Dopo i dialoghi tra Derrick de Kerckhove e Francesco Monico, tra Michele Cerruti But e Filippo Barbera e tra Paolo Naldini e Ezio Manzini che hanno introdotto il Convegno di ricerca Public! a cura di Francesco Monico, Paolo Naldini, Michele Cerruti But presso Accademia Unidee (il racconto del convegno nel reportage di Marco Liberatore) ora apriamo una serie di approfondimenti sul concetto e sulle declinazioni di “pubblico”. Dopo un’analisi e un’interpretazione dell’intellettuale pubblico del filosofo Federico Campagna, dopo “il sogno” narrativo proposto dall’architetto Maurizio Cilli sul concetto di pubblico come infrastruttura, dopo il concetto di pubblico come innovazione della pratica a cura dell’urbanista e attivista Elena Ostanel, un saggio sul rapporto con il pubblico visto dal punto di vista di un perfomer di Andrea Pagnes , un contributo della storica dell’arte, Gabi Scardi, e un intervento sull’architettura comunitaria di Mariana Pestana. La serie trova infine la sua conclusione in un denso e ricco saggio di Francesco Monico.
Bene pubblico, ovvero tutto quello che è accessibile a tutti i cittadini e che ha regole condivise, quindi tutto ciò che fa di un individuo un cittadino; pertanto Ente pubblico come insieme di coloro che generano e gestiscono i beni pubblici, ma anche semplicemente Pubblico ovvero chi ‘osserva’, chi si ‘diverte’ (perché lo stare in società è anche e sopratutto divertimento).
Questo saggio si inserisce all’interno dell’attenzione per un regime democratico di una sfera pubblica funzionante e per ciò parte dalla teoria discorsiva della democrazia di Jurgen Habermas. Tuttavia l’aspetto più importante di questa riflessione è il superamento dell’idea che alla base di una sfera pubblica vi risieda un interesse di classe, al contrario viene proposta l’ipotesi che la sovranità che la sfera pubblica evidenzia sia una sovranità intesa come processo discorsivo che afferma la nascita di ogni potere politico dall’istinto comunicativo pubblico dei cittadini e che, dicendo ciò, tale potere si sposti dall’ambito politico tout-court a un’ambito estetico-relazionale che, pur comprensivo del politico, esprime più un potere immaginativo di fatto estendendo la dimensione politica a una problematica relativa a ciò che è vero, non è vero, a supposte verità o post verità.
L’età della tecnica
Il XXI secolo è l’età del furore di una tecnica e di una scienza sempre più incardinate in un binomio che ne esalta le tendenze razionali e funzionali. La tecnica è la massima espressione della razionalità e sostituisce all’intenzione la funzione. Si impone così un globale ambientato in un futuro presente, laddove una scissione dell’interiorità è destinata ad affermarsi con l’onnipresenza dell’algoritmo che processa quantità incalcolabili di dati. Una rivoluzione in esponenziale intensificazione che spinge la dimensione pubblica verso un logos digitale incardinato in una sovranità pubblica non più agita da quello che i greci chiamavano nous, ovvero un incantamento del mondo. Nell’Occidente egemone e creatore dell’algoritmizzazione di ogni cosa, e quindi capace della globalizzazione, è avvenuto un ‘furto d’organo’, un’amputazione mcluahniana dell’equilibrio sensoriale degli individui.
Mistica pubblica
Ciò ha sempre più reso caricatura e confinato in un discorso per iniziati, pazzi, fous, idiot e savants le esperienze artistiche, mistiche, sciamaniche, iniziatiche, sapienziali che erano sostrato euroasiatico e fondamento del pensiero greco e magnogreco, in quanto campo di generazione e performazione di un’enciclopedia condivisa di saperi, pratiche, che generavano la comunità e lo spazio pubblico. E ancora oggi, nel rispetto di una parte importante degli studi culturali e della filosofia, la cultura occidentale può essere definita greco-cristiana, e proprio questa dimensione dà importanza a un pubblico che ri-assume le narrative condivise dalla comunità a cui appartiene. Qui si situa anche la questione della verità per come è stata impostata dalla cultura greca, da quella cristiana e quindi da quella occidentale contemporanea. Ovvero per la filosofia greca, dal famoso mito di Platone in poi, la verità è un carattere che l’essere umano assume come correttezza della visione e del pensiero in rapporto con una supposta intelligenza e/o razionalità, ovvero diventa un carattere del giudizio che si oppone alla falsità. Ma se la dimensione politica è irrelata a una problematica relativa a ciò che è pubblico, poichè il tipo di sovranità che la sfera pubblica evidenzia è intesa come processo discorsivo irrelato a un potere creativo-immaginativo, ecco che allora la verità non è un carattere che pertiene al giudizio, nemmeno un “valore conoscitivo” per la formazione e l’edificazione dell’umano, come vorrebbe il mai tramontato umanesimo antropocentrico; la verità è piuttosto un evento in cui l’essere umano è messo in gioco, coinvolto come compartecipazione e risiede nella parte comune del discorso pubblico nella misura in cui la verità diventa l’accadere stesso del pubblico nel soggetto, nel senso dell’accadere della sfera pubblica nell’essere umano.
L’origine cristiana dello spazio pubblico
La prima macchina culturale di cui abbiamo ininterrota testimonianza è la bibbia, una macchina mnemonico-narrativa, ovvero un libro, quindi con la rivoluzione industriale siamo passati a un mondo dove la memoria è creata dallo sguardo e dagli eventi di neomacchine genericamente definite media, quali il cinema e i social media.
L’inizio della macchina culturale è legata all’opera di Giovanni Evangelista. “Il testimone” come amava essere chiamato compose uno dei testi fondanti della cultura cristiana: il Prologo del Vangelo secondo Giovanni. Tale brano, noto anche come Inno al Logos, racconta l’intero universo in pochi cenni. “In principio era il Logos e il Logos era presso Dio / e il Logos era Dio. Questi era in principio presso Dio. / Tutto è venuto a essere per mezzo di Lui, e senza di Lui, nulla è venuto a essere di ciò che esiste” (Giovanni 1:1-5). Giovanni situa la speculazione in un principio primo che viene identificato con una forma logico-discorsiva, ovvero con una partecipazione al mondo attraverso costrutti narrativi. È infatti l’identità messia-logos a confermare l’attesa di un personaggio concettuale maestro delle narrative pubbliche. Con l’operazione cristiana l’immaginario occidentale moderno si incardina all’attesa di un avvenire, mediante il racconto pubblico della vita di Gesù che con la sua parola, è sia vero ‘novum storico’ dei nuovi tempi, sia anticipazione dell’apocalisse da intendersi come un evento che è sia da narrare che simultaneamente già narrato, quindi pubblico per eccellenza. Infatti la presenza della figura del Messia già racconta della fine del racconto all’interno del racconto stesso. Così il Prologo fonda la cultura occidentale perché da qui in poi tutto diventa racconto pubblico per un migliorarsi verso una fine certa e data. Perché le parole di un enunciato si raggruppano fra loro attraverso relazioni semantiche per quanto riguarda il significato. Un campo semantico infatti definisce l’insieme di tutti i lessemi connessi a livello sintagmatico e paradigmatico in un dato sistema linguistico. Da qui nasce una nozione-immagine implicitamente escatologica, costituitasi nel plesso della teologia della storia cristiana, che dopo l’avvento dell’Illuminismo nel XVIII secolo chiamiamo progresso (con la sua accezione mistica dell’innovazione) e che si fonda a doppia mandata proprio sulla pratica di una metafisica della rivelazione che implica il vero e non il reale nei termini di un dispositivo avverante ancora e sempre pubblico.
Quindi l’incontro definitivo tra le due culture greca e cristiana si ebbe con Paolo di Tarso (I d.C.): “Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato un altare sul quale era scritto: ‘Al dio sconosciuto’”. Con questa frase Paolo si appropria di una scritta su un tempio di Atene che si rivolgeva alla pratica di accordare considerazione a tutti gli dei possibili. Facendo ciò porta il racconto del Dio unico a un livello di astrazione che lo pone nel cuore e nell’essenza del racconto ovvero di una narrazione che può e deve essere metaforica non vincolata al reale, ma che proprio per questa dimensione metafisica e retorica assume caratteri di possibilità e quindi di realtà. Dunque è Luca a scrivere: “Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; […] Difatti, in lui viviamo, ci muoviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: “Poiché siamo anche sua discendenza”.
È quindi uno scrittore romano, Tertulliano, a domandare: “Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l’Accademia e la Chiesa?”. Ebbene hanno in comune il concetto di persona, termine che deriva dal greco prósôpon (πρóσωπον) e dall’etrusco phersu che sta per “maschera dell’attore”, “personaggio”. Questa etimologia rinforza il valore narrativo, pubblico e finzionale della costruzione filosofica cristiana, infatti descrive Dio come unico e distinto in persone divine che sono “relazioni sussistenti”, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che allo stesso modo di ogni essere umano rendono pubblica la natura umana, ma in modalità distinta dal pubblico nella sua finzione di persona. Per questo la partecipazione pubblica alla natura dell’essere umano è un derivato dalle narrative che si instaurano tra le dimensioni di “persone” degli uomini e delle donne, e questi racconti pubblici sono propri del Dio che quindi, con i suoi esempi, il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, diventa motore di una narrazione (la teoria dell’ispirazione nel cristianesimo è molto precisa: Dio “non detta” il testo sacro, e neanche lo consegna come nell’islam, qui la narrazione è intesa come racconto tramandato) che soprassiede all’interpretazione pubblica dell’essere umano in quanto generazione di un piano di verità comune. Pertanto mediante il racconto l’essere umano si fa personaggio di una storia pubblica e diventa persona, ovvero si lega a delle verità condivise pubblicamente. Tertulliano introduce anche la pratica che le verità pubbliche vadano sostenute con convinzione tanto maggiore quanto risultino incomprensibili alla ragione; tesi riassunta nell’espressione “Credo perché è assurdo”. In realtà la frase esatta pronunciata da Tertulliano era: “…prorsus credibile est, quia ineptum est”, che si traduce con: “…che è del tutto credibile, perché è del tutto incredibile”. Dal mio punto di vista spronando a credere nelle storie anche quando non supportate da fatti, ma da astrazioni retoriche come un Dio mono-poli-teista, uno e trino.
Tra il IV e V secolo è San Girolamo a tradurre in latino il termine logos con “Verbum”; da allora il concetto di Logos di Giovanni viene tradotto come “il Verbo”, che quindi si traduce come “la parola”. Qui centrando in pieno l’insieme pubblico, parola, condivisione, verità.
È quindi Origene Adamantio a determinare un salto di qualità inquadrando la teologia cristiana come l’interpretazione pubblica di un racconto finalizzato alla comprensione di un significato che proprio perché pubblico e condiviso, diventa vero. Origene è il primo a dichiarare che la condotta pubblica di vita deve corrispondere alla dimensione del racconto del Cristo, arrivando a una dimensione consustanziale, homooùsios, tra il senso di realtà e la storia che la precede e informa, raggiungendo così la verità. Così con l’identità pubblica tra storia e realtà viene implicata una determinazione di questa stessa realtà pubblica nella storia che precede, informa e definisce proprio la verità. Ciò riesce perché il rapporto di processione esistente fra le tre Persone della Trinità, è da leggersi in un’ottica non di piena parità, ma di subordinazione del Figlio rispetto al Padre; che altro non è che la subordinazione del prodotto del racconto, il figlio, rispetto al racconto stesso, il padre, e appunto della verità che è lo spirito santo. Di conseguenza secondo questa interpretazione, da Origene, ereditando la centralità del Logos di Giovanni e la speculazione di Tertulliano, incardina al centro del fenomeno occidentale moderno il racconto, addirittura facendo originare l’essenza stessa della verità nell’identificazione-sincronizzazione di una persona pubblica con un racconto pubblico.
In conclusione prendiamo la speculazione del maggiore esponente della Patristica, Sant’Agostino, e osserviamo che la relazione racconto-persona, dimensione finzionale-verosimile, risiede all’origine dell’immaginario pubblico occidentale. Infatti Agostino riprendendo soprattutto da Plotino il tema delle tre nature o ipostasi divine – Uno, Intelletto e Spirito – e identificandole con le tre Persone della Trinità cristiana – il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e concependo il loro rapporto di processione reciproca, opera una sintesi tra la filosofia greca e la fede cristiana, si viene a creare così un sistema di relazioni atto a produrre, giustificare e sostenere schemi narrativi. Ciò anche e sopratutto perché oggi è dimostrato che ci sono dei limiti oltre i quali la ragione non può andare, ma dove può invece arrivare la retorica di un personaggio concettuale il quale accompagnato dalla sospensione dell’incredulità, in questo senso quindi dalla credenza, riesce a determinare costrutti viabili per tutti, ovvero pubblici. Se nella filosofia greca c’era una visione circolare della storia, il cristianesimo con il suo raccontare, il suo logos, introduce la visione lineare del tempo e dunque di una storia unica e fa diventare la storia-racconto il percorso di una verità condivisa, quindi ponendo una verità che si realizza solo dopo la morte, ergo nell’immaginario. La teologia cristiana con Agostino introduce uno schema narrativo dualistico della lotta tra bene e male e lo situa nella storia ponendo solide fondamenta al racconto, il logos dell’essere umano occidentale.
Il post-scriptum è l’opera di Boezio, uno dei fondatori della filosofia cristiana medievale, che definì due tipi di persone: gli intellettibili che sono esseri immateriali, concepibili solo dall’intelletto, senza l’ausilio dei sensi, come Dio, gli angeli, le anime; e gli intelligibili che sono invece gli intellettibili calati nelle realtà materiali, le quali vengono percepite dai sensi pur essendo sempre concepibili dall’intelletto. Perché questo schema funzionasse era fondamentale, di nuovo e ancora, un comune pensiero storico-sociale come base pubblica e immutabile per tutti, substrato su cui appoggiare e accordare i personaggi intellettibili, la natura e i personaggi intelleggibili, un territorio mentale pubblico condiviso dove le esperienze e l’immaginazione potessero appunto assumere carattere di verità pubblica.
La speranza di un futuro
Così la teologia cristiana si realizza nella forma propria del pubblico in quanto narrazione, all’interno di una pretesa veritativa, una comune verità, fondata su un principio pubblico di sincronizzazione umano. I greci conoscono l’uomo come “il mortale”, donde la visione tragica del greco perché l’uomo non può vivere se non costruendosi un pubblico in vista della morte che è l’implosione di ogni senso appunto nella memoria pubblica. Ma il cristianesimo, annunciando l’immortalità dell’anima, oltrepassa di gran lunga questa dimensione tragica e introduce nella cultura dell’Occidente, una carica di ottimismo incredibile. Infatti se l’uomo non muore, se il futuro è sempre un futuro di speranza, se c’è un oltrepassamento della dimensione tragica, perché la costruzione di senso che ciascuno conferisce alla propria vita è una testimonianza, allora la vita diventa qualcosa di positivo, qualcosa che risiede nella condivisione pubblica di un ottimismo: la speranza di un futuro.
Culture, supporti e pubblici
Certo è che tali narrative sono sempre state, anche e sopratutto, la modulazione che i supporti della comunicazione di volta in volta egemoni implicavano: così c’è una modulazione narrativa orale, da cui una dimensione pubblica orale, una modulazione narrativa chirografica, da cui una dimensione pubblica scritta, una modulazione narrativa stampata, quindi radiofonica, cinematografica e televisiva. Nell’ambito della riflessione sui media, la figura dello studioso canadese Marshall McLuhan rappresenta una delle più importanti voci, avendo elaborato quella che viene considerata la più diffusa teoria generale sui media. Il suo pensiero può essere inserito nell’ambito di quella corrente definita determinismo tecnologico; egli infatti riteneva che le tecnologie che si sono imposte in alcuni periodi storici abbiano avuto un ruolo fondamentale nel determinare le componenti principali della società: “Le società sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione. […]”. Questo perché secondo il critico letterario canadese ogni medium amplifica selettivamente le potenzialità fisiche, intellettuali, sensoriali e cognitive dell’individuo modificando di conseguenza le strutture pubbliche della società in cui vive. Infatti in quanto estensioni del nostro sistema fisico e nervoso, i media costituiscono un vero e proprio sistema di interazioni biochimiche che deve cercare un nuovo equilibrio ogni volta che sopraggiunge un nuovo mezzo di comunicazione. La rivoluzione chirografica si è infatti imposta dopo l’invenzione della scrittura nel IV millennio a.C.; quindi la rivoluzione gutemberghiana è stata innescata dall’invenzione della stampa a caratteri mobili nel mezzo del xv secolo d.C., e la rivoluzione elettrica ed elettronica è sopraggiunta con l’invenzione del telegrafo, della valvola termoionica, e successivamente della radio e della televisione. Così in concomitanza con gli strumenti di comunicazione che sono stati di volta in volta utilizzati si distinguono almeno quattro tipi di culture pubbliche che si sono succedute nel corso degli ultimi seimila anni: la cultura orale, che utilizza per trasmettere i propri dati solo la parola parlata a un pubblico orale; la cultura manoscritta o chirografica; la cultura tipografica che sviluppa la tecnologia riproduttiva del libro attraverso la tecnica della stampa che produce il pubblico dei lettori; e infine la cultura dei media elettrici e elettronici dei tele-spettatori che amplia le informazioni a quasi tutta la sfera sensoriale, uditiva, visiva, e le invia in modo sempre più rapido e diluviale attraverso strumenti quali la radio e la televisione. Oggi abbiamo un addendum, ovvero la cultura dei media digitali e algoritmici dei tele-utenti.
Sincronizzazione
Un elemento chiave è la ‘sincronizzazione’, ovvero il fatto che le narrative condivise fungono da veri e propri metronomi sociali che letteralmente sincronizzano le singole narrative dei soggetti privati con una struttura di racconto unica e sociale. Ovvero quella che comunemente indichiamo come zeitgeist, traducibile come lo ‘spirito del tempo’, altro non è che una vera e propria ‘struttura del tempo comune’ che sincronizza le nostre esperienze all’interno di causalità e necessità comuni. Bruno Latour parla di ‘matter of concern’, che non tradurrei con un pedissequo ‘motivo di preoccupazione’, bensì con un più aperto ‘motivo di interesse’, ovvero il pubblico è laddove un racconto appassiona tutti. Ossia il pubblico è una sovvraposizione dei bisogni individuali intorno a narrative comuni e future, capaci di appassionare e quindi generare delle ‘comunita’ di significato, che assumono determinati caratteri e tendenze in funzione dei supporti tecnologici che veicolano queste stesse narrative.
Pubblico consumo e cultura
Ritornando ad Habermas, il formarsi di un pubblico colto che discute di letteratura e arte sarebbe in stretta relazione con lo sviluppo di una sfera privata, una sfera dell’intimità familiare borghese che si fondava essenzialmente sulla proprietà familiare in funzione paleo-capitalistica. La sua conservazione, l’accrescimento, l’ereditarietà costituivano il compito del privato come possessore di merci e capo della famiglia in una sola persona. Ma con la compenetrazione fra stato e società e con le conseguenti forti limitazioni poste alla piena disponibilità della proprietà e alla libertà a contrattare, la famiglia perde sempre di più le funzioni dell’allevamento e della protezione, dell’educazione, dell’assistenza, della guida, tradizione e orientamento: essa perde il suo potere di plasmare il comportamento di campi che erano considerati come i recessi più intimi della vita. Di conseguenza, la persona si trasforma in consumatrice di reddito e tempo libero, la cui essenza risiede oggi più nella capacità di fruizione dei servizi che nel potere decisionale dei possessori di beni. È questo il passaggio dal pubblico culturalmente critico al pubblico consumatore di cultura, che ha condotto alla commercializzazione della sfera pubblica. Di conseguenza i media mutano la loro funzione originaria da foro di pubblica discussione a strumento di manipolazione per la conquista del consenso di masse passive. Contemporaneamente la parcellizzazione dei media in social media frammentati e digitali produce una moltiplicazione dei piani di verità facendo nascere la post verità, ovvero il ‘fake’, e ciò non permette la stabilizzazione di una narrativa ‘verosimile’ condivisa da un corpo sociale maggioritario. Quello che avviene è una moltiplicazione dei piani di narrazione, laddove la gestione algoritmica dei flussi di comunicazione polarizza le verità producendo continui riverberi d’eco in cui una moltitudine di verità si confrontano, dando quindi espressione alla naturale tendenza all’aggressività umana e producendo una moltiplicazione esponenziale dei pubblici in un compiuto insieme di Villaggi Globali di mcluhaniana memoria.
Il venir meno di dispositivi di sincronizzazione sociale generali rappresenta quindi nel XXI secolo il venir meno della sovrapposizione tra bisogni individuali e soluzioni collettive, la società si frammenta in una moltitudine di verità pubbliche. Ciò rappresenta il tramonto di una società sincronizzata dove le persone diventavano adulte allo stesso modo, vivevano la geniatorialità allo stesso modo, ovvero mediante la famiglia nucleare, così come i grandi riti di passaggio quali la Paideia dello studio classico, il matrimonio d’elezione, la morte. Ovvero i grandi riti di passaggio ben descritti da Victor Turner, nel sempre attuale Dal Rito al Teatro, in cui viene codificata la vita come una ‘teatralità’ dell’essere che si trasforma senza essere quello che era senza ancora essere quello che sarà. Laddove nel passato il processo unico unificava e sincronizzava, mentre nel contemporaneo, venuta meno l’egemonia di massa di un medium, o di un insieme di media, sono dei processi eterogenei a farsi carico di un ‘pandemonio’ di storie dell’umano.
Dalla SRL/LTD al capitalismo pubblico
In questo ‘pandemonio’ di verosimiglianze e narrative emerge comunque una trama generata del sistema politico del XXI secolo che descrive una super-democrazia nell’ambito di una tendenza modernista occidentale, le cui correnti tecno-scientifiche, economiche, sociali e politiche sono sempre più interrelate da connessioni causali prodotte dalla fiction delle narrative di un ‘brand activism’, ovvero di un pubblico gestito dalle aziende che si è sostituito alle attività pubbliche degli stati nazionali. Il XXI secolo così appare caratterizzato dal rinnovamento della sfera pubblica dei governi con un ‘nuovo pubblico’ realizzato e gestito dalle corporation, è lo ‘stakeholder capitalism’. Questo tende a generare una cultura demo-burocratica fondata su zelanti memi ideologici che prestano i propri bias a una fiction fondata sul plot che vede l’industrializzazione alla base di una democratizzazione progressiva. Ciò produce cicli di rinforzo di una di teoria folkloristica di scienza sociale, secondo cui la maturazione delle società in direzione democratica è determinata dalle soglie di ricchezza come unico valore pubblico dell’essere umano. È importante comprendere l’evoluzione-mutazione del concetto di “valore” partendo dalla rappresentazione classica di “shareholder capitalism” nel quale la responsabilità sociale delle imprese, private e pubbliche, è unicamente quella di massimizzare i profitti nel concetto di creazione di valore condiviso che accompagna la nascita di un nuovo modello economico per le aziende. Non si tratta di filantropia, ma del concetto di responsabilità sociale che nasce dopo la Seconda Guerra Mondiale e si evolve poi nei decenni successivi con la scoperta di quanto sia fondamentale per le aziende considerare nella propria strategia anche gli altri stakeholder per obiettivi di sostenibilità e profitto. Ma è con gli anni duemila, con una maggiore attenzione al cambiamento climatico e con l’impegno effettivo delle Nazioni Unite per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), che lo “stakeholder capitalism” inizia a emergere in modo preponderante, destinandosi a guidare l’azione di aziende che si sostituiscono all’interesse pubblico. Lo stakeholder capitalism è stato citato nel Davos Manifesto del 2020 del World Economic Forum come nuovo modello di pubblico globale.
Le nuove ‘personalità giuridiche pubbliche’.
La centralità dell’azienda, ovvero della corporation o LTD, in Italia Società a Responsabilità Limitata, nasce con la costruzione di un mercato globale da parte dell’Inghilterra e della Francia del XVII secolo quando le società a responsabilità limitata, o Limited, si sono inserite negli accordi internazionali in modo da promuovere i loro interessi. Per capire il fenomeno bisogna osservare come le Società a Responsabilità Limitata furono formate in una sorta di libertà normativa con ciò che i loro inventori credevano fossero buone intenzioni nel diciassettesimo secolo, proprio come i moderni ingegneri del software hanno fatto alla fine del ventesimo secolo. Per questo i primi Statuti aziendali furono progettati per limitare la responsabilità di un investitore per la quantità dell’investimento necessario all’efficienza, in modo da incoraggiare il finanziamento di spedizioni rischiose in India e nel Sud-Est asiatico. Tuttavia, presto è emersa una conseguenza involontaria nota come azzardo morale: con un potenziale guadagno superiore alla quantità di qualsiasi possibile perdita ne è derivato un comportamento spericolato che ha innescato una serie di frodi spettacolari e un crollo del mercato che ha portato le società a essere temporaneamente bandite in Inghilterra nel 1720. Thomas Jefferson e altri leader degli Stati Uniti, consapevoli dell’esperienza inglese, erano profondamente sospettosi nei confronti delle società a responsabilità limitata, dando loro statuti limitati con poteri strettamente vincolati. Tuttavia, durante i disordini della Guerra Civile in America, gli industriali hanno approfittato dello scompiglio e sfruttato la diffusa corruzione politica per espandere la loro influenza. Il punto di svolta nel loro percorso arrivò nel 1886 quando la Corte Suprema Americana designò le corporazioni come “persone”, dandogli appunto “personalità giuridica”, che avevano diritto alle protezioni del Quattordicesimo Emendamento che erano state approvate per dare uguali diritti agli ex schiavi liberati dopo la Guerra Civile. Da allora, il predominio aziendale è stato ulteriormente rafforzato. Quindi noi viviamo un mondo in cui le multinazionali, le SRL in Italia e nel mondo LTD, sono consustanziali a delle persone, portando così a un implicarsi del privato nell’interesse pubblico producendo una ‘responsabilità apparentemente pubblica ma di fatto privata’.
Tre categorie per un nuovo pubblico ‘mediale’
Parallelamente un modello per produrre un paradigma comune è quello di rifarsi a categorie cogenti prodotte da ulteriori tre macrocategorie del XXI secolo. L’antropocene come epoca in cui una specie vivente egemone modifica la dimensione geologica del pianeta, il capitalocene come ente produttore della suddetta categoria, lo chtulucene come metafora di descrizione di un sistema oscuro dove l’algoritmo in maniera inconscia vive simbioticamente con l’umano, nel bene e nel male. In questo nuovo scenario quindi lo spazio pubblico si caratterizza oggi per il clima in quanto sistema di relazioni. Per una nuova idea di natura (postnatura) nell’antropocene, capitalocene, chthulucene. E avviene nei Territori intermedi dei nuovi centri (i non centri) urbani come descritti da Michele Cerruti But.
Homo Fictus
Questo approccio va unito a un approccio Naturalista, laddove l’essere umano oggi si potrebbe descrivere come un soggetto caratterizzato da Pulsioni sessuali; Aggressività; Socialità; Narratività e che definisco Homo Fictus. La pulsione sessuale viene descritta da Sigmund Freud quando teorizza la trieb-pulsione in sostituzione di uno stimolo rigido quale è l’istinto, e pone la più potente delle pulsioni nello stimolo sessuale fondato sulla libibo, come un’energia, una spinta a…, una forza ben descritta anche nel Simposio di Platone in cui l’eros è visto come la forza che unisce perché attrae l’uno verso l’altro. A questa pulsionalità unificante si aggiunge una tendenza naturale all’aggressività, ovvero l’espressione dinamica e centrifuga degli istinti di aggressione, distinti da quelli dell’Eros. Per cui siamo interessati dalla violenza, perché vi apparteniamo e pur abitandola sappiamo bene quanto e come dobbiamo evitarla. Quindi l’essere umano è un essere sociale che è costantemente impegnato a cercare di decodificare i segnali di appartenenza del gruppo e gli costa molto in termini di energia psichica prendere la parola per sostenere un’idea differente da quella egemone. Quindi tutto è organizzato all’interno della tendenza narrativa dell’umano (come ben ha capito e fatto il cristianesimo di Giovanni), infatti è l’unico animale che inventa storie su se stesso e ci crede, in questa narratività l’essere umano si configura come Homo Fictus, ovvero un essere che vive una continua simulazione narrativa delle possibilità del mondo, Hobbes dice che “l’umano è famelico anche della fame futura.”
Tendenze tecnico-pubbliche
E siccome oggi è l’epoca del compiersi della tecnica, laddove la tecnologia è l’insieme dei dispositivi, mentre la tecnica è la massima espressione del pensiero calcolante razionale, la cultura tecnica produce alcune tendenze che si sono insinuate profondamente nel pubblico dando vita e realtà a modelli archetipici di pensiero. Queste tendenze sono: (1) l’Eterogenesi dei fini, ovvero il fatto che il mezzo diventa il fine, ad esempio il denaro inventato per essere strumento del commercio per produrre la ricchezza si è trasformato in produzione di ricchezza tout-court; (2) la Potenza della tecnica, ovvero la tendenza tutta tecnica a ottenere il massimo dello scopo con l’utilizzo minimo dei mezzi, dimenticando il ruolo della vaghezza, dello sforzo, in un certo senso di qualsiasi deriva e di qualsiasi situazionismo; (3) la Dispositività tecnica ovvero il fatto che vengono fatte percepire scelte, ma che non sono scelte libere bensì vincolate ai comandi funzionali che ci sono forniti; (4) l’Etica della funzione che rappresenta la fine dell’etica dell’intenzione e del soggetto cristiano-moderno ponendo la questione se esista ancora il/un soggetto; e infine (5) la Metafisica della tecnica, nel senso della tendenza tecnica (metafisica) a innescare la separazione/enfatizzazione degli enti del mondo.
La struttura retorica : 3 momenti
Questo schema porta a un vero ‘costruttivismo radicale’, ovvero alla teoria di Einz Von Foerster e sopratutto Ernst Von Glasersfeld (1998) che l’essere umano vive all’interno di storie, ovvero narrative, che anche se distinte e divise generano un ambiente omogeneo condiviso che produce una normatività. Lo spazio pubblico quindi funziona come una “struttura retorica” che, pur generando un senso, non possiede alcun senso se non come struttura, ovverosia come relazione tra elementi interdipendenti, secondo la regola che si ‘comprende’ solo quello che ci ‘comprende’. Ciò può essere ulteriormente descritto secondo una formula espressa da tre “momenti retorici”. (I) Il primo è che non si può non comunicare, perché non esiste un qualcosa che sia una non comunicazione intesa come un non comportamento. È evidente che le parole, l’attività e addirittura il silenzio possiedono sempre valore di messaggio; influenzano gli altri e gli altri a loro volta rispondono a tale influenza. (II) Il secondo momento sta nel fatto che ogni comunicazione possiede sempre un aspetto di relazione, ciò implica che ci sia una risposta in quanto il primo movimento ricade sul secondo, nel senso che se non comunico sto comunque comunicando che non comunico e quindi sto generando un sistema di retroazione che a sua volta genera una struttura di messaggi e quindi di senso. (III) Il terzo momento risiede nell’evidenza che, successivamente al generarsi della suddetta struttura, appaiono delle costanti nel tempo, per cui si configurano proporzioni che diventano relazioni di senso nel tempo e generano quindi un sistema sociale (retorica). Siamo così il prodotto di una struttura che si autodetermina, che si riproduce indipendentemente da qualsivoglia intenzionale volontà e il cui sviluppo, correlato a quello delle forze produttive (di ogni data epoca e cultura), impone l’emergere di sovrastrutture di senso in forma retorica e non logica.
Sovranità tecnologica e consapevolezza
Essendo la struttura retorica e non logica diventa quindi centrale il controllo del dispositivo di veicolazione di tali relazioni retoriche e per questo bisogna mantenere la Sovranità tecnologica; i Beni e risorse comuni informatiche; l’Energia comune (per il funzionamento delle macchine); e sopratutto la formazione al pensiero tecnico. La condizione necessaria per la consapevolizzazione di questa sovranità, oggi così fondativa dell’umano, coincide con la capacità di cogliere oltre che nella retorica anche nella tecnica ciò che ne costituisce l’essere pubblico, di fatto mettendo al centro il concetto di sovranità pubblica. Riflettere sull’essenza della tecnica, comprendere il peculiare disvelamento pubblico ch’essa attua, cogliere in esso la dinamica in cui accade ciò che costituisce l’essere della verità pubblica, sono questi i compiti principali dell’essere umano come individuo del XXI secolo quindi come persona tecnica.
Arte pubblica
La teoria modernista dell’arte nell’incontro con il ruolo della tecnica ha influenzato l’estetica contemporanea specialmente con la speculazione di Marshall McLuhan che nel nostro paese è stata presentata tra i primi da Renato Barilli all’Università di Bologna e da Alberto Abruzzese all’Università di Roma. La figura dell’artista ha un ruolo fondamentale: “L’artista è l’uomo che in qualunque campo, scientifico o umanistico, afferra le implicazioni delle proprie azioni e della scienza del suo tempo. E’ l’uomo della consapevolezza integrale. Egli può correggere i rapporti tra I sensi prima che i colpi di una nuova tecnologia abbiano intorpidito i procedimenti coscienti.”(Mcluhan, 1971). E anche: “Se gli uomini riuscissero a convincersi che l’arte è una precisa conoscenza anticipata di come affrontare le conseguenze psichiche e sociali della prossima tecnologia, non diventerebbero forse tutti artisti? O non comincerebbero forse a tradurre con cura le nuove forme d’arte in carte di navigazione sociale?” Lo stesso era presente in Heidegger che sembra rappresentare l’ambito privilegiato per compiere un simile confronto con l’essenza della tecnica, dal momento che essa le è, per un verso, sommamente affine, per l’altro, lontana e distinta (dacché l’arte è una delle attività umane che meno si rapporta al reale nei termini dell’impiegabilità, ma lo fa, e molto, nei termini di identità e di evoluzione). Per questo motivo come scrisse Holderlin: quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva. E tutto ciò rappresenta a sua volta una interessante e forse centrale retorica di base del ‘pubblico’ del XXI secolo.
Conclusione appassionata
Per concludere, recuperando la distinzione proposta all’inizio tra una verità come correttezza della visione e del pensiero in quanto carattere del giudizio, e una verità come dimensione politica irrelata a ciò che è pubblico, possiamo definire il pubblico come lo spazio generativo del principio di verità, ovvero come l’istinto alla comunicazione umana che opera con lo schema tripartito della retorica umana. I tre momenti retorici dell’umanità producono, al di là dei soggetti, delle relazioni significanti che i racconti inquadrano in forme di verità condivise e per questo prese per vere. Il meccanismo principe è la compassione, ovvero il percepire profonde emozioni comuni, nel senso di condividere le emozioni come vero e proprio ‘spazio pubblico’. In questa accezione la storia produce molta più emozione che senso attraverso la compassione che genera – per un’umanità ‘polvere della storia’ – proprio quello spazio pubblico che certifica una verità vera, perché prodotta dalla appunto passione di tutta una comunità. Perché «senza lo sferragliante e inarrestabile macchinario delle emozioni tutto andrebbe in stallo. Non ci sarebbe nulla da fare, nessun luogo dove andare, niente da essere, nessuno da conoscere», perfetta definizione di come il pathos-dolore condiviso da una comunità sia alla base della produzione del pubblico. Emozioni di dolore-com/passione perché lo spazio pubblico della modernità occidentale è stato edificato sulle guerre di religione del XVI al XVII secolo con tutto il loro carico di morte e distruzione, sulle atrocità della rivoluzione francese con la celebrazione della ghigliottina, quindi sulle rivoluzioni ottocentesche. In questo atroce senso è stato costruito il XX secolo dall’immane massacro delle tempeste d’acciao della prima guerra mondiale (37 milioni, contando più di 16 milioni di morti e più di 20 milioni di feriti e mutilati) e dall’allucinante sterminio della seconda guerra mondiale con il suo osceno olocausto (un totale, tra militari e civili, compreso tra 60 milioni e più di 68 milioni di morti, di cui circa 15-17 milioni le vittime dell’Olocausto, tra cui 4-6 milioni di ebrei). Per questo le peggiori atrocità non sono da ricercare nella nostra mera immaginazione, piuttosto nelle tenebre della condizione umana. Come un fango miasmatico rovente e vischioso la storia umana è storia di orrori e terrori, incubi e ossessioni. E questo fango viene rimosso dalla coscienza per trasformarsi nel collante sociale perché come fecero gli gnostici si scorge in questo mondo qualcosa di spettrale, di sconosciuto, di insopportabile, «un orrore che va oltre l’umano e include tutto l’essere», che attraversa il cosmo, che intride ogni particella della terra producendo il mondo. È in questo senso che la verità del XX secolo è stata costruita nei cenotaffi dei morti di tutte le guerre della modernità. Quindi la realtà non ha una sua verità propria, ma si valida all’interno di uno spazio pubblico che è quello spazio emozionale prodotto dalla percezione emotiva degli eventi attraverso un sincronismo che è implicato dalla com-passione. Ovvero della com-partecipazione di tutti non a un senso razionale, bensì a un immane dolore che è esperienza traumatica, trauma sociale che assume caratteri di verità non in quanto è cosa che è, bensì in quanto è cosa che fa avvenire delle mutazioni nei nostri corpi – mutazioni chimiche, chimico-fisiche, ormonali, endo ormonali – di fatto attivando delle tropie emotive che ci incardinano a delle verità che altro non sono che la parte in comune di questa generale perfomance emotiva. Un immane dolore produce la verità. Non a caso glorifichiamo un torturato sulla croce, ovvero un mortale morto di una morte lenta, dolorosa e terrificante, esemplare per chi ne era testimone: per stillicidia emittere animam. Non a caso le chiese sono templi che glorificano il dolore inenarrabile di persone: San Lorenzo che fu gettato vivo sui carboni ardenti, San Sebastiano che fu ‘preso a frecciate’ e quando il suo corpo assomigliò a quello di un riccio, essendo ancora vivo, fu finito a bastonate. E su questi martiri fu edificata la cultura dell’Occidente cristiano e su questi ‘compatimenti pubblici’, resi tali da magnifici dipinti di arte cultuale (una delle forme più importanti di arte pubblica), grandi chiese e comunità oranti, furono educati i bambini nell’osservare settimanalmente le immagini e i resti dei santi nelle chiese. E lo stesso avvenne per i martiri ebrei nei musei aconfessionali della celebrazione dell’Olocausto, che di fatto agiscono come templi laici del dolore. E questa verità è una sensazione che cattura chi è testimone dell’atroce, ma che è anche evocabile attraverso il racconto, la rappresentazione, producendo quindi una ulteriore condivisione del piano di verità. In questa condivisione dell’orrore e del dolore si sincronizzano le menti e gli immaginari di una data comunità umana, realizzando così un’idea di vero e di reale. L’immensa macchina tecnologica della mitragliatrice, della perdita de ‘la meglio gioventù’, dei gas nervini, della sedia elettrica, delle V2, delle camere a gas, della bomba atomica hanno prodotto un immane e pubblico auto-da-fé simbolico che ha validato la verità moderna del XX secolo.
Possiamo così ipotizzare che attraverso l’approccio pubblico come validazione della verità si possano cambiare le regole della realtà, perché se si può pensare che la realtà sia natura non possiamo pensare di cambiarla in quanto la natura è quello che è, è evidenza che avviene secondo sue proprie regole. Ma nel momento in cui l’uomo inizia a giocare con la sua stessa specie e quindi produce il principio di pubblico, a quel punto genera attraverso il meccanismo della compassione uno spazio condiviso e quindi validato, spazio che può evolvere e mutare attraverso la narrazione e far nascere l’evoluzione umana. Ovvero la dimensione sociale del dolore, la compassione, produce il mondo che è la forma d’organo evolutiva dell’umano nella natura. Forma d’organo evolutiva perché permette all’umano di simulare, sperimentare continuamente nuovi mondi e di farlo appunto pubblicamente.
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