualora lo sia, se non sia possibile recuperarlo; il dubbio viene anche se si tratta di un giovane di 20 o 30 anni. C’è stato un tempo in cui l’antifascismo si era fatto “apostolato”, proprio a Roma dove la confluenza di diverse tradizioni – politiche e sociali – dell’antifascismo avevano conferito alla nascita della Resistenza tratti nitidi e innovativi.

    Giovanna Silva, Roma. Never Walk on Crowded Streets

     

    Infine la crisi dei movimenti no-global, dopo la catastrofe di Genova 2001, ha avuto a Roma un impatto notevole: le culture più logore e cupe sono dilagate dopo il fallimento di quella stagione. A dire il vero, già alla fine degli anni Novanta, in seguito all’omicidio di Massimo D’Antona da parte delle Brigate Rosse (29 maggio 1999) era emersa, nell’eterogenea realtà dei movimenti collettivi romani, una subcultura estremista, simpatetica col brigatismo e attratta dalle frange più radicali dei movimenti neo-anarchici.

    Un insieme di orientamenti confinati in ambienti ristrettissimi, dove, però, forte era il vincolo generazionale con la leva dei reduci degli anni Settanta, ma che a partire dal 2001 si è allargato alle fasce delle generazioni più giovani, quelle maggiormente colpite dalla disillusione di poter opporre un’alternativa ai processi distruttivi della globalizzazione in corso. Le conseguenze di questo processo, anche in questo caso, sono state molteplici: dalla ripresa di un antimperialismo unilaterale e ideologico, alla base della rottura con la comunità ebraica romana, fino all’incapsulamento nei quartieri, con la costruzione di subculture ermetiche e marginali, subalterne al ripiegamento identitario in atto nel resto del paese.

    Dal punto di vista politico ciò si è tradotto nella rinuncia a priori di qualsiasi intervento sulla realtà sociale, se non in una dimensione micro-locale, e nell’esaltazione delle sempre più rare rivolte di piazza come momento di aggregazione e visibilità del radicalismo.

    Significativamente costituiscono un’eccezione quei municipi, come, ad esempio, la Garbatella, in cui le reti radicali sono riuscite ad ancorarsi alle istituzioni locali, innervandole della loro spinta e della loro energia vitale. In altri casi, come nel municipio III, la partecipazione della cittadinanza è stata stimolata dall’intraprendenza di alcuni intellettuali in vista sulla scena capitolina, come Christian Raimo, che hanno rilanciato l’attività culturale in una zona di Roma, nell’area nord della città, politicamente e socialmente multiforme, senza però aver trovato un’adeguata risposta nei partiti.

    Senza una guida politica, tuttavia, i degenerativi processi sociali ed economici in corso saranno inevitabilmente destinati a travolgere tutto e tutti. Tanto più in un contesto, come quello della capitale, dove negli ultimi decenni il potere criminale ha prosperato, quasi indisturbato, senza alcuna significativa opposizione da parte della società civile. Il bisogno della governance si accompagna, qui, con l’urgenza di riconoscere il ruolo delle istituzioni dello Stato nel contrasto alla criminalità organizzata, la cui influenza sulla capitale ricorda quella delle mafie in Italia meridionale tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta.

    Giovanna Silva, Roma. Never Walk on Crowded Streets

    La governabilità di una città complessa come Roma non si ottiene senza il consenso della sua cittadinanza e il nodo del consenso non si scioglierà mai senza che si affronti il tema cruciale della rappresentanza democratica. Da questo punto di vista, la sinistra istituzionale di governo ha forse le responsabilità più grandi: nel giugno del 2015 un’indagine interna al Partito democratico, condotta dall’ex-ministro e dirigente Fabrizio Barca, certificava l’esistenza di una situazione allarmante del Pd romano, con diverse sezioni e circoli divenuti terminali della corruzione e punto di riferimento delle organizzazioni criminali.

    Pochi mesi dopo, nell’ottobre del 2015, le dimissioni di Ignazio Marino segnavano un passaggio d’epoca e mettevano a nudo la tendenza suicida del Pd che a Roma, in una logica del tutto autoreferenziale e incomprensibile dall’esterno, aveva sancito la fine della sua rappresentanza. Si trattava dell’ultima e più prevedibile conseguenza del processo degenerativo della politica di centro-sinistra, divenuta subalterna alle logiche dell’espansione e del profitto economico che nella capitale avevano mostrato le ricadute più nefaste.

    Neanche un anno più tardi, alla vigilia della campagna elettorale per le elezioni comunali del 2016, la senatrice del Movimento 5 Stelle Paola Taverna, nel corso di una trasmissione radiofonica, sostenne l’ipotesi che vi fosse un complotto in corso per permettere al suo partito di vincere le elezioni: le rivali coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra avrebbero presentato candidati deboli al Campidoglio proprio per lasciare la città in mano ai 5 Stelle, il cui governo si sarebbe misurato con difficoltà tali da discreditare completamente il loro operato.

    Raramente un’ingiuria così grave era stata pronunciata contro gli abitanti di una città. Fino a quel momento, infatti, non si era mai vista una forza politica ritenere il governo della capitale d’Italia un compito ingrato e foriero di problemi. Si trattava, tuttavia, di un sentimento condiviso. Volatizzatosi il consenso che aveva accompagnato l’ingresso dei pentastellati nel Campidoglio, alla vigilia delle prossime elezioni comunali, la capitale e i suoi cittadini attendono di essere coinvolti nel processo decisionale che segnerà il suo futuro. Per il momento non si scorge alcun segno in questa direzione: è una sensazione sconfortante perché oggi più che mai Roma ha bisogno della sua utopia.

    Le immagini presenti nell’articolo sono state gentilmente concesse da Giovanna Silva autrice del reportage fotografico Roma. Never Walk On Crowded Streets (Nero Editions) che ringraziamo.


    Bibliografia e documenti

    Archivio del Partito comunista italiano, Fondazione Gramsci onlus, Roma.

    Caro Bonini, Giancarlo De Cataldo, Suburra, Einaudi, Torino 2013.

    Giovanna Casadio, “Roma corrotta ma il partito è sano. Niente premiership per il segretario”, la Repubblica, 14.06.2015

    Maurizio Cocco, Qualunquismo. Una storia politica e culturale dell’uomo qualunque, Mondadori-Le Monnier, Milano 2018.

    Viola Giannoli, Taverna: “Complotto per farci vincere”,

    Gabriele Isman, La comunità ebraica diserta il 25 aprile, la Repubblica, 04.04.2015.

    Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, Torino 2020.

    Carlo Levi, Roma fuggitiva. Una città e i suoi dintorni, Donzelli, Roma 2002.

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    Note