Appunti sparsi su una Scuola Nomadica in mezzo alle Alpi

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    Ho impiegato tre anni a intuire che la roulotte di Little Fun Palace potesse diventare una scuola nomadica. Un’epifania che ha atteso tre anni per mostrarsi: una scuola nomadica che si sposta, che cambia in base a dove si trova. Proprio come la forma della roulotte cambia in base a cosa ospita: un incontro, un dj-set, un film, un workshop, una mostra, una micro-performance.

    L’abbiamo portata a 1.600 s.l.m. in una zona d’alpeggio delle mucche e delle pecore con un gruppo di quasi 30 persone fra mentori e partecipanti che si sono confrontate su come lo spazio produce realtà. Hanno sperimentato nuove forme di condivisione del sapere attorno alle arti performative considerando lo spazio e il paesaggio territori estetici che hanno implicazioni politiche pur non utilizzando le parole della politica. Lo spazio. Innanzitutto le Alpi che ci hanno accolto e fatto sentire friabili, perché le parole attorno al paesaggio erano le stesse di quelle dette o ascoltate in uno spazio urbano ma quando sei su una sella da cui ti arriva una nuvola in faccia il loro significato cambia tantissimo.

    In formule diverse, lo spazio tornava sempre, anche se le discipline della Scuola Nomadica cambiavano. Come un’essenza che attraversa campi lontanissimi e trova insenature in cui emergere, in cui mostrarsi. Un po’ come una pathosformel; pezzi ricorrenti di spazio. Forse questa formula spaziale del pathos è una delle ragioni per cui è così difficile sentirsi isolati in mezzo a un paesaggio. C’è una netta sensazione di non-solitudine quando ci si concentra sull’intorno. Si iniziano a notare tutti quei mondi costruiti da agenti umani e non-umani. Sovrapposizioni di mondi all’interno del mondo stesso. Anna Tsing lo ha definito un design involontario, in cui queste sovrapposizioni hanno un effetto del tutto involontario che, tuttavia, sfocia in una forma vera, ineccepibile.

    Questa involontarietà è stata un’idea ricorrente nei giorni dell’alpeggio, ma anche per la scrittura di questi appunti in cui abbiamo ripensato alla nostra centralità e perifericità rispetto a chi è deputato a raccontare com’è andata la prima edizione della Scuola Nomadica.

    Mentor: Mattia Venco / Matenco. Cuoco

    Ricetta #01 – Farcia per Crespelle

    [Ingredienti]

    1 lt di latte

    130 gr di farina

    130 gr di burro

    950 gr di formaggio di malga

    [Preparazione]
    Fare una besciamella classica e aggiungere il formaggio. Continuo a mescolare con il fuoco al minimo fino a che il composto non risulti omogeneo. A questo punto stendo la farcia sulle crespelle che andrò ad arrotolare e, quando saranno fredde, a tagliare ad uno spessore di circa 5 cm. Gratinare per 15 min circa a 190°.

    Mentor: Riccardo Venturi. Storico e critico d’arte contemporanea

    La tenda è umida. L’aria del mattino è frizzante e la pelle è sensibile ai primi raggi di sole tra le nuvole che avvolgono la cima est del Bondone. Un paesaggio che ricorda un quadro di Caspar David Friedrich, al punto da chiedersi se sia davvero l’arte ad imitare la natura e non viceversa. Un paesaggio montano, in divenire, fa da sfondo al nostro pensare in questi giorni di condivisione. Ibrido tra natura e cultura, si sviluppa su strati di storie ed eventi passati, tracce della relazione tra uomini, e vegetazione. Non solo. Il farsi del paesaggio è anche ad opera delle meteore. Tanto ignorate dalla critica d’arte paesaggistica, quanto percepite come un fastidio da coloro che scrutano la volta celeste. Le meteore, non sono semplici stelle cadenti, ma l’insieme dei fenomeni che abitano il cielo. Nuvole, pioggia, vento, tornadi…

    Meteore… un termine che ha abitato velocemente il nostro vocabolario collettivo perché, se pur circostanziali, sono state compagne di viaggio dall’umore variabile, condizionando non poco i nostri scambi. Come mentori non interpellate, le meteore ci hanno portato a praticare un senso di precarietà, dove tutti i piani saltano e quindi che si fa? Così, tra un’attività e l’altra, la domanda nasce spontanea ‘che tempo fa?’.

    Un tempo che nasce come un sentito e che si trasforma in una scienza dell’approssimazione, dove prevedere significa scrutare l’orizzonte con il pastore. Le meteore sono imprevedibili, più cerchi di capire cosa accadrà e più ti ritroverai bagnato –e probabilmente raffreddato–. Giocano e si spostano come se nulla fosse, possiamo noi farci aria?

    Fluttuante era il tempo che faceva, e così i nostri umori.

    Forse non c’è poi tanta differenza tra noi e le meteore, alla fin fine siamo un po’ tutti meteoropatici.

    Mentor: Camposaz. Workshop di autocostruzione in scala 1:1

    C’è un potenziale sovversivo nell’autocostruzione; c’è libertà nel progetto e una soddisfazione nel risultato, che supera di gran lunga quella dell’acquisto. Costruire ciò di cui si ha bisogno, riparare ciò che si è rotto, sono pratiche rivoluzionarie nel mondo dell’usa-e-getta, nell’economia della delega.

    Quando arriviamo alla roulotte, la vastità del paesaggio intorno a noi contiene pochi interventi antropici: un’antenna, una sorta di ponte al centro di una vallata senz’acqua, dietro una collina c’è una malga e una staccionata che recinta un rudere. Il luogo infonde accoglienza, ma intorno a Little Fun Palace mancano tutti gli accessori che ci permetteranno di parlare in cerchio la sera davanti al fuoco, di pasteggiare con il sedere asciutto; manca un piano solido dove poggiare la zuppa calda e una tettoia per ripararsi dal maltempo.

    Molti di noi non hanno familiarità con avvitatori e seghe circolari. Inizialmente c’è molta apprensione da parte dei tutor e un grande imbarazzo da parte nostra. Ma ben presto acquistiamo dimestichezza, appena collaudati i primi sgabelli. C’è più silenzio, quello che sempre accompagna la concentrazione; si formano spontaneamente dei gruppi. Ciascuno si concentra sulla costruzione di strutture che abbattono i confini del funzionale per realizzare fantasie funamboliche. Le parole tra di noi sono sempre meno velleitarie, servono a prendere decisioni, a coordinare i movimenti. Alla fine delle due giornate di lavoro con Camposaz abbiamo tutto quello che ci serve. Comprese strutture per il relax che useremo poco, con tutta la pioggia che è venuta giù. Ma dato che la polvere è inizio e fine, per concludere il nostro Alpeggio, abbiamo bruciato gran parte delle nostre architetture, per non lasciare traccia, per riscaldarci.

    Mentor: Lisa Angelini. Botanista e agroecologista

    [17.0° esterno. Giardino Botanico Alpino Viote. Poco prima che il sole si eclissi dietro alle montagne. 15 persone in scena – forse qualcuna in più – osservano e si osservano, mantenendo la distanza. Luce diffusa ma fioca. Alberi – prevalentemente pini –; piante – circa 2000 specie di alta quota –. Aiuole rocciose Stelle alpine Torbiere Ruscelli Boschi tutt’intorno.]

    Cominciare con gli occhi. Spostare lo sguardo lungo i confini, spinti dal desiderio di curiosità.

    Inizia così. L. ci guida sulle cime del Monte Bondone col racconto della montagna. Il giardino è pieno di piante e fiori classificati per famiglie. Ce ne sono altre che sfuggono al nome, che per qualche ragione sono finite da un’altra parte, lontane dalle simili. Corridoi ecologici–canali connettori per animali e vegetali. Specie contaminate, interconnesse, giunte e cucite insieme a formare nuove parentele aliene, a ripensare la nozione precostituita di natura.

    «Il prato che vedete è fatto da noi, sennò ci sarebbe solo bosco. Si chiude tutto qui. Si chiude tutto in sé stesso e perdi delle specie. Perdi biodiversità, ti cambia tutto». Sentire certe cose fa più male al cuore che bene.

    Depensarsi. Essere parte del pubblico, di quelle che ascoltano il farsi del mondo che si realizza di fronte. Arrivare in un posto dove uno può amare tutto quello che vuole. Dove uno può scegliere di abbracciare il cielo intero o le stelle più piccole e tenui. Dove il desiderio è libero e lo sguardo non trova ostacoli.

    Conoscere. Riconoscere. Riconoscersi con gli occhi, con le orecchie e con l’olfatto. Diventare parte di un assemblaggio provvisorio.

    Mentor: Daria Deflorian. Autrice, regista e performer

    Ho visto per la prima volta Daria Deflorian al Supercinema di Santarcangelo di Romagna nel luglio 2015. Lo spettacolo era Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. L’amico con cui ero andato a vederlo si addormentò profondamente dopo dieci minuti, mentre io rimanevo completamente catturato da Daria e dalla sua semplicità pungente.

    Ho conosciuto Daria Deflorian cinque anni dopo nel Rifugio Viote sul Monte Bondone in Trentino – Alto Adige / Südtirol e, le prime parole che le ho detto, sono quelle che ho scritto sopra. Siamo rimasti a parlare per un’ora e mezza davanti a due fette di cheesecake ai frutti di bosco. Non mi ha sorpreso la sua figura perché l’avevo immaginata sempre così, come mi si è presentata davanti. Sembrava di parlare con una vecchia amica con la quale dovevamo aggiornarci sugli ultimi eventi accaduti nelle nostre vite.

    La sera stessa ci siamo riuniti tutti quanti nel tavolo affianco e, come tanti bambini, siamo rimasti ad ascoltare Daria per due ore mentre fuori imperversava una tempesta infinita. Ha parlato di Antonio, della voglia che dopo tanto tempo li ha spinti a lavorare assieme, della fatica che li ha raggiunti dopo un decennio di lavoro congiunto, e della capacità di scriversi a vicenda. Scriversi tutti fino alle ossa. Scriversi come se si stesse “facendo filò” nelle stalle. Daria mi ha insegnato, nel breve tempo che ho passato con lei, che l’intimità si trasforma nel ridicolo, ma che il ridicolo è sempre un sentimento interessante.

    Mentor: Mattia Venco / Matenco. Cuoco

    Ricetta #02 – Fonduta di trentingrana

    [Ingredienti]

    1 lt di panna

    5 gr di maizena

    900 gr di trentingrana

    [Preparazione]

    Scaldare la panna a 90° in un pentolino, aggiungere la mainzena stemperata con dell’acqua, mescolare con una frusta per qualche istante e unire il formaggio. Frullare il tutto con un mixer fuori dal fuoco.

    Mentor: Attila Faravelli. Musicista e sound-designer

    Gelavamo tra le pareti in pvc della Tettoia. Pioveva a dirotto ma quello era l’unico posto dove riunirci poiché non era veramente uno spazio chiuso. La Tettoia si trova nel mezzo del Giardino Botanico, le pareti a scomparsa si arrotolano con un bastone, come i tendalini ombreggiati di un bar.

    Quella sera, l’unico che non pativa il freddo, bensì emanava calore, era Attila – di nome e di fatto, ma senza la ferocia del condottiero; un gigante generoso, innamorato dei suoi strumenti semplici e sofisticati: gli AURAL TOOLS.

    Attila si è speso molto a raccontarci nei minimi dettagli le storie sottese di questi dispositivi capaci di innescare una relazione tra suono, spazio e ascoltatore.

    Attila ascolta lo spazio intorno a sé, lo scansiona e ne decodifica le caratteristiche sonore in funzione dei materiali che lo costituiscono. Se fosse nato in epoca barocca, sarebbe stato una di quelle figure misteriose che studiano l’acustica e i riverberi nelle cattedrali.

    Attila deve approfondire tutto quello su cui si posa la sua attenzione. Scava ossessivamente un determinato fenomeno, fino a esaurirlo. Parla di quest’attitudine come di un destino, un qualcosa a cui non ci si può sottrarre. La sua accuratezza cela un elevato grado di ascolto e concretezza. Attila ha una grande manualità e gli piace costruire le cose. Quando tocchiamo gli oggetti questi ci restituiscono informazioni e ci guidano attraverso la loro stessa materia. Attila è affascinato dalla materialità delle cose, le rende sublimi pur restando ancorato a ciò che sono, colorandole con ironia e una spolverata di cinismo.

    Mentor: Studio Folder. Agenzia di ricerca e design

    [12.5° esterno. Piana Viote. Poche ore dopo il pasto di mezzogiorno. Si mangia presto in montagna. Cielo ancora nuvoloso. La luce è pallida e colora di grigio-cenere pure l’erba. La roulotte è parcheggiata al suo posto: parassita del nuovo paesaggio, si fa casa per qualche giorno. La tettoia protegge i tavoli e le sedute di legno, ormai sparse intorno disordinatamente. Pirca abbaia, drizza le orecchie, punta a colpo sicuro un’ombra vicina e schizza a giocare. In scena teste colorate coperte da cappucci antivento. Diluviano gocce. M. e E. prendono parola: the view from below.]

    Ritrovare il corpo. Muoverlo nello spazio aperto. Traslocare con il corpo anche i termini del discorso e aprire l’immaginazione, richiamando i pensieri altri, quelli che si nascondono dietro al cervello, ancora non addomesticati, ancora non negati.

    Oggi tracciamo un’architettura dell’invisibile. Oggi proviamo a disegnare una stella, a misurare la montagna con le braccia e con le gambe, a creare spazio con lo sguardo alla ricerca di nuove mappature sentimentali, a produrre immaginari mobili alla ricerca di compagne nascoste nella nuvola che è appena calata sulla valle. Non vedo niente cazzo. La pioggia insegna ad avere fiducia. È un gioco, ma l’esigenza è politica. Vogliamo poterci muovere libere e mutevoli, spazializzare il pensiero sfuggendo al richiamo all’ordine. Quand’è che ho smesso di correre sotto la pioggia?

    Questa è la sera delle promesse silenziose. Oggi viviamo e moriamo intime nella nostra distanza, particelle in questo tempo-spazio.

    Mentor: Annamaria Ajmone. Danzatrice e coreografa

    Ultimamente sento un sacco di amici utilizzare il termine “triggerare”. Mi infastidisce perché non riesco a coglierne il senso. Non sono un nerd e mi sono confrontato solo una volta con i software che utilizzano linguaggi di programmazione. Mi ricordo che il trigger era uno strumento del software per fare girare, a un numero inverosimilmente veloce, dei numeretti. Il motivo per il quale sto parlando di questo è perché uno degli spettacoli di Annamaria Ajmone si chiama proprio così, Trigger.

    Mi decido allora a cercare la parola online per capirne esattamente il significato. In ambito elettrotecnico rimane qualcosa a me incomprensibile, quindi leggo “grilletto” e “scatenare, innescare, dare il via…”. L’immagine che ricordo più nitidamente dello spettacolo di Annamaria è la sua figura danzante che, con grande nonchalance, abbandona il palcoscenico per scomparire in un bosco. Alle Viote è stato esattamente il contrario. La sua apparizione ha portato con sé l’apparizione di tutto lo spazio che mi stava intorno. Per la prima volta dopo quattro giorni in cui ero in quel luogo, mi sono reso conto di dove fossi.

    Ho chiesto ad Annamaria di performare per me. Le ho chiesto di fare un ballo tirolese in mezzo ai cespugli del Giardino, mentre Cosimo e Carolina la prendevano per mano saltellando e urlando: “La accettiamo, è una di noi! La accettiamo, è una di noi.”

    Effettivamente è stato proprio così, la accettavo ed era una di noi. Sembra banale ma è sorprendente ritrovare i propri simili e capire come la generosità sia la prima cosa.

    Mentor: Mette Edvarsen. Coreografa e performer

    Ho scelto un libro, abbiamo scelto un luogo. Isadora mi precede: ha sulle spalle una coperta bianca e rossa. È freddo e la coperta ha una fantasia natalizia; è fine agosto.

    I fenomeni creano un piccolo sfasamento temporale. Tutto si sospende.

    Posso chiudere gli occhi se voglio, la sua voce mi prenderà per mano.

    La vista, dispensata per il momento, può riposare; l’atto della lettura è traslato, non ci sono segni grafici da visualizzare, ma parole incarnate che sostano qualche istante prima di scivolare via.

    Si creano immagini che si imprimono sul paesaggio che ci circonda o, forse, è quel paesaggio a imprimersi sulle immagini, partecipe dell’atto immaginifico.

    Il vento, il freddo, il sole che non riesce a scaldare l’aria di pioggia di fine pomeriggio, il timbro della voce di Isadora così vicina a me; lo sfasamento continua.

    È inverno, è estate. Sono sulle Alpi, sono al confine tra l’Ungheria e l’Austria.

    Pirca si avvicina correndo, la chiamano. Le parole “Pirca, vieni qua” si mescolano a quelle di Agota, a quelle di Isadora nell’istante in cui pronuncia “bastardino” ed accarezza Pirca sulla testa; il cane si allontana subito dopo, seguendo un esatto copione impossibile.

    Mentre le parole si rincorrono, penso al termine latino memento, a come evoca la memoria e il momento. Non so perché.

    Non ho mail letto l’Analfabeta di Agota Kristoff, ho sognato l’Analfabeta di Agota Kristoff.

    Mentor: Mattia Venco / Matenco. Cuoco

    Ricetta #03 – Zuppa di lenticchie

    [Ingredienti]

    500 gr di lenticchie

    100 gr di patate a cubetti (4 mm c.a.)

    150 gr di sedano – carota – cipolla

    1 spicchio di aglio

    1 cucchiaio di concentrato di pomodoro

    sale e pepe q.b.

    Rosolare le verdure in una casseruola con poco olio evo. Aggiungere le lenticchie e farle rosolare per qualche minuto. Unire il concentrato di pomodoro. Versare nella casseruola del brodo vegetale fino a coprire e cuocere per 1h c.a. con coperchio. Verso la fine, salare e pepare.


    Gli appunti sparsi sulla Scuola Nomadica sono stati scritti da:

    Chiara Pagano | artista visiva, scolara nomadica

    Edoardo Lazzeri | ricercatore, curatore, scolaro nomadica

    Veronica Franchi | organizzatrice errante, parte di OHT

    Cosimo Ferrigolo | artista del recupero, curatore, scolaro nomadica

    Michael Scerbo | coreografo, permacultore, scolaro nomadica

    Filippo Andreatta | artista e fondatore di OHT

    Note