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XXI secolo: un approccio retorico all’idea di pubblico, per una teoria estetica della politica

Dopo i dialoghi tra Derrick de Kerckhove e Francesco Monico, tra Michele Cerruti But e Filippo Barbera e tra Paolo Naldini e Ezio Manzini che hanno introdotto il Convegno di ricerca Public!  a cura di Francesco Monico, Paolo Naldini, Michele Cerruti But presso Accademia Unidee (il racconto del convegno nel reportage di Marco Liberatore) ora apriamo una serie di approfondimenti sul concetto e sulle declinazioni di “pubblico”. Dopo un’analisi e un’interpretazione dell’intellettuale pubblico del filosofo Federico Campagna,  dopo “il sogno” narrativo proposto dall’architetto Maurizio Cilli sul concetto di pubblico come infrastruttura, dopo il concetto di pubblico come innovazione della pratica a cura dell’urbanista e attivista Elena Ostanel, un saggio sul rapporto con il pubblico visto dal punto di vista di un perfomer di Andrea Pagnes , un contributo della storica dell’arte, Gabi Scardi, e un intervento sull’architettura comunitaria di Mariana Pestana.  La serie trova infine la sua conclusione in un denso e ricco saggio di Francesco Monico.

Bene pubblico, ovvero tutto quello che è accessibile a tutti i cittadini e che ha regole condivise, quindi tutto ciò che fa di un individuo un cittadino; pertanto Ente pubblico come insieme di coloro che generano e gestiscono i beni pubblici, ma anche semplicemente Pubblico ovvero chi ‘osserva’, chi si ‘diverte’ (perché lo stare in società è anche e sopratutto divertimento).

Questo saggio si inserisce all’interno dell’attenzione per un regime democratico di una sfera pubblica funzionante e per ciò parte dalla teoria discorsiva della democrazia di Jurgen Habermas1Habermas J., 2001, (109).. Tuttavia l’aspetto più importante di questa riflessione è il superamento dell’idea che alla base di una sfera pubblica vi risieda un interesse di classe, al contrario viene proposta l’ipotesi che la sovranità che la sfera pubblica evidenzia sia una sovranità intesa come processo discorsivo che afferma la nascita di ogni potere politico dall’istinto comunicativo pubblico dei cittadini e che, dicendo ciò, tale potere si sposti dall’ambito politico tout-court a un’ambito estetico-relazionale che, pur comprensivo del politico, esprime più un potere immaginativo di fatto estendendo la dimensione politica a una problematica relativa a ciò che è vero, non è vero, a supposte verità o post verità.

L’età della tecnica

Il XXI secolo è l’età del furore di una tecnica e di una scienza sempre più incardinate in un binomio che ne esalta le tendenze razionali e funzionali. La tecnica è la massima espressione della razionalità e sostituisce all’intenzione la funzione. Si impone così un globale ambientato in un futuro presente, laddove una scissione dell’interiorità è destinata ad affermarsi con l’onnipresenza dell’algoritmo che processa quantità incalcolabili di dati. Una rivoluzione in esponenziale intensificazione che spinge la dimensione pubblica verso un logos digitale incardinato in una sovranità pubblica non più agita da quello che i greci chiamavano nous, ovvero un incantamento del mondo. Nell’Occidente egemone e creatore dell’algoritmizzazione di ogni cosa, e quindi capace della globalizzazione, è avvenuto un ‘furto d’organo’, un’amputazione mcluahniana dell’equilibrio sensoriale degli individui.

Mistica pubblica

Ciò ha sempre più reso caricatura e confinato in un discorso per iniziati, pazzi, fous, idiot e savants le esperienze artistiche, mistiche, sciamaniche, iniziatiche, sapienziali che erano sostrato euroasiatico e fondamento del pensiero greco e magnogreco2Tonelli A., 2021, (399-499)., in quanto campo di generazione e performazione di un’enciclopedia condivisa di saperi, pratiche, che generavano la comunità e lo spazio pubblico3Havelock E., 1973.. E ancora oggi, nel rispetto di una parte importante degli studi culturali e della filosofia, la cultura occidentale può essere definita greco-cristiana4Galimberti U., 2017; nel XIX secolo Frederich Nietzsche sostenne che la cultura greca non aveva nulla a che fare con il cristianesimo e che il cristianesimo non era altro che “Platone spiegato al popolo”., e proprio questa dimensione dà importanza a un pubblico che ri-assume le narrative condivise dalla comunità a cui appartiene. Qui si situa anche la questione della verità per come è stata impostata dalla cultura greca, da quella cristiana e quindi da quella occidentale contemporanea. Ovvero per la filosofia greca, dal famoso mito di Platone in poi, la verità è un carattere che l’essere umano assume come correttezza della visione e del pensiero in rapporto con una supposta intelligenza e/o razionalità, ovvero diventa un carattere del giudizio che si oppone alla falsità. Ma se la dimensione politica è irrelata a una problematica relativa a ciò che è pubblico, poichè il tipo di sovranità che la sfera pubblica evidenzia è intesa come processo discorsivo irrelato a un potere creativo-immaginativo, ecco che allora la verità non è un carattere che pertiene al giudizio, nemmeno un “valore conoscitivo” per la formazione e l’edificazione dell’umano, come vorrebbe il mai tramontato umanesimo antropocentrico; la verità è piuttosto un evento in cui l’essere umano è messo in gioco, coinvolto come compartecipazione e risiede nella parte comune del discorso pubblico nella misura in cui la verità diventa l’accadere stesso del pubblico nel soggetto, nel senso dell’accadere della sfera pubblica nell’essere umano.

L’origine cristiana dello spazio pubblico

La prima macchina culturale di cui abbiamo ininterrota testimonianza è la bibbia, una macchina mnemonico-narrativa, ovvero un libro, quindi con la rivoluzione industriale siamo passati a un mondo dove la memoria è creata dallo sguardo e dagli eventi di neomacchine genericamente definite media, quali il cinema e i social media5Dinoi M., 2008..

L’inizio della macchina culturale è legata all’opera di Giovanni Evangelista. “Il testimone” come amava essere chiamato compose uno dei testi fondanti della cultura cristiana: il Prologo del Vangelo secondo Giovanni. Tale brano, noto anche come Inno al Logos, racconta l’intero universo in pochi cenni. “In principio era il Logos e il Logos era presso Dio / e il Logos era Dio. Questi era in principio presso Dio. / Tutto è venuto a essere per mezzo di Lui, e senza di Lui, nulla è venuto a essere di ciò che esiste” (Giovanni 1:1-5)6La traduzione del “Prologo” fatta dai testi interconfessionali recita così: “ In principio, c’era colui che è “la Parola”. la Parola era con Dio, la Parola era Dio. Egli era al principio con Dio. Per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa. Senza di lui non ha creato nulla. Egli era la vita e la vita era luce per gli uomini. Quella luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”.. Giovanni situa la speculazione in un principio primo7Nell’acqua – Talete – , nell’ápeiron – Anassimandro – , nell’aria – Anassimene – , nel fuoco o nel logos – Eraclito – , nel numero – Pitagora – , nel dio-tutto – Senofane – nell’Essere – Parmenide – , nell’amore e nell’odio – Anassagora – , nel movimento degli atomi – Democrito – nel mondo delle idee – Platone – nel motore immobile – Aristotele. Giovanni si inserisce in continuità a questa speculazione e identifica il Messia, ovvero l’entità, l’essere, appunto l’arché con un racconto-logos che la chiesa traduce come “parola” di Dio. che viene identificato con una forma logico-discorsiva, ovvero con una partecipazione al mondo attraverso costrutti narrativi8Mi sento in dovere di precisare che il Prologo è di cultura ebraica, non greca, ed è parallelo a uno dei testi della Genesi. La Parola utilizzata è “ruah”, respiro (lo stesso che, sempre in Giovanni, emette Gesù sulla croce). È il respiro a creare la vita tramite la parola- una parola che in ebraico è sempre un atto performativo (alla Austin). “logos” è una traduzione corretta ma secondo molti esegeti è fuorviante. . È infatti l’identità messia-logos a confermare l’attesa di un personaggio concettuale maestro delle narrative pubbliche9Come da nota precedente si potrebbe desumere, certo che in molti lo facciano, che le dimensioni narrative o logico-discorsive, qui non centrino niente. Posizione assolutamente accettabile e sicuramente ben più autorevole della mia, tuttavia è una personale interpretazione che propongo, la mia ‘fascinazione’ sul parallelo tra il Messia e il personaggio concettuale che resta incarnato in noi dopo averne avuto esperienza tramite il racconto della sua vita e l’annuncio del suo ritorno.. Con l’operazione cristiana l’immaginario occidentale moderno10L’Occidente nasce cristiano e la cultura tra VII secolo e XX è interamente cristiana. si incardina all’attesa di un avvenire, mediante il racconto pubblico della vita di Gesù che con la sua parola, è sia vero ‘novum storico’ dei nuovi tempi, sia anticipazione dell’apocalisse da intendersi come un evento che è sia da narrare che simultaneamente già narrato, quindi pubblico per eccellenza. Infatti la presenza della figura del Messia già racconta della fine del racconto all’interno del racconto stesso11Prendiamo le differenti traduzioni dei primi due versi del Prologo. La traduzione più diffusa dei passi 1, 1-2, è quella della Nuova Diodati: “In principio era il Verbo”, assieme a quello della Vulgata, C.E.I., Reina Valera è “il Verbo era Dio”. Nel 1382-1395 la cosiddetta Wycliffe’s Bible traduce “In principio fu la Parola, e la Parola era con Dio, e Dio era la Parola”. Nel 1808 Thomas Belsham in The New Testament, in An Improved Version, riporta: “e la parola era un dio” – Nel 1864 The Emphatic Diaglott di Benjamin Wilson traduce: “e dio era la Parola”. Nel 1867 The Joseph Smith Translation of the Bible riporta: “E il Vangelo era la Parola, e la Parola era con il Figlio, e il Figlio era con Dio, e il Figlio era di Dio”. Nel 1935 secolo John M. P. Smith e Edgar J. Goodspeed in The Bible – An American Translation riportano: “e la Parola era divina”. Nel 1975 Siegfried Schulz in Das Evangelium nach Johannes traduce “e un dio (o, di specie divina) era la Parola”; nel 1978 Johannes Schneider in Das Evangelium nach Johannes “e di una sorta simile a Dio era il lógos”, ancora più diretto Jürgen Becker nel 1979 in Das Evangelium nach Johannes, “e un dio era il lógos”. Nel 2015 i Testimoni di Geova nella Watch Tower Bible and Tract Society of Pennsylvania traducono: “In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era un dio”. Questa nota è contestata dal mio collega Michele Cerruti But il quale sostiene che non abbia senso parlare di traduzioni perché il Vangelo è il testo che ha in assoluto più fonti e le traduzioni non sono solo esercizi di traduzione, ma scelta rispetto ai manoscritti, ai papiri, etc. A suo parere un lavoro scientifico può solo riferirsi al Nestle-Aland, alla sua 28ma edizione, lavoro che è frutto di un gruppo di ricerca vastissimo, che tiene conto dei vari cristianesimi e delle diverse tradizioni. Non essendo uno specialista delle scritture ne recepisco la posizione e la condivido qui per correttezza e oggettività scientifica.. Così il Prologo fonda la cultura occidentale perché da qui in poi tutto diventa racconto pubblico per un migliorarsi verso una fine certa e data. Perché le parole di un enunciato si raggruppano fra loro attraverso relazioni semantiche per quanto riguarda il significato. Un campo semantico infatti definisce l’insieme di tutti i lessemi connessi a livello sintagmatico e paradigmatico in un dato sistema linguistico. Da qui nasce una nozione-immagine implicitamente escatologica, costituitasi nel plesso della teologia della storia cristiana, che dopo l’avvento dell’Illuminismo nel XVIII secolo chiamiamo progresso (con la sua accezione mistica dell’innovazione) e che si fonda a doppia mandata proprio sulla pratica di una metafisica della rivelazione che implica il vero e non il reale nei termini di un dispositivo avverante ancora e sempre pubblico.

Quindi l’incontro definitivo tra le due culture greca e cristiana si ebbe con Paolo di Tarso (I d.C.): “Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato un altare sul quale era scritto: ‘Al dio sconosciuto’”. Con questa frase Paolo si appropria di una scritta su un tempio di Atene che si rivolgeva alla pratica di accordare considerazione a tutti gli dei possibili. Facendo ciò porta il racconto del Dio unico a un livello di astrazione che lo pone nel cuore e nell’essenza del racconto ovvero di una narrazione che può e deve essere metaforica non vincolata al reale, ma che proprio per questa dimensione metafisica e retorica assume caratteri di possibilità e quindi di realtà. Dunque è Luca a scrivere: “Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; […] Difatti, in lui viviamo, ci muoviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: “Poiché siamo anche sua discendenza”12At 17, 16-31..

È quindi uno scrittore romano, Tertulliano, a domandare: “Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l’Accademia e la Chiesa?”13Tertulliano, Dph, VII, 9.. Ebbene hanno in comune il concetto di persona, termine che deriva dal greco prósôpon (πρóσωπον) e dall’etrusco phersu che sta per “maschera dell’attore”, “personaggio”14Il testo qui è oltremodo ambizioso e audace perché affronta il concetto di persona che nella teologia trinitaria e nella cristologia contemporanea è stato affrontato da circa duemila anni di dibattito. A titolo di spiegazione personalmente mi rifaccio a J. Galot che, senza vergogna, confido anche perché di lettura molto accessibile per un non specialista come me, in particolare la tesi sulla persona esposta nella sua cristologia; egli infatti presenta una “nuova cristologia” presa dal teologo domenicano Schillebeeckx, che qualifica come “cristologia dal basso”, ovvero la persona divina, intratrinitaria, come “relazione”, nel senso di fonte e capacità di relazioni tra gli esseri umani cristiani. Questa stessa persona divina del Figlio, che è “essere relazionale”, con la sua capacità di relazione estende anche orizzontalmente relazioni con le altre persone create, gli uomini, grazie al mistero dell’incarnazione. Inoltre nell’appoccio che arditamente propongo ci sono due elementi che entrano nel concetto di persona, e non si possono disgiungere mai da questa nozione: l’unità di un soggetto e la relatività all’altro. Due aspetti che rappresenterebbero l’individualità e la socialità, come i due elementi che caratterizzano la persona, che la costituiscono. Devo comunque segnalare che molti teologi si oppongono fortemente a identificare soggetto-relazione con individuo-socialità, proprio per il rifiuto del termine individuo. Ed è altresì indubitalie che nella teologia cattolica contemporanea il concetto di persona si differenzia nettamente dai concetti di “individuo” e di “sociale”. Sopratutto nella teologia trinaitaria contemporanea il concetto di individuo non esaurisce il suo significato nel concetto di persona, perché individuo indica molti altri esseri, anche non personali; tuttavia sociale, almeno in certi modi di pensare, indica ciò che è descrivibile a livello di comportamenti generalizzati: in questo senso il concetto che esprime meglio le persone è quello di “comunione” o “comunità”, che è esattamente lo stesso senso che spero di riuscire a comunicare in questo saggio, potrei dire quindi ‘spazio pubblico mediato da persona/phersu che è comunità’.. Questa etimologia rinforza il valore  narrativo, pubblico e finzionale della costruzione filosofica cristiana, infatti descrive Dio come unico e distinto in persone divine che sono “relazioni sussistenti”, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che allo stesso modo di ogni essere umano rendono pubblica la natura umana, ma in modalità distinta dal pubblico nella sua finzione di persona. Per questo la partecipazione pubblica alla natura dell’essere umano è un derivato dalle narrative che si instaurano tra le dimensioni di “persone” degli uomini e delle donne, e questi racconti pubblici sono propri del Dio che quindi, con i suoi esempi15Qui confesso che sarebbe importante e necessario approfondire Karl Rahner nelle sue letture sulla esemplarità o meno del testo sacro. Anche Von Balthasar, sullo stesso punto., il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, diventa motore di una narrazione (la teoria dell’ispirazione nel cristianesimo è molto precisa: Dio “non detta” il testo sacro, e neanche lo consegna come nell’islam, qui la narrazione è intesa come racconto tramandato) che soprassiede all’interpretazione pubblica dell’essere umano in quanto generazione di un piano di verità comune. Pertanto mediante il racconto l’essere umano si fa personaggio di una storia pubblica e diventa persona, ovvero si lega a delle verità condivise pubblicamente. Tertulliano introduce anche la pratica che le verità pubbliche vadano sostenute con convinzione tanto maggiore quanto risultino incomprensibili alla ragione; tesi riassunta nell’espressione “Credo perché è assurdo”. In realtà la frase esatta pronunciata da Tertulliano era: “…prorsus credibile est, quia ineptum est”, che si traduce con: “…che è del tutto credibile, perché è del tutto incredibile”16Tertulliano, DCC, cap. V.. Dal mio punto di vista spronando a credere nelle storie anche quando non supportate da fatti, ma da astrazioni retoriche come un Dio mono-poli-teista, uno e trino17Anche questa affermazione è stata contestata dal collega Prof. Michele Cerruti But in quanto “l’intento di Tertulliano era un altro e non lo si può smontare come ha fatto Nietzsche, cioè usando categorie contemporanee per rileggere testi che si occupavano di altro. Tertulliano non aveva a cuore la spiegazione tra fides et ratio, anche se apre il dibattito. Quindi sostenere che Tertulliano introduce “a pratica che le verità pubbliche vadano sostenute con convinzione tanto maggiore quanto risultino incomprensibili alla ragione” significa violentare Tertulliano. Il lunghissimo dibattito su Fede e ragione è ben più profondo, e arriva anche a dire “Homo capax Dei” (Tommaso), o a fondamenti di ragione già prekantiani in Scoto.” La mia affermazione non è un sostenere una proposizione interpetativa storica o accreditata bensì è una interpretazione autoriale all’interno del siscorso che sviluppo in questo saggio..

Tra il IV e V secolo è San Girolamo a tradurre in latino il termine logos con “Verbum”; da allora il concetto di Logos di Giovanni viene tradotto come “il Verbo”, che quindi si traduce come “la parola”. Qui centrando in pieno l’insieme pubblico, parola, condivisione, verità18Anche se qui potrebbe non avere senso parlare di traduzioni perché il Vangelo è il testo che ha in assoluto più fonti e le traduzioni non sono solo esercizi di traduzione, ma scelta rispetto ai manoscritti, ai papiri, etc. in quanto potrebbe esserci stata una traduzione-tradimento dall’ebraico. Anche in questo caso è una mia interpretazione non il risultato di uno studio filosogico-storico e men che meno esegetico..

È quindi Origene Adamantio a determinare un salto di qualità inquadrando la teologia cristiana come l’interpretazione pubblica di un racconto finalizzato alla comprensione di un significato che proprio perché pubblico e condiviso, diventa vero19Due sono le idee principali alle quali collego l’argomentare teologico di Origene (De Principiis): l’assoluta trascendenza e inconoscibilità di Dio e la centralità del Logos. Origene si rifà al prologo di Giovanni, ove Dio si autorivela nel Logos-Dio: Egli appare agli uomini rendendo così possibile la conoscenza del Padre. Il Logos, tuttavia, non rivela il Padre solo nel momento dell’incarnazione; molte, infatti sono le occasioni e le modalità: la prima in ordine temporale è quella in cui espleta la sua attività creatrice. Ovvero la realtà sensibile è simbolo di quella trascendente e intelligibile; l’ordinamento del cosmo, dunque, è in qualche misura già rivelazione del Logos.. Origene è il primo a dichiarare che la condotta pubblica di vita deve corrispondere alla dimensione del racconto del Cristo, arrivando a una dimensione consustanziale, homooùsios, tra il senso di realtà e la storia che la precede e informa, raggiungendo così la verità. Così con l’identità pubblica tra storia e realtà viene implicata una determinazione di questa stessa realtà pubblica nella storia che precede, informa e definisce proprio la verità. Ciò riesce perché il rapporto di processione esistente fra le tre Persone della Trinità, è da leggersi in un’ottica non di piena parità, ma di subordinazione del Figlio rispetto al Padre; che altro non è che la subordinazione del prodotto del racconto, il figlio, rispetto al racconto stesso, il padre, e appunto della verità che è lo spirito santo. Di conseguenza secondo questa interpretazione, da Origene, ereditando la centralità del Logos di Giovanni e la speculazione di Tertulliano, incardina al centro del fenomeno occidentale moderno il racconto, addirittura facendo originare l’essenza stessa della verità nell’identificazione-sincronizzazione di una persona pubblica con un racconto pubblico.

In conclusione prendiamo la speculazione del maggiore esponente della Patristica, Sant’Agostino, e osserviamo che la relazione racconto-persona, dimensione finzionale-verosimile, risiede all’origine dell’immaginario pubblico occidentale. Infatti Agostino riprendendo soprattutto da Plotino il tema delle tre nature o ipostasi divine – Uno, Intelletto e Spirito – e identificandole con le tre Persone della Trinità cristiana – il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e concependo il loro rapporto di processione reciproca, opera una sintesi tra la filosofia greca e la fede cristiana, si viene a creare così un sistema di relazioni atto a produrre, giustificare e sostenere schemi narrativi. Ciò anche e sopratutto perché oggi è dimostrato che ci sono dei limiti oltre i quali la ragione non può andare, ma dove può invece arrivare la retorica di un personaggio concettuale il quale accompagnato dalla sospensione dell’incredulità, in questo senso quindi dalla credenza, riesce a determinare costrutti viabili per tutti, ovvero pubblici. Se nella filosofia greca c’era una visione circolare della storia, il cristianesimo con il suo raccontare, il suo logos, introduce la visione lineare del tempo e dunque di una storia unica e fa diventare la storia-racconto il percorso di una verità condivisa, quindi ponendo una verità che si realizza solo dopo la morte, ergo nell’immaginario20Eliade M., 1969. La teologia cristiana con Agostino introduce uno schema narrativo dualistico della lotta tra bene e male e lo situa nella storia ponendo solide fondamenta al racconto, il logos dell’essere umano occidentale.

Il post-scriptum è l’opera di Boezio, uno dei fondatori della filosofia cristiana medievale, che definì due tipi di persone: gli intellettibili che sono esseri immateriali, concepibili solo dall’intelletto, senza l’ausilio dei sensi, come Dio, gli angeli, le anime; e gli intelligibili che sono invece gli intellettibili calati nelle realtà materiali, le quali vengono percepite dai sensi pur essendo sempre concepibili dall’intelletto. Perché questo schema funzionasse era fondamentale, di nuovo e ancora, un comune pensiero storico-sociale come base pubblica e immutabile per tutti, substrato su cui appoggiare e accordare i personaggi intellettibili, la natura e i personaggi intelleggibili, un territorio mentale pubblico condiviso dove le esperienze e l’immaginazione potessero appunto assumere carattere di verità pubblica.

La speranza di un futuro

Così la teologia cristiana si realizza nella forma propria del pubblico in quanto narrazione, all’interno di una pretesa veritativa, una comune verità, fondata su un principio pubblico di sincronizzazione umano. I greci conoscono l’uomo come “il mortale”, donde la visione tragica del greco perché l’uomo non può vivere se non costruendosi un pubblico in vista della morte che è l’implosione di ogni senso appunto nella memoria pubblica. Ma il cristianesimo, annunciando l’immortalità dell’anima, oltrepassa di gran lunga questa dimensione tragica e introduce nella cultura dell’Occidente, una carica di ottimismo incredibile. Infatti se l’uomo non muore, se il futuro è sempre un futuro di speranza, se c’è un oltrepassamento della dimensione tragica, perché la costruzione di senso che ciascuno conferisce alla propria vita è una testimonianza, allora la vita diventa qualcosa di positivo, qualcosa che risiede nella condivisione pubblica di un ottimismo: la speranza di un futuro21Bloch E., (1954–1959),1994 e Moltmann J., 1970;.

Culture, supporti e pubblici

Certo è che tali narrative sono sempre state, anche e sopratutto, la modulazione che i supporti della comunicazione di volta in volta egemoni implicavano: così c’è una modulazione narrativa orale, da cui una dimensione pubblica orale, una modulazione narrativa chirografica, da cui una dimensione pubblica scritta, una modulazione narrativa stampata, quindi radiofonica, cinematografica e televisiva22Havelock E., (1963),1973.. Nell’ambito della riflessione sui media, la figura dello studioso canadese Marshall McLuhan rappresenta una delle più importanti voci, avendo elaborato quella che viene considerata la più diffusa teoria generale sui media23McLuhan M., (1963),1976.. Il suo pensiero può essere inserito nell’ambito di quella corrente definita determinismo tecnologico; egli infatti riteneva che le tecnologie che si sono imposte in alcuni periodi storici abbiano avuto un ruolo fondamentale nel determinare le componenti principali della società: “Le società sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione. […]”24McLuhan M., Fiore Q., (1967), 1968, (8).. Questo perché secondo il critico letterario canadese ogni medium amplifica selettivamente le potenzialità fisiche, intellettuali, sensoriali e cognitive dell’individuo modificando di conseguenza le strutture pubbliche della società in cui vive. Infatti in quanto estensioni del nostro sistema fisico e nervoso, i media costituiscono un vero e proprio sistema di interazioni biochimiche che deve cercare un nuovo equilibrio ogni volta che sopraggiunge un nuovo mezzo di comunicazione. La rivoluzione chirografica si è infatti imposta dopo l’invenzione della scrittura nel IV millennio a.C.; quindi la rivoluzione gutemberghiana è stata innescata dall’invenzione della stampa a caratteri mobili nel mezzo del xv secolo d.C., e la rivoluzione elettrica ed elettronica è sopraggiunta con l’invenzione del telegrafo, della valvola termoionica, e successivamente della radio e della televisione. Così in concomitanza con gli strumenti di comunicazione che sono stati di volta in volta utilizzati si distinguono almeno quattro tipi di culture pubbliche che si sono succedute nel corso degli ultimi seimila anni: la cultura orale, che utilizza per trasmettere i propri dati solo la parola parlata a un pubblico orale; la cultura manoscritta o chirografica; la cultura tipografica che sviluppa la tecnologia riproduttiva del libro attraverso la tecnica della stampa che produce il pubblico dei lettori; e infine la cultura dei media elettrici e elettronici dei tele-spettatori che amplia le informazioni a quasi tutta la sfera sensoriale, uditiva, visiva, e le invia in modo sempre più rapido e diluviale attraverso strumenti quali la radio e la televisione. Oggi abbiamo un addendum, ovvero la cultura dei media digitali e algoritmici dei tele-utenti.

Sincronizzazione

Un elemento chiave è la ‘sincronizzazione’, ovvero il fatto che le narrative condivise fungono da veri e propri metronomi sociali che letteralmente sincronizzano le singole narrative dei soggetti privati con una struttura di racconto unica e sociale. Ovvero quella che comunemente indichiamo come zeitgeist, traducibile come lo ‘spirito del tempo’, altro non è che una vera e propria ‘struttura del tempo comune’ che sincronizza le nostre esperienze all’interno di causalità e necessità comuni. Bruno Latour parla di ‘matter of concern’, che non tradurrei con un pedissequo ‘motivo di preoccupazione’, bensì con un più aperto ‘motivo di interesse’, ovvero il pubblico è laddove un racconto appassiona tutti. Ossia il pubblico è una sovvraposizione dei bisogni individuali intorno a narrative comuni e future, capaci di appassionare e quindi generare delle ‘comunita’ di significato, che assumono determinati caratteri e tendenze in funzione dei supporti tecnologici che veicolano queste stesse narrative.

Pubblico consumo e cultura

Ritornando ad Habermas, il formarsi di un pubblico colto che discute di letteratura e arte sarebbe in stretta relazione con lo sviluppo di una sfera privata, una sfera dell’intimità familiare borghese che si fondava essenzialmente sulla proprietà familiare in funzione paleo-capitalistica. La sua conservazione, l’accrescimento, l’ereditarietà costituivano il compito del privato come possessore di merci e capo della famiglia in una sola persona. Ma con la compenetrazione fra stato e società e con le conseguenti forti limitazioni poste alla piena disponibilità della proprietà e alla libertà a contrattare, la famiglia perde sempre di più le funzioni dell’allevamento e della protezione, dell’educazione, dell’assistenza, della guida, tradizione e orientamento: essa perde il suo potere di plasmare il comportamento di campi che erano considerati come i recessi più intimi della vita. Di conseguenza, la persona si trasforma in consumatrice di reddito e tempo libero, la cui essenza risiede oggi più nella capacità di fruizione dei servizi che nel potere decisionale dei possessori di beni. È questo il passaggio dal pubblico culturalmente critico al pubblico consumatore di cultura, che ha condotto alla commercializzazione della sfera pubblica. Di conseguenza i media mutano la loro funzione originaria da foro di pubblica discussione a strumento di manipolazione per la conquista del consenso di masse passive. Contemporaneamente la parcellizzazione dei media in social media frammentati e digitali produce una moltiplicazione dei piani di verità facendo nascere la post verità, ovvero il ‘fake’, e ciò non permette la stabilizzazione di una narrativa ‘verosimile’ condivisa da un corpo sociale maggioritario. Quello che avviene è una moltiplicazione dei piani di narrazione, laddove la gestione algoritmica dei flussi di comunicazione polarizza le verità producendo continui riverberi d’eco in cui una moltitudine di verità si confrontano, dando quindi espressione alla naturale tendenza all’aggressività umana e producendo una moltiplicazione esponenziale dei pubblici in un compiuto insieme di Villaggi Globali di mcluhaniana memoria.

Il venir meno di dispositivi di sincronizzazione sociale generali rappresenta quindi nel XXI secolo il venir meno della sovrapposizione tra bisogni individuali e soluzioni collettive, la società si frammenta in una moltitudine di verità pubbliche. Ciò rappresenta il tramonto di una società sincronizzata dove le persone diventavano adulte allo stesso modo, vivevano la geniatorialità allo stesso modo, ovvero mediante la famiglia nucleare, così come i grandi riti di passaggio quali la Paideia dello studio classico, il matrimonio d’elezione, la morte. Ovvero i grandi riti di passaggio ben descritti da Victor Turner, nel sempre attuale Dal Rito al Teatro, in cui viene codificata la vita come una ‘teatralità’ dell’essere che si trasforma senza essere quello che era senza ancora essere quello che sarà25Turner V., 1982.. Laddove nel passato il processo unico unificava e sincronizzava, mentre nel contemporaneo, venuta meno l’egemonia di massa di un medium, o di un insieme di media, sono dei processi eterogenei a farsi carico di un ‘pandemonio’ di storie dell’umano.

Dalla SRL/LTD al capitalismo pubblico

In questo ‘pandemonio’ di verosimiglianze e narrative emerge comunque una trama generata del sistema politico del XXI secolo che descrive una super-democrazia nell’ambito di una tendenza modernista occidentale, le cui correnti tecno-scientifiche, economiche, sociali e politiche sono sempre più interrelate da connessioni causali prodotte dalla fiction delle narrative di un ‘brand activism’, ovvero di un pubblico gestito dalle aziende che si è sostituito alle attività pubbliche degli stati nazionali. Il XXI secolo così appare caratterizzato dal rinnovamento della sfera pubblica dei governi con un ‘nuovo pubblico’ realizzato e gestito dalle corporation, è lo ‘stakeholder capitalism’. Questo tende a generare una cultura demo-burocratica fondata su zelanti memi ideologici che prestano i propri bias a una fiction fondata sul plot che vede l’industrializzazione alla base di una democratizzazione progressiva. Ciò produce cicli di rinforzo di una di teoria folkloristica di scienza sociale, secondo cui la maturazione delle società in direzione democratica è determinata dalle soglie di ricchezza come unico valore pubblico dell’essere umano26Fisher M., (2009), 2018.. È importante comprendere l’evoluzione-mutazione del concetto di “valore” partendo dalla rappresentazione classica di “shareholder capitalism” nel quale la responsabilità sociale delle imprese, private e pubbliche, è unicamente quella di massimizzare i profitti nel concetto di creazione di valore condiviso che accompagna la nascita di un nuovo modello economico per le aziende27Schwab K., 2019.. Non si tratta di filantropia, ma del concetto di responsabilità sociale che nasce dopo la Seconda Guerra Mondiale e si evolve poi nei decenni successivi con la scoperta di quanto sia fondamentale per le aziende considerare nella propria strategia anche gli altri stakeholder per obiettivi di sostenibilità e profitto. Ma è con gli anni duemila, con una maggiore attenzione al cambiamento climatico e con l’impegno effettivo delle Nazioni Unite per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), che lo “stakeholder capitalism” inizia a emergere in modo preponderante, destinandosi a guidare l’azione di aziende che si sostituiscono all’interesse pubblico. Lo stakeholder capitalism è stato citato nel Davos Manifesto del 2020 del World Economic Forum come nuovo modello di pubblico globale28Nell’agosto del 2019 è stato definito il faro del capitalismo contemporaneo dal Business Roundtable, un’associazione che raccoglie i 180 ceo delle più importanti aziende statunitensi. E tantissimi dirigenti di alto livello hanno giurato fedeltà ai suoi principi. In molti si sono impegnati a proteggere gli stakeholder dai rischi creati dalla pandemia. Tra questi Larry Fink, ceo di BlackRock – la più grande società di investimento al mondo, un’azienda che possiede il mondo, essendo proprietaria maggioritaria di Apple, Microsoft, Amazon, e delle più grandi banche americane – che così dichiara: “Nel mondo Covid, lo stakeholder capitalism sta diventando sempre più importante”, L. Fink, 2022..

Le nuove ‘personalità giuridiche pubbliche’.

La centralità dell’azienda, ovvero della corporation o LTD, in Italia Società a Responsabilità Limitata, nasce con la costruzione di un mercato globale da parte dell’Inghilterra e della Francia del XVII secolo quando le società a responsabilità limitata, o Limited, si sono inserite negli accordi internazionali in modo da promuovere i loro interessi. Per capire il fenomeno bisogna osservare come le Società a Responsabilità Limitata furono formate in una sorta di libertà normativa con ciò che i loro inventori credevano fossero buone intenzioni nel diciassettesimo secolo, proprio come i moderni ingegneri del software hanno fatto alla fine del ventesimo secolo. Per questo i primi Statuti aziendali furono progettati per limitare la responsabilità di un investitore per la quantità dell’investimento necessario all’efficienza, in modo da incoraggiare il finanziamento di spedizioni rischiose in India e nel Sud-Est asiatico. Tuttavia, presto è emersa una conseguenza involontaria nota come azzardo morale: con un potenziale guadagno superiore alla quantità di qualsiasi possibile perdita ne è derivato un comportamento spericolato che ha innescato una serie di frodi spettacolari e un crollo del mercato che ha portato le società a essere temporaneamente bandite in Inghilterra nel 1720. Thomas Jefferson e altri leader degli Stati Uniti, consapevoli dell’esperienza inglese, erano profondamente sospettosi nei confronti delle società a responsabilità limitata, dando loro statuti limitati con poteri strettamente vincolati. Tuttavia, durante i disordini della Guerra Civile in America, gli industriali hanno approfittato dello scompiglio e sfruttato la diffusa corruzione politica per espandere la loro influenza. Il punto di svolta nel loro percorso arrivò nel 1886 quando la Corte Suprema Americana designò le corporazioni come “persone”, dandogli appunto “personalità giuridica”, che avevano diritto alle protezioni del Quattordicesimo Emendamento che erano state approvate per dare uguali diritti agli ex schiavi liberati dopo la Guerra Civile. Da allora, il predominio aziendale è stato ulteriormente rafforzato29Culminando nel famoso caso Citizen United del 2010, che ha revocato le restrizioni sulle spese politiche da parte delle multinazionali e LTD per sostenere i gruppi o candidati alle elezioni.. Quindi noi viviamo un mondo in cui le multinazionali, le SRL in Italia e nel mondo LTD, sono consustanziali a delle persone, portando così a un implicarsi del privato nell’interesse pubblico producendo una ‘responsabilità apparentemente pubblica ma di fatto privata’.

Tre categorie per un nuovo pubblico ‘mediale’

Parallelamente un modello per produrre un paradigma comune è quello di rifarsi a categorie cogenti prodotte da ulteriori tre macrocategorie del XXI secolo. L’antropocene come epoca in cui una specie vivente egemone modifica la dimensione geologica del pianeta30Crutzen P., Stoermer E. F., 2000., il capitalocene come ente produttore della suddetta categoria31Moore J. W., (2016), 2017., lo chtulucene come metafora di descrizione di un sistema oscuro dove l’algoritmo in maniera inconscia vive simbioticamente con l’umano, nel bene e nel male32Haraway D., (2016), 2019;. In questo nuovo scenario quindi lo spazio pubblico si caratterizza oggi per il clima in quanto sistema di relazioni. Per una nuova idea di natura (postnatura) nell’antropocene, capitalocene, chthulucene. E avviene nei Territori intermedi dei nuovi centri (i non centri) urbani come descritti da Michele Cerruti But33Cerruti But M., (2020)..

Homo Fictus

Questo approccio va unito a un approccio Naturalista, laddove l’essere umano oggi si potrebbe descrivere come un soggetto caratterizzato da Pulsioni sessuali; Aggressività; Socialità; Narratività e che definisco Homo Fictus. La pulsione sessuale viene descritta da Sigmund Freud quando teorizza la trieb-pulsione in sostituzione di uno stimolo rigido quale è l’istinto, e pone la più potente delle pulsioni nello stimolo sessuale fondato sulla libibo, come un’energia, una spinta a…, una forza ben descritta anche nel Simposio di Platone in cui l’eros è visto come la forza che unisce perché attrae l’uno verso l’altro. A questa pulsionalità unificante si aggiunge una tendenza naturale all’aggressività, ovvero l’espressione dinamica e centrifuga degli istinti di aggressione, distinti da quelli dell’Eros. Per cui siamo interessati dalla violenza, perché vi apparteniamo e pur abitandola sappiamo bene quanto e come dobbiamo evitarla. Quindi l’essere umano è un essere sociale che è costantemente impegnato a cercare di decodificare i segnali di appartenenza del gruppo e gli costa molto in termini di energia psichica prendere la parola per sostenere un’idea differente da quella egemone. Quindi tutto è organizzato all’interno della tendenza narrativa dell’umano (come ben ha capito e fatto il cristianesimo di Giovanni), infatti è l’unico animale che inventa storie su se stesso e ci crede, in questa narratività l’essere umano si configura come Homo Fictus, ovvero un essere che vive una continua simulazione narrativa delle possibilità del mondo, Hobbes dice che “l’umano è famelico anche della fame futura.”34Hobbes T., De homine, cap. X, § 3.

Tendenze tecnico-pubbliche

E siccome oggi è l’epoca del compiersi della tecnica, laddove la tecnologia è l’insieme dei dispositivi, mentre la tecnica è la massima espressione del pensiero calcolante razionale, la cultura tecnica produce alcune tendenze che si sono insinuate profondamente nel pubblico dando vita e realtà a modelli archetipici di pensiero. Queste tendenze sono: (1) l’Eterogenesi dei fini, ovvero il fatto che il mezzo diventa il fine, ad esempio il denaro inventato per essere strumento del commercio per produrre la ricchezza si è trasformato in produzione di ricchezza tout-court; (2) la Potenza della tecnica, ovvero la tendenza tutta tecnica a ottenere il massimo dello scopo con l’utilizzo minimo dei mezzi, dimenticando il ruolo della vaghezza, dello sforzo, in un certo senso di qualsiasi deriva e di qualsiasi situazionismo; (3) la Dispositività tecnica ovvero il fatto che vengono fatte percepire scelte, ma che non sono scelte libere bensì vincolate ai comandi funzionali che ci sono forniti; (4) l’Etica della funzione che rappresenta la fine dell’etica dell’intenzione e del soggetto cristiano-moderno ponendo la questione se esista ancora il/un soggetto; e infine (5) la Metafisica della tecnica, nel senso della tendenza tecnica (metafisica) a innescare la separazione/enfatizzazione degli enti del mondo35Monico F., 2020..

La struttura retorica : 3 momenti

Questo schema porta a un vero ‘costruttivismo radicale’, ovvero alla teoria di Einz Von Foerster e sopratutto Ernst Von Glasersfeld (1998) che l’essere umano vive all’interno di storie, ovvero narrative, che anche se distinte e divise generano un ambiente omogeneo condiviso che produce una normatività36von Glasersfeld E.,1998.. Lo spazio pubblico quindi funziona come una “struttura retorica” che, pur generando un senso, non possiede alcun senso se non come struttura, ovverosia come relazione tra elementi interdipendenti, secondo la regola che si ‘comprende’ solo quello che ci ‘comprende’. Ciò può essere ulteriormente descritto secondo una formula espressa da tre “momenti retorici”. (I) Il primo è che non si può non comunicare, perché non esiste un qualcosa che sia una non comunicazione intesa come un non comportamento. È evidente che le parole, l’attività e addirittura il silenzio possiedono sempre valore di messaggio; influenzano gli altri e gli altri a loro volta rispondono a tale influenza. (II) Il secondo momento sta nel fatto che ogni comunicazione possiede sempre un aspetto di relazione, ciò implica che ci sia una risposta in quanto il primo movimento ricade sul secondo, nel senso che se non comunico sto comunque comunicando che non comunico e quindi sto generando un sistema di retroazione che a sua volta genera una struttura di messaggi e quindi di senso. (III) Il terzo momento risiede nell’evidenza che, successivamente al generarsi della suddetta struttura, appaiono delle costanti nel tempo, per cui si configurano proporzioni che diventano relazioni di senso nel tempo e generano quindi un sistema sociale (retorica). Siamo così il prodotto di una struttura che si autodetermina, che si riproduce indipendentemente da qualsivoglia intenzionale volontà e il cui sviluppo, correlato a quello delle forze produttive (di ogni data epoca e cultura), impone l’emergere di sovrastrutture di senso in forma retorica e non logica37Monico F., 2023..

Sovranità tecnologica e consapevolezza

Essendo la struttura retorica e non logica diventa quindi centrale il controllo del dispositivo di veicolazione di tali relazioni retoriche e per questo bisogna mantenere la Sovranità tecnologica; i Beni e risorse comuni informatiche; l’Energia comune (per il funzionamento delle macchine); e sopratutto la formazione al pensiero tecnico38Morozov E., 2016.. La condizione necessaria per la consapevolizzazione di questa sovranità, oggi così fondativa dell’umano, coincide con la capacità di cogliere oltre che nella retorica anche nella tecnica ciò che ne costituisce l’essere pubblico, di fatto mettendo al centro il concetto di sovranità pubblica. Riflettere sull’essenza della tecnica, comprendere il peculiare disvelamento pubblico ch’essa attua, cogliere in esso la dinamica in cui accade ciò che costituisce l’essere della verità pubblica, sono questi i compiti principali dell’essere umano come individuo del XXI secolo quindi come persona tecnica.

Arte pubblica

La teoria modernista dell’arte nell’incontro con il ruolo della tecnica ha influenzato l’estetica contemporanea specialmente con la speculazione di Marshall McLuhan che nel nostro paese è stata presentata tra i primi da Renato Barilli all’Università di Bologna e da Alberto Abruzzese all’Università di Roma. La figura dell’artista ha un ruolo fondamentale: “L’artista è l’uomo che in qualunque campo, scientifico o umanistico, afferra le implicazioni delle proprie azioni e della scienza del suo tempo. E’ l’uomo della consapevolezza integrale. Egli può correggere i rapporti tra I sensi prima che i colpi di una nuova tecnologia abbiano intorpidito i procedimenti coscienti.”(Mcluhan, 1971)39McLuhan M., 1977, (71)..  E anche: “Se gli uomini riuscissero a convincersi che l’arte è una precisa conoscenza anticipata di come affrontare le conseguenze psichiche e sociali della prossima tecnologia, non diventerebbero forse tutti artisti? O non comincerebbero forse a tradurre con cura le nuove forme d’arte in carte di navigazione sociale?”40Ibidem. Lo stesso era presente in Heidegger che sembra rappresentare l’ambito privilegiato per compiere un simile confronto con l’essenza della tecnica, dal momento che essa le è, per un verso, sommamente affine, per l’altro, lontana e distinta (dacché l’arte è una delle attività umane che meno si rapporta al reale nei termini dell’impiegabilità, ma lo fa, e molto, nei termini di identità e di evoluzione). Per questo motivo come scrisse Holderlin: quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva41Heidegger M., 1953.. E tutto ciò rappresenta a sua volta una interessante e forse centrale retorica di base del ‘pubblico’ del XXI secolo.

Conclusione appassionata

Per concludere, recuperando la distinzione proposta all’inizio tra una verità come correttezza della visione e del pensiero in quanto carattere del giudizio, e una verità come dimensione politica irrelata a ciò che è pubblico, possiamo definire il pubblico come lo spazio generativo del principio di verità, ovvero come l’istinto alla comunicazione umana che opera con lo schema tripartito della retorica umana. I tre momenti retorici dell’umanità producono, al di là dei soggetti, delle relazioni significanti che i racconti inquadrano in forme di verità condivise e per questo prese per vere. Il meccanismo principe è la compassione, ovvero il percepire profonde emozioni comuni, nel senso di condividere le emozioni come vero e proprio ‘spazio pubblico’. In questa accezione la storia produce molta più emozione che senso attraverso la compassione che genera – per un’umanità ‘polvere della storia’ – proprio quello spazio pubblico che certifica una verità vera, perché prodotta dalla appunto passione di tutta una comunità. Perché «senza lo sferragliante e inarrestabile macchinario delle emozioni tutto andrebbe in stallo. Non ci sarebbe nulla da fare, nessun luogo dove andare, niente da essere, nessuno da conoscere»42Ligotti T., (2010), 2016, (103)., perfetta definizione di come il pathos-dolore condiviso da una comunità sia alla base della produzione del pubblico. Emozioni di dolore-com/passione perché lo spazio pubblico della modernità occidentale è stato edificato sulle guerre di religione del XVI al XVII secolo con tutto il loro carico di morte e distruzione, sulle atrocità della rivoluzione francese con la celebrazione della ghigliottina, quindi sulle rivoluzioni ottocentesche. In questo atroce senso è stato costruito il XX secolo dall’immane massacro delle tempeste d’acciao della prima guerra mondiale (37 milioni, contando più di 16 milioni di morti e più di 20 milioni di feriti e mutilati) e dall’allucinante sterminio della seconda guerra mondiale con il suo osceno olocausto (un totale, tra militari e civili, compreso tra 60 milioni e più di 68 milioni di morti, di cui circa 15-17 milioni le vittime dell’Olocausto, tra cui 4-6 milioni di ebrei). Per questo le peggiori atrocità non sono da ricercare nella nostra mera immaginazione, piuttosto nelle tenebre della condizione umana. Come un fango miasmatico rovente e vischioso la storia umana è storia di orrori e terrori, incubi e ossessioni. E questo fango viene rimosso dalla coscienza per trasformarsi nel collante sociale perché come fecero gli gnostici si scorge in questo mondo qualcosa di spettrale, di sconosciuto, di insopportabile, «un orrore che va oltre l’umano e include tutto l’essere»43Ibidem, (179)., che attraversa il cosmo, che intride ogni particella della terra producendo il mondo. È in questo senso che la verità del XX secolo è stata costruita nei cenotaffi dei morti di tutte le guerre della modernità. Quindi la realtà non ha una sua verità propria, ma si valida all’interno di uno spazio pubblico che è quello spazio emozionale prodotto dalla percezione emotiva degli eventi attraverso un sincronismo che è implicato dalla com-passione. Ovvero della com-partecipazione di tutti non a un senso razionale, bensì a un immane dolore che è esperienza traumatica, trauma sociale che assume caratteri di verità non in quanto è cosa che è, bensì in quanto è cosa che fa avvenire delle mutazioni nei nostri corpi – mutazioni chimiche, chimico-fisiche, ormonali, endo ormonali – di fatto attivando delle tropie emotive che ci incardinano a delle verità che altro non sono che la parte in comune di questa generale perfomance emotiva. Un immane dolore produce la verità. Non a caso glorifichiamo un torturato sulla croce, ovvero un mortale morto di una morte lenta, dolorosa e terrificante, esemplare per chi ne era testimone: per stillicidia emittere animam. Non a caso le chiese sono templi che glorificano il dolore inenarrabile di persone: San Lorenzo che fu gettato vivo sui carboni ardenti, San Sebastiano che fu ‘preso a frecciate’ e quando il suo corpo assomigliò a quello di un riccio, essendo ancora vivo, fu finito a bastonate. E su questi martiri fu edificata la cultura dell’Occidente cristiano e su questi ‘compatimenti pubblici’, resi tali da magnifici dipinti di arte cultuale (una delle forme più importanti di arte pubblica), grandi chiese e comunità oranti, furono educati i bambini nell’osservare settimanalmente le immagini e i resti dei santi nelle chiese. E lo stesso avvenne per i martiri ebrei nei musei aconfessionali della celebrazione dell’Olocausto, che di fatto agiscono come templi laici del dolore. E questa verità è una sensazione che cattura chi è testimone dell’atroce, ma che è anche evocabile attraverso il racconto, la rappresentazione, producendo quindi una ulteriore condivisione del piano di verità. In questa condivisione dell’orrore e del dolore si sincronizzano le menti e gli immaginari di una data comunità umana, realizzando così un’idea di vero e di reale. L’immensa macchina tecnologica della mitragliatrice, della perdita de ‘la meglio gioventù’, dei gas nervini, della sedia elettrica, delle V2, delle camere a gas, della bomba atomica hanno prodotto un immane e pubblico auto-da-fé simbolico che ha validato la verità moderna del XX secolo.

Possiamo così ipotizzare che attraverso l’approccio pubblico come validazione della verità si possano cambiare le regole della realtà, perché se si può pensare che la realtà sia natura non possiamo pensare di cambiarla in quanto la natura è quello che è, è evidenza che avviene secondo sue proprie regole. Ma nel momento in cui l’uomo inizia a giocare con la sua stessa specie e quindi produce il principio di pubblico, a quel punto genera attraverso il meccanismo della compassione uno spazio condiviso e quindi validato, spazio che può evolvere e mutare attraverso la narrazione e far nascere l’evoluzione umana. Ovvero la dimensione sociale del dolore, la compassione, produce il mondo che è la forma d’organo evolutiva dell’umano nella natura. Forma d’organo evolutiva perché permette all’umano di simulare, sperimentare continuamente nuovi mondi e di farlo appunto pubblicamente.

 

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Una mappa per fotografare la partecipazione alla gestione del patrimonio culturale

Nell’ambito della ricerca “La partecipazione alla gestione del patrimonio culturale. Politiche, pratiche ed esperienze” promossa e condotta dalla Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali”, prosegue il racconto di alcune comunità di patrimonio presenti sul territorio italiano che hanno partecipato alla Mappa di Comunità promossa nell’ambito della ricerca. 

Negli ultimi anni, anche a seguito della Convenzione di Faro (2005) nuovi attori hanno assunto un ruolo da protagonisti nelle dinamiche di conservazione e tutela del patrimonio culturale anche e soprattutto in virtù di una più ampia idea di valorizzazione che vede come principali caratteristiche l’inclusione, la partecipazione e il senso di appartenenza a un certo luogo e a una certa una comunità. La comunità assume un ruolo fondamentale mettendo in essere pratiche di partecipazione dal basso volte alla valorizzazione del patrimonio culturale che pongono l’accento sul valore di quest’ultimo attraverso l’adozione di un approccio che ne evidenzia il contributo allo sviluppo della società. 

In questo articolo abbiamo scelto di presentare, attraverso e in forma di intervista, due comunità di patrimonio di particolare interesse per il lavoro che svolgono sul territorio di riferimento.  

A Pavia, presentiamo la comunità formata dagli studenti del corso di Restauro Architettonico della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Pavia. Il progetto nasce nel marzo 2022 per volontà della professoressa Olimpia Niglio, titolare del corso di Restauro con la stretta collaborazione dei Musei Civici di Pavia, del Comune di Pavia e dell’Associazione Amici dei Musei e dei Monumenti Pavesi. 

Come rappresentante della comunità abbiamo incontrato Olimpia Niglio, Architetto e Professore di Restauro Architettonico all’Università di Pavia.

Federica Antonucci: Con quale obiettivo si è formato il gruppo? E che motivi vi hanno spinto ad attivarvi come comunità?

Olimpia Niglio: La comunità ‘accademica’ sin dalla sua costituzione ha inteso operare al fine di riscattare un importante patrimonio culturale della città di Pavia risalente alla prima metà sec. VII: la cripta di S. Eusebio che è ciò che resta di una antica chiesa romanica edificata su un preesistente tempio longobardo. Purtroppo, le trasformazioni operate soprattutto a partire dalla prima metà del XX secolo hanno fortemente condizionato la conservazione di questa eredità che la comunità ha inteso ‘adottare’ per studiarla al fine di proporre un progetto di restauro in dialogo anche alle esigenze della comunità della città di Pavia.

L’azione della comunità ‘accademica’ è scaturita dalla necessità di ridonare alla città prima di tutto un bene culturale di alto valore storico-artistico non fruibile temporaneamente e nonché di rigenerare uno spazio pubblico attualmente poco valorizzato all’interno anche della sede centrale dell’Università di Pavia. Il tutto anche per ristabilire un dialogo tra cittadini e comunità accademica.

FA: Avete incontrato difficoltà nel vostro percorso (per esempio per la presa in carico del bene, processi burocratici/amministrativi complessi, ecc.)?

ON: Fortunatamente, non abbiamo incontrato particolari difficoltà né di tipo amministrativo, né di altra natura per dare inizio al progetto di conoscenza e di restauro della Cripta di Sant’Eusebio. Ci auguriamo che le istituzioni locali saranno sempre collaborative e propositive anche nella ricerca fondi.

FA: Da quante persone è formata la comunità? Ci sono tanti giovani che fanno parte della comunità o che prendono parte alle vostre attività?

ON: Attualmente la comunità ‘accademica’ è costituita da 65 persone tra studenti, docenti e membri istituzionali. La comunità è composta da studenti del Corso di Restauro Architettonico, da colleghi e da membri delle associazioni culturali coinvolte. La maggioranza, quindi, è costituita da giovani.

FA: Come viene diviso il lavoro e l’organizzazione delle attività?

ON: Le attività si svolgono nell’ambito del laboratorio del corso di Restauro Architettonico, completamente dedicato alla progettazione del restauro della Cripta di Sant’Eusebio e alla rigenerazione urbana della piazza Leonardo da Vinci. Le attività vengono condivise con l’Associazione Amici dei Musei e con i Musei Civici del Comune di Pavia.

FA: Qual è, a vostro parere, il modo più efficace per coinvolgere la cittadinanza? 

ON: La modalità più efficace è quella della condivisione e della partecipazione attiva. Il laboratorio del Corso di Restauro ha attivato convenzioni di collaborazione anche con le scuole del territorio al fine di coinvolgere le generazioni più giovani e che un domani saranno gli eredi di questo importante patrimonio. Queste iniziative partecipate hanno consentito di mettere a punto anche programmi di avvicinamento al patrimonio culturale locale nonché progetti di formazione per gli insegnanti e tutti coloro che sono interessati a valorizzare il territorio pavese.

FA: E voi di quali altri strumenti avresti bisogno per svolgere al meglio il vostro lavoro?

ON: Nei prossimi mesi cercheremo di coinvolgere anche alcune entità bancarie locali e fondazioni al fine di poter iniziare a supportare concretamente il progetto e la sua realizzazione. Quindi certamente uno strumento importante sarà quello del finanziamento per un bene di interesse pubblico.

FA: Come si svolge una giornata tipo della comunità?

ON: La comunità ‘accademica’ quotidianamente segue le attività di formazione presso il laboratorio del corso di restauro architettonico e ogni suo partecipante autonomamente si attiva per realizzare quando pianificato nell’ambito del programma del corso. Verifiche periodiche consentono poi di mettere a punto lo sviluppo del progetto e di pianificare le fasi successive.

FA: Avete raggiunto gli obiettivi che vi eravate posti? 

ON: Il progetto è nato a marzo 2022 e già a giugno abbiamo presentato i risultati dei primi lavori svolti nell’ambito di un convegno internazionale promosso proprio dalla nostra comunità accademica e dal titolo “Archeologia Urbana e Patrimonio Culturale Religioso a Pavia” (21-22 giugno 2022) a cui è stata collegata anche una mostra dei progetti.

Per maggiori dettagli è possibile consultare i seguenti siti: http://news.unipv.it/?p=68403;

http://news.unipv.it/?p=69191 e gli abstract del Convegno internazionalehttp://www.esempidiarchitettura.it/sito/journal_pdf/PDF%202022/9.%20ABSTRACTS_International%20Seminar_PAVIA_2022_06_21-22.pdf

FA: Quali sfide vi aspettate di dover intraprendere in futuro?

ON: Continuare i lavori intrapresi e in corso per perseguire il nostro obiettivo: il restauro della Cripta di Sant’Eusebio e la rigenerazione urbana di Piazza Leonardo da Vinci.

FA: Vi fa piacere condividere un aneddoto particolare?

ON: TOGETHER, WE CAN. CULTURE IS OUR LIFE. Questo il nostro motto. Da soli non si va da nessuna parte ma insieme possiamo. E come dice Papa Francesco in “Fratelli Tutti” la cultura è l’espressione dei desideri e dell’entusiasmo delle persone e parlare di cultura significa parlare […] di “cultura dell’incontro” significa che, come popolo, ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti.

Per questo crediamo nel progetto della comunità ‘accademica’.

La seconda comunità intervistata è l’Associazione Culturale ArcheoCasarano “Origini e futuro” che nasce nel 2009 su iniziativa di un gruppo di appassionati che di frequente si ritrovavano a discutere di patrimonio culturale e a organizzare visite presso musei, chiese storiche, parchi archeologici e centri storici. Nasce così l’idea di creare un’associazione che con il tempo è riuscita a ottenere in gestione temporanea alcuni beni culturali, tra cui la chiesa di Santa Maria della Croce, detta Casaranello, a Casarano in provincia di Lecce.

Federica Antonucci: Con quale obiettivo si è formato il gruppo? E che motivi vi hanno spinto ad attivarvi come comunità?

Alessandro De Marco: Fin dall’inizio l’obiettivo è stato quello di promuovere il territorio salentino sul piano culturale e paesaggistico. Ma anche di sensibilizzare le comunità a una maggiore consapevolezza e rispetto del nostro intero patrimonio culturale. Nella gestione della chiesa di Casaranello il nostro obiettivo principale è stato quello di aprire letteralmente le porte del monumento al territorio e farla conoscere a quanta più gente possibile. Successivamente siamo anche riusciti a realizzare alcune iniziative che rientravano nei nostri propositi originari come la pubblicazione di alcuni volumi e la creazione del sito web sulla storia della chiesa di Casaranello. 

Abbiamo sentito la necessità di agire, sopralluogo dopo sopralluogo: nella maggior parte dei casi notavamo l’assenza di servizi alle persone o ai fruitori di un bene, ma anche incuria e abbandono.

FA: Avete incontrato difficoltà nel vostro percorso (per esempio per la presa in carico del bene, processi burocratici/amministrativi complessi, ecc.)?

ADM: Le difficoltà principali, che abbiamo tutt’oggi, sono legate ai rapporti con gli enti locali che raramente mostrano un’attenzione adeguata al problema della gestione del patrimonio.

FA: Da quante persone è formata la comunità? Ci sono tanti giovani che fanno parte della comunità o che prendono parte alle vostre attività? 

ADM: Il nostro gruppo attualmente è costituito da 30 associati. La nostra comunità ha avuto sempre una presenza giovanile importante e, spesso, i giovani che collaborano con noi sono i veri protagonisti. 

FA: Come viene diviso il lavoro e l’organizzazione delle attività?

ADM: Le attività sono divise semplicemente su base volontaria. L’organizzazione in genere è affidata ai membri più esperti.

FA: Qual è, a vostro parere, il modo più efficace per coinvolgere la cittadinanza?

ADM: Non crediamo in una sola strategia risolutoria. Di base c’è che la cittadinanza deve percepire che il bene è fruibile, che ci siano attività culturali costanti e continue nel tempo. Si devono “fare cose”. Altrimenti si cade sul qualunquismo e la denigrazione.

FA: E voi di quali altri strumenti avresti bisogno per svolgere al meglio il vostro lavoro?

ADM: Per svolgere al meglio il nostro lavoro per noi sarebbe sufficiente avere un rapporto chiaro e fluido con gli enti locali, e una gestione a lungo termine.

FA: Come si svolge una giornata tipo della comunità?

ADM: Domanda difficile a cui rispondere per il semplice motivo che tutto dipende dalle attività in corso. In linea di massima non succede nulla di inconsueto e, il più delle volte, si ragiona in termini di programmazione e attività future.

FA: Avete raggiunto gli obiettivi che vi eravate posti?

ADM: Decisamente sì, anzi con alcune iniziative portate a termine siamo riusciti ad andare ben oltre le nostre aspettative. In tal senso essere riusciti a far emettere un francobollo dedicato a Casaranello è da considerarsi certamente un evento straordinario e forse anche unico.

 FA: Quali sfide vi aspettate di dover intraprendere in futuro?

ADM: Al momento la nostra sfida è ‘musealizzare’ il sito. Infatti, stiamo lavorando a un convegno internazionale che si terrà proprio a Casaranello il giorno 26 novembre 2022.

FA: Vi fa piacere condividere un aneddoto particolare?

ADM: Ci sarebbero molte cose che varrebbe la pena ricordare, ma visto che si è parlato di giovani ne voglio ricordare uno o meglio voglio ricordare una circostanza. Negli anni abbiamo realizzato dei campi estivi di archeologia per bambini incontrandone tanti. Oggi alcuni di quei bambini, divenuti ormai adulti, fanno parte della nostra comunità collaborano con noi e ci tengono ancora come punto di riferimento. Uno di questi ha definito i tre anni del campo estivo Archeo i più belli della sua vita! Direi che questo ripaga tutti i sacrifici fatti e ci incoraggia a farne degli altri.




EMERSIONI a “Non rassegniamoci” di Municipio 2

Martedì 22 novembre alle ore 18:30 nell’Ex Chiesetta del Parco Trotter di via Mosso, 7 nel Municipio 2 di Milano, ci sarà una nuova presentazione di EMERSIONI: rivista per parlare di cose difficili. 

cheFare partecipa alla nuova presentazione della rivista digitale EMERSIONI, che raccoglie reportage, ritratti, interviste, illustrazioni, foto, approfondimenti e un glossario sul fenomeno del grave sfruttamento, realizzata nell’ambito di un laboratorio di giornalismo da quattordici ragazze e ragazzi tra i 18 e i 25 anni, guidati dal giornalista Giuliano Battiston.

Alla presentazione saranno presenti alcuni membri della redazione che racconteranno la loro esperienza e i contenuti della rivista e i coordinatori del progetto di cheFare e Codici Ricerca e Intervento.

L’evento è gratuito e non è necessario registrarsi. 

 




Esplorare gli spazi delle donne

Chissà che ne è stato di Cara. La conosciamo tutti ma pochi si saranno chiesti che strano genere di solitudine deve aver provato, quando Francesco Guccini la intimava, in versi, di essere contenta della parte che aveva, le confessava di non rimpiangere ciò che lei aveva dato a lui, che in fondo è lui che l’ha creato, e potrebbe rifarlo ora.

Chissà quale grado di umiliazione deve aver provato Cara, privata anche del nome, rivestita dell’appellativo preferito di un certo modo maschile di dire l’amore. O chissà forse se si è sentita lusingata da quella canzone celebre scritta tutta per lei, suonata qua e là da giovani innamorati, che ha già compiuto mezzo secolo e non smette di essere ricordata e amata dai nostri genitori, da noi, sicuramente sarà ricordata dai nostri figli, che la ameranno ancora.

Lusingata come mi sentii io quando un professore universitario mi chiese di entrare a far parte della sua cerchia di collaboratori e mi trovai in una stanza con altri sei uomini. Prescelta, intelligente, unica, in una stanza di uomini a parlare di Antonio Gramsci, dando forma a un’idea di prestigio culturale da cui era stata esclusa più della metà della popolazione universitaria. Quello era il campo, lo spazio. Io mi rintanai in un angolo, in silenzio: lusingata sì, ma inadeguata alla parola. Tutto ciò che dicevo mi pareva sciocco, ed ebbi l’impressione, dopo anni e qualche lettura, di essere stata anche io Cara, dovendomi accontentare della parte che avevo, che sono gli uomini che l’hanno creata, e potrebbero rifarlo ora. 

Fernand Braudel scriveva che la società vive di spazio, utilizza lo spazio, lo sistema e persino lo consuma. Essendo uno storico, oltre che un uomo, aveva avuto modo di studiare ed esperire lo spazio consumato dagli uomini, e l’importanza che questo riveste nella comprensione dei fenomeni e nella determinazione del corso stesso della storia. L’ambiente in cui operiamo per farci uomini e donne non è mai neutro, ci dice Braudel, determina i valori e ne è condizionato a sua volta. Se questo è il presupposto, nessuna ricostruzione storica o lettura del presente può prescindere dello studio degli spazi d’azione e i meccanismi che ne regolano il consumo. 

Ciò che aiuta a fare la vela Einaudi “Lo spazio delle donne” di Daniela Brogi, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per Stranieri di Siena, è indagare e recuperare lo spazio delle donne silenziate, confinate e marginalizzate, senza limitarsi ad elencare nomi e cognomi, ma spostando lo sguardo. 

Il primo passo è depatriarchizzare i propri orizzonti sociali e personali, chiarendo che ciò che uomini e donne attribuiscono alla somma di vicende biografiche e attitudini individuali, – o a quella dimensione ambigua che è il merito – è invece spesso frutto dell’esclusione delle donne da uno spazio di azione, e necessariamente anche di rappresentazione, che le relega ad una vita spesa fuori campo, oltre i margini dell’inquadratura e delle narrazioni. Non a caso le lettrici capiscono bene cosa intende Elena Ferrante quando inventa per le sue donne la dimensione della smarginatura, lacerazione e dissoluzione dell’esperienza dove appare evidente che l’esistenza delle donne è spesso estraneità a quel mondo robusto, dai rigidi confini, che un uomo sa vivere come un’appartenenza, e la donna vive, per l’appunto, smarginatamente. “Come siamo malformati, aveva pensato, come siamo insufficienti… il tumulto del cuore l’aveva sopraffatta e si era sentita soffocare» scrive Ferrante di Lila, avvinta dal mondo senza margini che è in grado di riconoscere perché ai margini è stata posta, e da lì combatte una vita.

Il saggio di Brogi è da leggersi d’un fiato. Non solo per la prosa e l’argomentazione fluide, ma perché ci si sente alle prese con una lucidità necessaria. Si ha la sensazione, leggendo, di essere finalmente in grado di mettere a fuoco pensieri e sensazioni già presenti eppure vaghi, mai legittimati, vissuti con vergogna e nel tempo zittiti per paura di risultare vittimiste. Brogi distingue vittime e vittimismi, restituisce legittimità al senso di ingiustizia che ogni esclusione quotidiana o millenaria nei riguardi delle donne ha inferto ad ognuna, e lo fa senza indugiare sui concetti, invocando una differente messa a fuoco che non si limiti alla celebrazione di eroine dallo straordinario talento.

Perché per ogni eccentrica straordinaria ci sono milioni di esistenze che rimangono nell’ombra e anche perché la rimozione delle donne dalla storia non è fin da subito un fatto pubblico, politico ed eclatante. O meglio, non lo è in partenza, per come si esperisce. La prima forma di esclusione è quella quotidiana, vissuta con fatica e in silenzio, un pezzetto alla volta, da una donna alla volta. È questa esclusione solitaria che va a dare forma allo scandalo storico.

La mimesi assume le forme dello pseudonimo maschile per affermare il proprio diritto ad esistere come soggetti creatori

Citando la novella “Il crimine” di Ada Negri, che racconta l’esperienza dell’aborto e la “solitudine, anche storica e sociale, con cui moltitudini di donne hanno vissuto quell’evento, accaduto centinaia di migliaia di volte” Brogi chiarisce che la solitudine è allo stesso tempo “tema e forma, perché è lacerazione degli oggetti, senso colpevolizzato e terrorizzato del tempo e dell’ambiente.” Quando il tempo e l’ambiente generano terrore e invisibilità, quando gli stessi spazi fisici che si è legittimate ad abitare non sono che un ritaglio, uno scampolo, ecco che avere uno studio appare “la soluzione per la propria vita”, come la definì Alice Munro in “Danza delle ombre felici” . Un territorio tuttora in prevalenza maschile, maschile anche nell’immaginario: lo studio è cosa di avvocati, medici, scrittori, pittori e commercialisti. Molto meno delle stesse figure declinate al femminile. E da lì la vergogna narrata da Grazia Deledda nel romanzo autobiografico “Cosima”, dove la protagonista, una scrittrice che ha conquistato la fama, deve ricevere a casa il giornalista di città arrivato per intervistarla in una “stanza terrena quasi povera, dove nella vecchia libreria si vedevano ancora le carte d’affari del padre morto.” E ancora la vergogna di Annie Ernaux ne “La Donna Gelata”: “La mia dissennatezza, che prima o poi verrà scoperta, macchie sui quaderni. Non ho il coraggio di ammettere che faccio i compiti sul tavolo della cucina, ditate unte sui lavori di cucito.” In questo caso la domanda di spazio libero, non ingombrato, diventa un dispositivo di riconoscimento sociale. 

Per ogni eccentrica straordinaria ci sono milioni di esistenze che rimangono nell’ombra

Ma gli spazi esplorati dal saggio di Brogi sono molteplici. C’è quello visto per le strade e immaginato nella mente quando si pensa al potere: quello delle statue, dei quadri, dei relatori di un convegno e dei nomi nelle bibliografie. C’è lo spazio violentemente negato del pensiero. Quando le donne se ne impossessano, per esempio dedicandosi alla scrittura, la stanza più affollata diventa quella della giustificazione “Come se, per le scrittrici, per le artiste, per tutte le donne che hanno avuto l’ambizione di costruire una carriera, giustificarsi fosse un lavoro che non finisce mai. Fino al punto che la soluzione più semplice può diventare talvolta mimetizzarsi, contraffarsi.” La mimesi assume le forme dello pseudonimo maschile per affermare il proprio diritto ad esistere come soggetti creatori. Natalia Ginzburg ed Elsa Morante volevano essere chiamate scrittori e non scrittrici, ma subivano una sopraffazione, in senso storico, dalla violenza di un mondo patriarcale dove essere donne era un inferno che Brogi ben contestualizza ricordando la linea del tempo segnata da decreti e leggi che sancivano diritti, che non sono però mai punti di arrivo ma sempre punti di partenza, a cui segue un travagliato e spesso doloroso periodo di assestamento culturale, tempo che nel nostro paese è lungo e ambiguo, determinato da fattori molto più complessi del dualismo conservazione-progressismo a cui siamo soliti ricondurre i diversi ambienti che abitiamo dalla provincia alla metropoli, dal paesino all’università.

Non mi è facile immaginare cosa possa dire “Lo spazio delle donne” a una donna come mia madre, o a un uomo come mio padre. Per la verità mi è difficile anche immaginare cosa possa dire ad un ragazzo. Ma a una donna come me, e cioè giovane e spesso sperduta, solleva domande quali: nel mondo, posso andare da sola? – che significa anche – posso trasferirmi da sola in una nuova città? Vivere come appartenenza e non come scampolo, accettare un lavoro per cui sento di non essere pienamente competente, come gli uomini fanno statisticamente molto spesso, posso uscire di casa a certe ore della notte o lasciare un uomo che ha iniziato ad amarmi svilendomi? Posso anche io consumare spazio, o sarà lo spazio a consumare me? Porsi queste domande, preoccupazioni strutturali della vita delle donne, significa certo riconoscere dei limiti. Ma significa anche camminarci sopra, abitare il margine guardandolo dall’alto, non più aderendo ad esso, non più venendo da esso soffocate. E significa iniziare a vedere cosa, dello spazio che abitiamo, è dovere di tutti ripensare, ridisegnare. Secondo nuove regole e attraverso nuovi paradigmi, con una messa a fuoco ampia, che pur mai in grado di rendere lo spazio neutro, sappia perlomeno renderlo abitabile trasversalmente e senza umiliazioni.




La candidatura di Roma per l’Expo 2030 e il ruolo della cultura di prossimità

Il 21 luglio si sono svolti a Roma gli Stati Generali, il primo importante appuntamento dedicato a illustrare il progetto con il quale la Capitale si candida a organizzare e ospitare l’Esposizione Universale 2030.

L’iniziativa ha previsto un tavolo centrale e cinque tavoli tematici contemporanei distribuiti sul territorio con l’obiettivo di creare un momento di proposta ma anche di ascolto  per far emergere i punti di forza e le criticità in vista della definizione del dossier di candidatura che il Comitato promotore sta elaborando e consegnerà il 7 settembre. 

Il progetto di Roma per l’Expo 2030 ha, infatti, l’ambizione di porsi come un vero e proprio progetto sociale per esplorare un nuovo modello di città che possa offrire ad ogni suo abitante le stesse opportunità. Persone e territori: rigenerazione urbana, inclusione e innovazione il titolo della proposta, una porta aperta sul mondo l’immagine che la rappresenta, simbolo di accoglienza, scambio e integrazione di culture diverse.

Logo Roma Expo 2030

 

Al Tavolo Istituzionale in Campidoglio – al quale ha partecipato il Sindaco di Roma, Roberto Gualtieri con il Presidente del Comitato Promotore Giampiero Massolo e alcuni esponenti del Governo – si sono affiancati cinque tavoli tematici “Sviluppo, Università e Innovazione”, “Architettura e Urbanistica”, “Media”, “Terzo settore” e “Cultura, Turismo, Grandi Eventi, Sport e Moda”. 

Quest’ultimo, presieduto dall’Assessore alla Cultura Miguel Gotor e dall’Assessore ai Grandi Eventi e allo Sport Alessandro Onorato e moderato dalla scrittrice Maria Pia Ammirati, ha posto al centro della riflessione i grandi attrattori di Roma – il Parco Archeologico del Colosseo, il MAXXI – Museo nazionale delle Arti del. XXI secolo, Cinecittà per fare alcuni esempi –  ma anche le espressioni artistiche indipendenti i festival letterari diffusi e le biblioteche/centri culturali. Qualcosa di inconsueto e profondamente significativo rispetto al concept del progetto.

È di questo messaggio potente che voglio parlare. 

Il patrimonio custodito e valorizzato dalle biblioteche a Roma parla di Roma tanto quanto ne parlano i suoi monumenti, i suoi musei, le sue chiese, i suoi teatri. Subito pensiamo alle biblioteche straordinarie punto di riferimento ancora oggi per studiosi di tutto il mondo: la biblioteca Angelica – una delle prime biblioteche europee aperte al pubblico – la biblioteca Casantense, la  Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana solo per citarne alcune. 

Pur riconoscendone il prestigio straordinario al centro dell’attenzione sono state le biblioteche pubbliche/centri culturali dislocate sul territorio cittadino, ovvero 40 biblioteche di quartiere a cui si aggiungono 16 punti di servizio nelle carceri e 48 nelle scuole, nodi fondamentali di una infrastruttura per una formazione inclusiva e di qualità, una partecipazione culturale attiva, per lo sviluppo di competenze e di creatività, per il dialogo interculturale. In sintesi per l’idea di educazione inclusiva, di qualità e su scala globale che il progetto per l’Expo2030 di Roma esprime.

Lo stesso concetto fortemente espresso dal nuovo Public Library Manifesto presentato il 27 luglio al Congresso IFLA di Dublino:

The public library, the local gateway to knowledge, provides a basic condition for lifelong learning, independent decision- making and cultural development of the individual and social groups. It underpins healthy knowledge societies through providing access to and enabling the creation and sharing of knowledge of all sorts, including scientific and local knowledge without commercial, technological or legal barriers.44L’ultimo Manifesto risaliva al 1995. Ora è stato pubblicato un aggiornamento. Qui sono segnalate le novità: https://www.ifla.org/news/ifla-and-unesco-launch-an-updated-public-library-manifesto-at-the-87th-world-library-and-information-congress-wlic/

Biblioteca Laurentina (Foto: Biblioteche di Roma)

 

Sono biblioteche di quartiere dislocate nei 15 municipi della Capitale con oltre 30.000 metri quadrati di spazio pubblico spesso collocate in parchi e con ampi giardini che rappresentano a Roma una realtà culturale attiva e riconosciuta dai cittadini e che realizzano concretamente quell’idea di prossimità al centro del progetto. Queste biblioteche centri culturali sono “una casa delle opportunità” come dicono i cittadini che le frequentano, “un punto di riferimento per la crescita personale e culturale”.

Sala studio Biblioteca Giovenale (Foto: Biblioteche di Roma)

 

Oggi nel promuovere la convivenza urbana e nel voler esprimere un nuovo modello di città –  inclusivo, interconnesso, sostenibile – Roma individua nelle biblioteche/centri culturali uno strumento, un nodo fondamentale della cultura come fattore abilitante, per la realizzazione di un vero “welfare culturale”, inteso come modello integrato di promozione del benessere e della salute e degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale. A questo proposito è utile ricordare che la partecipazione culturale non ha a che vedere soltanto con l’intrattenimento, con lo svago, il tempo libero o con lo studio e la ricerca, ma che essa determina più in generale il modo con cui organizziamo la nostra comprensione dei fatti e dunque agiamo. In questo scenario trovano spazio le biblioteche come strumenti di studio, ricerca, laboratori di lettura ma anche di contrasto a ogni forma di analfabetismo, funzionale, di ritorno ed emotivo. Grandissimo problema della nostra contemporaneità.

Importante ricordare anche che in questo scenario grazie ai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza  prenderanno forma a Roma entro il 2026 altri 9 nuovi poli civici culturali di innovazione a servizio delle comunità a integrazione della rete bibliotecaria esistente. 

Le sedi individuate toccano tutti i quadranti della città e recuperano alcuni luoghi abbandonati o chiusi da anni, a partire dalla consapevolezza che le biblioteche, specialmente nelle aree caratterizzate da vulnerabilità sociale e materiale, possono essere una “istituzione àncora”, contribuendo alla riduzione delle disuguaglianze sociali e alla valorizzazione del capitale umano metropolitano.

Le biblioteche/ centri culturali/poli civici di innovazione a Roma sono già oggi e saranno sempre più in futuro una rete di spazi, servizi, attività, relazioni, un nodo del sistema culturale a servizio del sistema della città. Esse si configurano oltre che come laboratori di lettura anche come laboratori di cittadinanza permanente – vicine ai processi della vita reale molto più di quanto possiamo immaginare – e laboratori di innovazione culturale, attraverso spazi di apprendimento collaborativo e di intelligenza collettiva, attraverso programmi di media e information literacy esse concretizzano una visione di cultura in cui fruizione, partecipazione e produzione sono sempre potenzialmente insieme. 

La pandemia ha portato a superare la vecchia idea di città, a favorire la realizzazione di spazi più prossimi e vicini di creatività e socialità. Questa idea di cultura partecipata, prossima, accessibile, inclusiva che Roma esprime con le sue biblioteche-centri culturali, e in linea con  i valori di sostenibilità, equità, e inclusività che ispirano la candidatura per l’Expo 2030, aiuta a traghettare l’idea stessa di biblioteca bene comune nella contemporaneità come “strumento per la crescita delle persone” e lo fa con una attenzione costante al contesto ma anche e  sempre con uno sguardo proiettato verso il futuro. 

 

In copertina: Casa delle Letterature (Foto: Biblioteche di Roma)




Quali comunità? La Convenzione di Faro e gli esempi di comunità di patrimonio

Gli ultimi decenni hanno visto il concetto di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale evolversi e divenire sempre più importante per lo sviluppo locale e sostenibile. 

Parlare oggi di patrimonio culturale vuol dire considerarne non solo gli aspetti di promozione, tutela, conservazione e valorizzazione, ma soprattutto evidenziarne il valore identitario e di appartenenza ad un certo luogo e ad una comunità.

La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società del 2005, firmata dall’Italia nel 2013 e ratificata nel 2020, ha messo l’accento sul tema del patrimonio come mezzo di soddisfacimento dei bisogni materiali e immateriali delle comunità, enfatizzandone il ruolo e la capacità di costruire senso di appartenenza, capitale sociale, coesione e identità locale.  

In particolare la Convenzione invita gli stati firmatari a riconoscere l’interesse pubblico associato agli elementi del patrimonio culturale in funzione della loro importanza per la società e delinea il quadro dei diritti e delle responsabilità dei cittadini nella partecipazione al patrimonio culturale mettendo in luce il significato del suo “valore” attraverso un approccio multidimensionale che rivela il contributo del patrimonio culturale allo sviluppo degli esseri umani e della società. 

Nell’ambito del percorso di ricerca “La partecipazione alla gestione del patrimonio culturale. Politiche, pratiche ed esperienze” promossa e condotta dalla Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, è stata “lanciata” la Mappa delle Comunità che restituisce un paesaggio articolato e ricco di gruppi e comunità che curano e gestiscono patrimonio culturale.

La varietà delle esperienze ci ha spinto ad indagare di più e ad avvicinarci ad alcune di esse. Le due “comunità” qui presentate raccontano realtà e storie ricche, interessanti ed estremamente distanti tra loro e proprio per questo meritano di essere presentate. Il nostro Paese, l’immenso patrimonio culturale dei nostri territori i gruppi e le comunità producono forme e esperienze di tutela e valorizzazione tutte “speciali” che meritano di essere conosciute per le eccellenze che producono e per le difficoltà che affrontano.

A Napoli la comunità del Molo S. Vincenzo (Friends of Molo S. Vincenzo, Napoli) nasce tanti anni fa grazie alla battaglia portata avanti da Umberto Masucci, presidente del Propeller Club di Napoli, per favorire la riapertura del molo di S. Vincenzo. Il Molo S. Vincenzo è un elemento di grande valore simbolico per la città, costituisce infatti la diga foranea che chiude il porto storico della città. 

Si tratta di un luogo storico voluto nell’ambito del piano di ampliamento della città di Napoli da Don Pedro di Toledo e progettato, alla fine del 1500, dall’Architetto Domenico Fontana, lo stesso che realizzò il Palazzo Reale di Napoli, il Complesso dell’Eremo dei Camaldoli e varie importanti chiese e opere pubbliche a Napoli e in Campania.

Il molo è caratterizzato da 2 km di passeggiata nel mare e dalla presenza del Bacino di Raddobbo Borbonico. La parte in radice del molo è occupata dal Comando Logistico della Marina Militare; si tratta quindi di fatto di un’area interdetta alla pubblica fruizione. Il molo, dal Bacino di Raddobbo  in poi, invece, è di competenza dell’Autorità di Sistema portuale del Mar Tirreno Centrale al quale è possibile accedere solo previa autorizzazione da parte della Marina militare. 

Questa condizione lo rende uno spazio inutilizzato e interdetto sia come spazio della città e che come luogo culturale. 

Come rappresentante del Friends of Molo S. Vincenzo, Napoli abbiamo incontrato Eleonora Giovene di Girasole.

Federica Antonucci: Con quale obiettivo si è formato il gruppo? E che motivi vi hanno spinto ad attivarvi come comunità?

Elena Giovene di Girasole: L’obiettivo e al tempo stesso la necessità che ci ha guidato e spinto ad attivarci è stato quello di restituire uno spazio collettivo alla città. Il lavoro è iniziato con un processo di action research portato avanti da ricercatori-architetti dell’IRISS (l’Istituto di Ricerca su Innovazione e Servizi per lo sviluppo) del CNR con gli psicologi di comunità del Dipartimento di Studi Umanistici Federico II, attivando processi partecipativi che coinvolgessero la comunità. Sono iniziate così nel 2014 le prime attività sul Molo, come le passeggiate, che hanno visto la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, compresa la Marina militare. Negli anni successivi la partecipazione sia all’ideazione delle attività che alla fruizione delle stesse è aumentata, coinvolgendo sempre più associazioni, ricercatori e cittadini e oggi si è arrivati alla costituzione di un tavolo tecnico tre le istituzioni interessate con l’obiettivo di valorizzazione il sito nella sua interezza. 

FA: Avete incontrato difficoltà nel vostro percorso (per esempio per la presa in carico del bene, processi burocratici/amministrativi complessi, ecc.)?

EGG: A dir la verità non molto e questo è stato un bene. Il sindaco attuale della città di Napoli ha inserito nel suo programma la valorizzazione del Molo cercando di sfruttare ogni congiuntura positiva si presentasse. Le difficoltà incontrate sono state principalmente con la marina, poiché trattandosi di una base militare si configura come un territorio delicato; tuttavia, grazie agli sforzi di tutti e contemperando le esigenze di ciascuno si è riusciti a stabilire una situazione di pacifica e fruttuosa collaborazione. Non mancano, infatti, esempi di attività diverse, dalle maratone ai convegni, che hanno visto la partecipazione di tutti. L’idea di base è che tutte le parti coinvolte rimangano tali, sarebbe impossibile pensare all’esclusione della Marina, per esempio.  Al contrario ciò che rende il progetto così bello è la collaborazione e lo scambio che avviene proprio grazie alla presenza di tutti. 

FA: Da quante persone è formata la comunità?

EGG: La comunità consta di due dimensioni: un gruppo associato che è composto da cinque persone che sono i fondatori dell’associazione e da un gruppo esteso, variegato e multiforme che comprende tutte le persone che scelgono volontariamente sia di prendere parte alle attività proposte che di aiutare alla loro ideazione e gestione.

FA: Ci sono tanti giovani che fanno parte della comunità o che prendono parte alle vostre attività? 

EGG: La comunità è composta da un campione variegato a livello anagrafico: ci sono persone di tutte le età che fanno parte della nostra comunità. Per quanto riguarda i giovani, come ricercatori ci capita spesso di coinvolgere studenti universitari e dottorandi che collaborano all’organizzazione dei diversi eventi come passeggiate e spettacoli. Ciascun evento organizzato è sempre libero e aperto alla partecipazione di tutti. 

Il lavoro all’interno della comunità è molto flessibile e dipende dall’iniziativa di ciascuno. Le attività avvengono su iniziative personali, proposte e a seconda della disponibilità del gruppo ci si da sostegno reciproco. Per noi è il modo più utile e funzionale per portare avanti il lavoro dell’associazione.

FA: Qual è, a vostro parere, il modo più efficace per coinvolgere la cittadinanza? 

EGG: L’associazione ha sviluppato un framework teorico che si ispira alla teoria dei Commons di Elinor Ostrom, con lo scopo di creare ed evidenziare valori e obiettivi condivisi al fine di far diventare il Molo San Vincenzo un bene comune. Uno strumento di coinvolgimento molto efficacie è stato il workshop di progettazione collaborativa, vale a dire un workshop interdisciplinare che coinvolge tutti gli stakeholder del territorio sia nella parte di ascolto che di discussione. Per far sì che il dialogo fosse reale e consistente, abbiamo ideato delle “feedback station”, punti di ascolto che aiutano nello sviluppo progettuale. È stato anche definito per il molo San Vincenzo un masterplan condiviso all’interno del quale sono condivisi obiettivi e desiderata.

In particolare, è rilevante il lavoro svolto con gli psicologi di comunità, ed è interessante un progetto a cui anche loro hanno contribuito e che ha avuto molto successo, ovvero il progetto di rigenerazione urbana partecipata di Porta Capuana, un rione di Napoli, in uno spazio aperto alla città. 

FA: Come si svolge una giornata tipo della comunità?

EGG: Noi siamo ricercatori, quindi la nostra giornata tipo si articola tra l’essere un ricercatore attivo e lavorare all’ideazione di nuovi eventi per il Molo: spesso ci troviamo anche con i soci dell’associazione il sabato e la domenica per organizzare le attività, come l’open port, le passeggiate e le visite guidate. 

FA: Avete raggiunto gli obiettivi che vi eravate posti? Prossime sfide?

EGG: Sì! Il primo obiettivo era far conoscere il Molo alla città e oggi, dopo 9 anni di attività, siamo riusciti a portare sul molo più di 3000 persone, realizzato tre Passeggiate patrimoniali, quindici 15 walking tour, due concorsi fotografici, tre maratone, cinque workshop e circa 20 conferenze. Il secondo obiettivo era che il Molo e la sua rigenerazione facesse parte dell’agenda politica e divenisse catalizzatore di interesse; il terzo è che il Molo divenisse quindi luogo di interesse e fosse sempre aperto e accessibile.

Oggi possiamo dire che il sito sia diventato un bene comune, di cui si parla, si discute e al quale ci si interessa. Il prossimo passo è che si avvicini sempre più al concetto di commons, raggiungendo un accordo tra le parti su regole e valori condivisi. 

Il processo si concluderà quando il molo sarà totalmente valorizzato, esisterà un progetto reale e verrà messo del tutto in sicurezza.  Adesso non siamo ancora a questo punto, ma abbiamo in agenda una serie di eventi legati ai mari internazionali e alla funzione del molo, ne sentirete parlare, speriamo, nel 2024!

Vista del Villaggio Crespi d’Adda dalla ex casa del medico – sito Unesco dal 1995

 

A Crespi D’Adda – Patrimonio Unesco – nel 2000, un gruppo di giovani, tenendo ben presente la “Carta del Turismo Culturale” dell’ICOMOS, che mette in guardia da “ambivalenze” e “pericoli” presenti nel turismo e auspica un coinvolgimento della comunità locale, dà vita a CRESPI CULTURA. 

In quegli anni coloro che avviano CRESPI CULTURA si chiedono se sia possibile dare vita ad una realtà culturale che non pesi sulle casse pubbliche e che agisca in modo consapevole e determinato, e coerentemente con le politiche culturali del nostro Paese. Le attività vengono progettate e svolte perseguendo un approccio responsabile e rispettoso sia del luogo medesimo che della comunità residente: l’obiettivo primario è indirizzare lo sviluppo turistico del Villaggio di Crespi verso un modello di tipo sostenibile e a forte valenza culturale ed educativa.

Elena Pelosi: Qual era l’obiettivo quando si è formato il gruppo? E cosa vi ha spinto?

R: CRESPI CULTURA ha l’obiettivo di educare, sensibilizzare, tutelare e valorizzare il sito Unesco di Crespi d’Adda, coerentemente con i principi della Carta del Turismo Culturale dell’ICOMOS dell’UNESCO e poi della Convenzione di Faro e quindi coinvolgendo la comunità locale che nel caso del Villaggio Crespi d’Adda è formata da discendenti di chi ha lavorato nel cotonificio e vissuto nel Villaggio, da diverse generazioni. CRESPI CULTURA ha dato vita ad un format per scoprire il proprio paese basato su tematiche di valore educativo e sull’incontro con il divulgatore che è “testimone”, portatore di una memoria viva e di esperienze dirette legate al luogo e alla comunità.

Intervento di recupero delle storiche cementine nella sede di Crespi Cultura

 

Il vero motore è stato quello di aiutare il mondo della scuola e incidere nel processo di educazione delle future generazioni, per contribuire al delicato compito istituzionale di insegnanti e dirigenti scolastici. Si parte dalle nostre storie nel Villaggio per affrontare tematiche importanti per il mondo della scuola. Si valorizzano memoria storica, aneddoti e documenti storici per aiutare le giovani generazioni ad immergersi nel nostro passato e le azioni di tutela del sito per far comprendere il valore dell’essere cittadino attivo. Raccontare il nostro Villaggio è parte integrante del concetto di “tutela del luogo” perché significa sensibilizzare il visitatore al tema della protezione, salvaguardia e conservazione del sito, facendogli comprendere non solo l’autenticità del sito ma anche della comunità che lo abita. 

EP: Da quante persone è formata la comunità? Ci sono tanti giovani che fanno parte della comunità o che prendono parte alle vostre attività? 

R: Con diversi livelli di coinvolgimento, circa una ventina. Se per giovani intendiamo persone con età compresa tra i 20 ed i 30, nel nostro gruppo ce ne sono due, pochi.

EP: Come viene diviso il lavoro e l’organizzazione delle attività?

R: Le attività vengono divise a seconda delle competenze e delle necessità. Per quanto riguarda le attività didattiche, l’organizzazione è più complessa: oltre ai divulgatori, c’è un coordinatore che segue trasversalmente tutte le attività e cura l’impostazione nei contenuti, definisce le azioni di aggiornamento e le metodologie didattiche delle esperienze proposte; ci sono inoltre informatici, un paio di persone che curano gli aspetti organizzativi e sono preposte all’accoglienza delle scolaresche, chi cura la pulizia dell’area di arrivo dei gruppi. Per le visite turistiche tradizionali è più semplice perché, al di là dell’attività di accoglienza e di segreteria, l’attività è svolta in autonomia dalle guide turistiche. Per le azioni di tutela, dipende dalla loro natura, così come per quelle di sensibilizzazione.

EP: Qual è, a vostro parere, il modo più efficace per coinvolgere la cittadinanza? 

R: Per coinvolgere la cittadinanza è bene entrarne in sintonia, farne parte e vivere problematiche e opportunità e soprattutto condividere valori comuni che caratterizzano il “bene” in cui si vive e si opera. Inoltre non guardare al sito solo come un “monumento” ma un luogo vivo, abitato e dove la qualità della vita è opportuno rimanga alta. 

In altre parole è opportuno comprendere nel profondo il significato delle parole che Valeria Benaglia, un’abitante del Villaggio, venuta a mancare diversi anni fa, disse in occasione di un’intervista “Crespi non è soltanto un patrimonio di muri. C’è dentro la storia e la fatica di tante persone”. 

La comunità a Crespi è fiera del suo borgo e forte è la memoria storica. Con CRESPI CULTURA abbiamo voluto favorire, attraverso le attività didattiche e divulgative, un incontro sereno, rispettoso e stimolante tra chi abita nel Villaggio e chi vi giunge in visita.

Prima e dopo il recupero operato da “Crespi Cultura”. La manutenzione si ripete ogni anno, sempre ad opera di Crespi Cultura

In occasione del decennale della nomina Unesco abbiamo promosso e collaborato alla realizzazione con l’Università degli Studi di Bergamo alla prima e unica indagine sulla percezione della qualità della vita degli abitanti e sul profilo e le opinioni dei visitatori del sito. Era il 2005 e lo sviluppo della nostra attività ha tenuto conto anche degli esiti di questi importanti lavori. Inoltre la valorizzazione locale avviene davvero se, all’attenzione, alla partecipazione e al coinvolgimento si aggiunge il confronto con altri contesti basato sullo scambio di conoscenze e di esperienze. Ad esempio nel 2019 abbiamo organizzato un viaggio-studio nei principali siti storici britannici analoghi a Crespi d’Adda: New Lanark in Scozia e Style in Inghilterra.

EP: E voi di quali altri strumenti avreste bisogno per svolgere al meglio il vostro lavoro?

R: La recente normativa sul terzo settore è già una base importante di riferimento, ma da sola non basta. Sarebbe importante far comprendere meglio la peculiarità e la specificità del luogo e l’importanza della sua comunità. Il Villaggio Crespi d’Adda è un unicum tra i Siti Unesco, non solo in Lombardia ed in Italia ma nel Mondo e come tale andrebbe trattato. Nel 2019 erano 1.121 i siti Unesco, di cui il 78% «Culturali», il 19% «Naturali», il restante 3% «Misto». Degli 869 siti Unesco «Culturali» solo il 18% (157) soddisfano anche il criterio 5 con il quale si riconosce che “Crespi d’Adda costituisce esempio eminente di insediamento umano rappresentativo di una cultura, specialmente se divenuto vulnerabile per l’impatto di cambiamenti irreversibili”. L’ICOMOS e l’UNESCO valorizzano il concetto di “insediamento umano” ed il fatto che questo rappresenta una “cultura” che stenta a sopravvivere. Nel mondo sono 49 i siti «industriali» inseriti nella Lista del Patrimonio Mondiale e tra questi solo cinque soddisfano il criterio 5 e ben quattro sono abitati. Se analizziamo però il periodo di fondazione di questi siti emerge che risalgono al 1300, al 1500 e al 1700 circa. Solo il Villaggio di Crespi d’Adda è di recente ideazione: è stato fondato nel 1878 e l’esperimento sociale è andato avanti fino agli anni ‘70. La comunità di circa 450 abitanti, in prevalenza discendenti dei dipendenti del vecchio opificio tessile, persone che vivono lì da sempre, è testimone in prima persona della sua recente storia e del suo presente.  E’ con loro che CRESPI CULTURA ha costruito un’ “alleanza” per “accogliere” ed è lo stesso UNESCO ad affermare che è necessario migliorare il coinvolgimento delle parti interessate a tutti i livelli, in particolare con le comunità locali, garantendo così che il patrimonio abbia una funzione nella vita delle comunità. 

EP: Avete raggiunto gli obiettivi che vi eravate posti? Quali sfide vi aspettate di dover intraprendere in futuro?

R: Le scuole confermano ogni anno scolastico l’interesse verso le attività proposte; la sede aperta al pubblico è stata ampliata e ristrutturata coinvolgendo professionisti di qualità, residenti nella comunità, dall’elettricista, all’idraulico, all’impresa edile che più di chiunque altro potevano comprendere il connubio tra praticità e valorizzazione del passato. 

Abbiamo per esempio, preso in “cura” la Via Adda, parte integrante del disegno urbanistico della famiglia Crespi, invasa da rovi e sterpaglie, cresciuti a dismisura, che avevano invaso talmente tanto la strada da consentire il passaggio di una sola persona alla volta nascondendo addirittura ben 4 paracarri. Annualmente ci occupiamo della sua manutenzione e di piccoli interventi di cura nel Villaggio.

Tolti due anni di pandemia Covid19 e le difficoltà che ha inevitabilmente comportato, siamo soddisfatti dei risultati finora raggiunti e lieti finalmente di riprendere le varie attività che auspichiamo riprendano regolarmente con il nuovo anno scolastico.

Ora stiamo lavorando ad un progetto di gestione degli spazi pubblici comunali, al momento utilizzati dall’Amministrazione solo a fini turistici, per dar vita ad una gestione integrata e partecipata, che coinvolga diverse realtà del territorio e la comunità del Villaggio. Un progetto di gestione che sia in grado di garantire un’attenzione anche alle attività sociali e ambientali, in una logica di sviluppo locale, ancor prima dello sviluppo turistico. Abbiamo già avviato incontri con l’ente gestore e diverse realtà associative. 

EP: Vi fa piacere condividere un aneddoto particolare?

R: Prima del covid abbiamo donato un’altalena da collocare nel parco pubblico. Perché un’altalena? Quella esistente era mal ridotta e bisognosa di essere sostituita ma la scelta è stata più che altro simbolica. 

Installazione dell’altalena nel Parco Pineta, donata da Crespi Cultura al Comune

 

L’altalena è quel gioco che piace sia ai piccoli che agli adulti; è un momento di sospensione che può diventare riflessione. È un gioco utilizzato sia da bambini che abitano o che hanno i nonni nel villaggio ma anche dai bambini che con le proprie famiglie o la scuola vengono a scoprire il sito. È stato un dono che rende felici tutti. Per quasi due anni è stata interdetta, immobile. Da diversi mesi è finalmente tornata a dondolare e quando dalla sede di CRESPI CULTURA ci sporgiamo per guardare il parco, l’altalena in movimento è un momento di gioia e speranza.

Passeggiando per le case del Villaggio, quindi nel bel mezzo del sito Unesco, è normale imbattersi, soprattutto nei fine settimana, in persone che giunte a Crespi chiedano “dove è l’ingresso del Villaggio?” oppure “Dove vado per vedere il sito Unesco?”…e non si accorgono di essere già nel suo cuore…. e si stupiscono che il Villaggio sia un luogo tutt’ora abitato. 

Uno scorcio delle casette operaie del Villaggio Crespi d’Adda e della quotidianità




Mappare le comunità per conoscere storie e compagni di partecipazione culturale, un progetto di Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali

“Città, paesaggio, opere d’arte, ambiente sono beni e nozioni legate ai diritti della cittadinanza, perché in essi fiorisce la possibilità di una comunità che non sia dominata dai particolarismi e dall’illegalità, ma dalla lungimiranza e dalla democrazia”.

In questo stralcio da Architettura e democrazia, Salvatore Settis mette in evidenza l’enorme potenziale del patrimonio culturale nell’essere connettore di possibili comunità e il terreno dove trova spazio la democrazia.

I temi sono cogenti e attuali.

Si parla di comunità e di partecipazione alla cultura; di cura e gestione del patrimonio dal basso e di competenze trasversali per curare e gestire i beni culturali. 

Si parla di innovazione culturale e sociale insieme, in chiave integrata; di relazioni e di politica.                

Si parla di diritti.

La chiave di svolta, la formalizzazione di un percorso da tempo attivato e che andrà ancora molto lontano, è stata nel 2005 la Convenzione di Faro attraverso cui il Consiglio d’Europa riconosceva all’eredità culturale un ruolo fondamentale nel diritto alla partecipazione culturale.

All’indomani delle guerre nei Balcani e della distruzione materiale e immateriale di beni e patrimonio culturali, gli Stati membri convenivano (tra i tanti punti) nel sottolineare il “ruolo dell’eredità culturale nella costruzione di una società pacifica e democratica, nei processi di sviluppo sostenibile e nella promozione della diversità culturale”.

Da allora il percorso è stato complesso, in particolare nella ratifica che ogni Stato ha condotto. In Italia è avvenuta a fine 2020; anche se la sede del Consiglio d’Europa di Venezia e la Rete Faro Italia giocano, nel nostro Paese, un ruolo fondamentale nella condivisione dei principi della Convenzione e nel rafforzamento della rete delle comunità di patrimonio.

Resta il fatto che da un’analisi attenta della complessa geografia della gestione e cura del patrimonio culturale, in particolare materiale, in Italia, ci accorgiamo che i principi della Convenzione di Faro sono molto spesso, e da tempo, messi spontaneamente in atto attraverso strade formali e/o informali. Singoli cittadini, gruppi di persone, associazioni, cooperative e imprese hanno un ruolo importante nella conservazione e valorizzazione del patrimonio. E dunque comprendiamo come la comunità di patrimonio, con una lontana discendenza olivettiana  e più diretta dai Commons teorizzati da Elinor Ostrom, l’eredità culturale e la partecipazione si concretizzino quotidianamente in progetti, iniziative che coinvolgono il territorio, anche in chiave sociale e permettano di far rivivere luoghi e beni culturali altrimenti chiusi o abbandonati.

È esattamente questo il contesto in cui è stata attivata la ricerca Partecipazione alla gestione del patrimonio. Politiche pratiche ed esperienze con cui la Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali entra nel dibattito con l’obiettivo di studiare i casi di partecipazione alla gestione del patrimonio culturale nel contesto nazionale – identificando fattori abilitanti, opportunità, ostacoli e competenze necessarie al successo di tali processi – e di immaginare, in ultima istanza, percorsi formativi per professionalità in grado di sostenerli e animarli. 

Questi percorsi sono In diretta connessione anche con quanto definito lo scorso luglio dalla Dichiarazione di Roma dei Ministri della Cultura G20 (in particolare il punto Costruire Capacità attraverso la Formazione e l’Istruzione) e anche rispetto al ruolo di coordinamento che la Fondazione ha ricevuto dai Ministri G20 per mettere in rete gli istituti di formazione dei 20 Paesi nel campo del cultural business management per rafforzare le capacità manageriali dei professionisti della cultura e promuovere, così, lo sviluppo socio-economico a matrice culturale.

La Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali è un istituto internazionale per la formazione, la ricerca e gli studi avanzati nell’ambito delle competenze del Ministero della cultura, socio fondatore.

È nata con l’obiettivo di valorizzare e promuovere le competenze dei professionisti impegnati nella cura e gestione del patrimonio e delle attività culturali e attraverso un circuito virtuoso e integrato di attività di formazione, ricerca, innovazione e divulgazione, e con lo sguardo rivolto al contesto nazionale e internazionale, promuove il dialogo tra discipline, competenze e soggetti.

Il tema della ricerca sulla partecipazione alla gestione del patrimonio è stato promosso dalla Fondazione perché tiene insieme più livelli e contesti e cerca di rispondere a più domande.

Quali i fattori abilitanti alla base di tali processi? Quali le competenze chiave e le professionalità coinvolte? Quali gli strumenti messi in campo e gli elementi innovativi?

Di alcuni strumenti sentiamo parlare da tempo; essi hanno diversa natura e si differenziano negli obiettivi.

Tra questi ci sono certamente i partenariati pubblico-privato, numerosi sono ancora i patti di collaborazione – adottati da numerosi Comuni Italiani, che permettono l’attivazione di processi virtuosi attraverso l’applicazione di regolamenti di gestione condivisi tra l’amministrazione e i cittadini, a questi si aggiungono numerose forme di accordi, collaborazioni tra pubblico e privato, e tra privato e privato per la cura e gestione o co-gestione dei beni culturali.

Accanto agli aspetti – evidenti – di innovazione culturale si accompagnano – direttamente connessi – quelli di innovazione sociale.

Ezio Manzini, nelle Politiche del quotidiano, in una sua attenta analisi parla di comunità come di luoghi di conversazione e di comunità intenzionali – in cui si può entrare e uscire, come uno spazio dell’opportunità in cui ci si confronta anche a distanza, grazie al digitale.

Sono comunità di scelta, esattamente come quelle di cui parla la Convenzione di Faro.

Evidenziandone solo alcuni, si comprende quanti siano i temi, i contesti e gli aspetti da indagare.

Con una rilevazione online, aperta a tutte le comunità informali o formali (associazione, gruppi, istituzioni) che operano nella gestione del patrimonio culturale a contribuire, si propone dunque di partecipare con la propria esperienza a questa fase di mappatura e ascolto: per condividere la propria storia, entrare in una rete di realtà vicine e lontane e valorizzare le persone coinvolte.

Nella Mappa delle Comunità saranno individuati i gruppi, le comunità, le associazioni e le realtà italiane, che gestiscono beni architettonici (edifici storici, chiese, ecc…), archeologici (scavi, ruderi, ecc..) e di carattere naturalistico (parchi, giardini, ecc…). 

Perché farne parte? 

  per portare all’attenzione della comunità scientifica e della società civile le vostre esperienze e sottolinearne il valore;

  per diventare parte di una rete che condivide esperienze di gestione, anche nell’ottica di scambio e confronto reciproco;

  per contribuire all’ideazione di momenti di informazione e formazione per valorizzare le competenze di chi anima i processi di partecipazione culturale.

Siamo all’inizio di un percorso e fiduciosi di conoscere storie e compagni di partecipazione culturale.




In bilico tra architettura e design, Franco Raggi si racconta

Architetto, designer, curatore, critico ed editorialista, Franco Raggi ha attraversato, come protagonista impegnato e allo stesso tempo come osservatore smaliziato, le vicende più importanti dell’architettura e del design degli ultimi 50 anni. Gli abbiamo fatto una serie di domande – sul design come disciplina (ma non solo), il suo passato e il suo destino. 

Colonne a metri e “tempiopieghevole 1981.

 

Hai una formazione di architetto, ti sei laureato nel 1969 al Politecnico di Milano. Ma nella tua lunga carriera, non hai progettato solo architetture, allestimenti, e ambienti ma anche oggetti. Quale é per te la relazione tra architettura e design?

La stessa che c’è tra qualsiasi progetto e la realtà che cerca di modificare, anche solo per immagini. Il design lo fa alla scala del corpo e dell’ambiente, l’architettura a quella dello spazio e della città. Non c’è differenza. Qualsiasi progetto cerca di introdurre una variante dinamica e critica nel contesto esistente. Quelle che contano sono le procedure e la interpretazione utile dei vincoli. Senza vincoli e procedure non c’è progetto. Poi una differenza notevole c’è: il design lo puoi fare da solo (o quasi), l’architettura impone relazioni complesse e compromessi.

Protagonista, in quanto progettista, ma anche osservatore e critico, hai analizzato le trasformazioni in atto, a partire dai ruggenti anni 60, quando in Italia si é affermata la cultura del design. Prima come redattore di Casabella (1971-1976), poi come caporedattore di MODO (1977-1981) e poi come direttore (1982-1983), non hai smesso di commentare tali trasformazioni e di dialogare con altri architetti e designer. Come hai conciliato l’azione e la critica? 

In realtà io non ho mai fatto il critico nel senso del critico specialista militante. Ho fatto forse l’osservatore e il cronista usando la mia curiosità come un viatico per osservare il mondo del progetto con un occhio antiaccademico, cercando di scoprire modi di fare capaci di interpretare la trasgressione come una condizione utile. Posso semmai dire che per me l’azione è sempre stata una forma di critica. Il progetto se è buono, o come diceva l’amico Enzo Mari, “proprio”, cambia qualcosa, introduce nuove consapevolezze, svela l’inatteso, rivela le possibilità occulte di una materia, di un gesto, di una forma, gioca ironicamente con le convenzioni del linguaggio prevalente invita alla riflessione e ammette anche il piacere. Mentre il progetto “improprio”, quello che l’amico Alessandro Mendini chiamava “progetto scemo”, rielabora il già visto, lo riveste senza cambiamenti, non induce né squilibrio né imbarazzo, ma anzi conferma l’esistente nella sua mediocre autoreferenzialità.

Quali sono stati i tuoi rapporti con l’architettura radicale? 

I primi contatti li ho avuti nel 1970 a Firenze dove partecipai (come “inviato” dello studio Nizzoli) al concorso per il progetto della Nuova università. Nel gruppo di lavoro c’erano Remo Buti, Mario Preti e Giovanni Sani che insieme al gruppo 9999 gestivano lo Space Electronic, uno spazio multifunzionale high tech, luogo di eventi alternativi e di incontro di molti personaggi delle avanguardie fiorentine (UFO, Superstudio, Archizoom, Zziggurat). Fui emotivamente ed intellettualmente risucchiato da questa ipotesi lucida, anarco-visionaria, con riferimenti concettuali e figurativi espliciti alla cultura pop e alle aporie futuribili dei gruppi inglesi, austriaci ed americani. L’Architettura Radicale fu una spinta intellettuale e comportamentale fortissima che mi aprì verso un universo culturale internazionale e inedito con collegamenti fondamentali anche verso il mondo dell’arte di avanguardia (Land Art, Arte Concettuale, Body Art, Arte Povera). Cominciai a scrivere e a fare disegni e progetti che in qualche modo si allineavano con lo sperimentalismo visionario e dirompente dei gruppi radicali. La cosa che posso dire ora è che questa improvvisa immersione fatta di rapporti personali di confronti esistenziali e di pratica progettuale dissipò ogni “senso di colpa” dovuto al fatto di pensare che si poteva discutere e fare architettura anche senza costruirla. L’assunto provocatorio di Hans Hollein “tutto è architettura” poneva l’accento sulle possibilità che azioni progettuali surreali, ironiche, sconvenienti e anomale potessero cambiare il punto di vista e gli equilibri culturali convenzionali rispetto al mondo stagnante del pensiero d’architettura.

Ingresso ornamental/monumentale 1975.

 

Potresti fare un esempio? 

In quei giorni fiorentini partecipammo anche al concorso “Forum design” di Linz in Austria. Il tema era progettare nella città provocando riflessioni, contraddizioni e possibilità future. Decidemmo con Remo Buti e gli altri di “costruire” un’azione collettiva che influisse sulla percezione della città. Stampammo 10.000 volantini formato A4 con scritta in tedesco una esortazione a fare tutti ad una ora precisa di un giorno preciso “1 minuto di silenzio”. Questi volantini erano impilati in parallelepipedi bianchi che furono lasciati in mezzo alle piazze di Linz e ognuno poteva prenderli leggerli e alle ore 12,00 di un giorno di giugno, fare silenzio. L’assenza di rumori avrebbe offerto la percezione di una città, forse antica o futuribile, sicuramente inattuale. Ho ripensato a quel progetto durante il lockdown di marzo 2020. Le città erano ferme, silenziose e terribilmente magnifiche come forse è stata Linz in quel lontano 1970. 

Commentando la mostra “Italy: the New Domestic Landscape”, che ha celebrato le diverse correnti del design italiano al MoMa di New York, spieghi che l’occasione ti “fornisce alcuni spunti per un discorso generale”45 Franco Raggi, “Italy: The New Domestic Landscape”, in Casabella 366, giugno 1972.. In modo inatteso, dai ragione al curatore, Emilio Ambasz, “quando parla di “senso di colpa” dei designers italiani che, operando in una situazione dove l’impegno sociale, a molti livelli e per conseguenza nella progettazione, è carente, vedono, dietro la brillante facciata del “design”, nascondersi l’abdicazione ai veri impegni di gestione del territorio e della città”. É la critica che anche Manfredo Tafuri esprime, nel suo testo Design and Technological Utopia, contro le “derive surrealiste”46Manfredo Tafuri, “Design and Technological Utopia”, in Italy: The New Domestic Landscape, catalogo dell’esposizione, a cura di Emilio Ambasz, New York, Museum of Modern Art, 1972, p. 388 ss. del design radicale. Ma la tua riflessione ti porta oltre la cronaca dell’episodio newyorkese, e sembra condurti a criticare il fondamento stesso di una definizione del design come ambito disciplinare separato dall’architettura. Scrivi: “la pretesa di costruire per il “design” un universo conoscitivo autonomo è certamente funzionale agli obiettivi produttivi e consumistici di una società che ha nell’obsolescenza dei modelli culturali la premessa alla sua sopravvivenza economica. La condizione di necessità di apparente rinnovamento, che tale meccanismo impone, ha innescato un processo di involuzione, di autoconsumo, che ha determinato lo scollamento disciplinare della progettazione su piani diversi nei quali naturalmente l’architettura, non rientrando facilmente nella logica del consumo, è stata la meno vezzeggiata”…47Raggi, “Italy: The New Domestic Landscape”, op. cit.  

Certo, il grande dilemma per chi, architetto, voleva essere impegnato a sinistra era tra ortodossia centralista con forte dipendenza ideologica e etica (ed anche estetica) nei confronti del Partito Comunista e della linea culturale cosiddetta organica all’impegno sociale del partito, e denuncia radicale verso ogni modello riformista dall’altra. Ma chiederei oggi a Tafuri se la coerenza ideologica a questo impegno da parte degli architetti abbia prodotto alla fine della buona architettura o almeno un positivo e progressivo rapporto con l’evoluzione del paesaggio costruito. É davanti a tutti noi il disastro estetico/ecologico del concetto di megalopoli e il fallimento dell’urbanistica nel governare i processi di crescita e di organizzazione armonica della città. Posso dire che il design, allora rampante e culturalmente pervasivo, fu un luogo ideale di sperimentazione e pratica di un approccio critico antiformalista e antifunzionalista senza nulla togliere alla forza rivoluzionaria che sul piano del costume e della cultura dell’abitare ebbero le figure degli architetti/designers degli anni 60/70. Insomma la rivoluzione che non riuscì a fare o rappresentare l’architettura la fece in modo caotico e vitale il design proponedosi come una disciplina inclusiva, antitecnica e direi anche filosofica. 

Nel 1973, hai collaborato insieme a Aldo Rossi e Gianni Braghieri, per il film Ornamento e delitto, un’opera manifesto… 

In realtà è stato un caso della storia nel quale sono entrato volentieri. Io non ero rossiano ma mi piaceva il suo mondo figurativo metafisico e antimoderno. A Rossi interessava la mia conoscenza di contesti internazionali e di architetti interessanti per la sua visione “razionale” extraeuropea e mi chiese di collaborare alla Triennale del 1973. Rossi amava il cinema, voleva fare un film sull’architettura usando frammenti di film, immagini di repertorio, citazioni letterarie. Una sorta di Città Analoga fatta di immagini in movimento, di parole, di citazioni e suoni. Ornamento e delitto è comunque un’opera di Aldo Rossi e per una svista notturna del titolista finii tra gli autori. 

Il 1973 é un anno chiave. La XV Triennale di Milano é il luogo del confronto tra due “ipotesi di lavoro radicali sul Progetto come strumento di conoscenza e trasformazione sociale”48Franco Raggi, Radicalismi e diaspora creativa, testo inedito, 2017.: la Sezione di Architettura curata da Aldo Rossi e la Sezione Design curata Ettore Sottsass e Andrea Branzi, ovvero Tendenza versus Radical Design. Tu collabori contemporaneamente con Rossi alla mostra e presenti attraverso Casabella il lavoro dei gruppi Radical. Come spieghi in un commento più tardo, hai da sempre identificato una matrice comune ai due movimenti – che Branzi ha chiamato “gemelli eterozigoti”49Andrea Branzi, Una generazione esagerata. Dai radical italiani alla crisi della globalizzazione, Milan, Baldini & Castoldi, 2014, p. 16.. Per te anche la Tendenza esprimeva una forma di radicalità “nel momento in cui propugnava la totale autonomia della architettura dalle teorie economiciste e sociologiche e dalle forme omologanti dell’International Style allora imperante”50Raggi, Radicalismi e diaspora creativa, op. cit.. Situandoti tra i due fronti, hai tentato una mediazione? 

Sì, è vero, forse ho tentato una impossibile mediazione. In effetti, la vicinanza ai gruppi radical e la contemporanea collaborazione alla Triennale di Rossi possono sembrare una contraddizione. Ne ho scritto per spiegarla anche a me stesso. Ritengo che la Tendenza rossiana e l’Architettura Radicale fossero entrambi atteggiamenti “radicali” con fondamenti di grande interesse e modi diversi di opporsi alla deriva tecnocratica non tanto dell’architettura quanto dell’economia e della società stessa. Scelsi però di appartenere al movimento che non mi chiedeva militanza, rigore formale e fedeltà al Maestro, ma lucidità critica, disponibilità sperimentale e nomadismo culturale.

Sedia travestita da finestra, 1982

 

Sempre nel 1973 l’IDZ (Internationale Design Zentrum) di Berlino ti ha commissionato la curatela e l’allestimento della prima mostra critica sul Design Radicale Italiano. Quale è stato il tuo approccio? 

La mostra all’IDZ, voluta da Francois Burkhardt, riguardava il “caso Italia”, presentava tre diversi approcci italiani alla cultura del progetto (gli altri due erano il Design affidato a Vitttorio Gregotti e il contesto sociale affidato a Carlo Guenzi). Io partii immaginando che dovevo raccontare per la prima volta un movimento o un fenomeno che nel frattempo aveva già dissolto la sua compattezza teorica e mediatica. Quindi impostai il racconto sui personaggi singoli e descrissi tassonomicamente in un saggio opere, storie, intrecci, fondamenti, visioni e avversioni presenti in questa nebulosa. E conclusi parlando proprio dell’unico e ultimo progetto possibile, un progetto collettivo dei gruppi Radicali: una scuola, “un luogo dove provare” come lo definì di lì a poco Ettore Sottsass.

Veniamo appunto all’utopia breve della Global Tools. Che bilancio fai di quest’esperienza? 

La mostra del MoMA celebra i Radicals e ne sancisce anche la mutazione lasciando intuire percorsi e destini divisi e incrociati, che tuttavia si ricompattano in un nuovo progetto collettivo, antiautoriale e anzi didattico. In effetti la necessità di confronto e di evoluzione aprì una discussione sul “cosa” e sul “come” fare e l’ipotesi Global Tools sembrò un’appropriata camera di scoppio per far decollare nuove sperimentalità legate non tanto alle opere in sé, quanto ai procedimenti e ai modi di coinvolgimento verso l’esterno. Insomma un progetto didattico per agire, indagare e fare sperimentazione sui temi e comportamenti primari della creatività individuale come forma di liberazione. I documenti preparatori testimoniano un notevole lavoro di confronto teorico e programmatico. Il seminario della Sambuca nel ’74 fu un vero momento di ri(e)voluzione dei gruppi radicali e se non fosse abortito avrebbe portato a risultati imprevedibili… Ma forse proprio per questo fallì51Cf. Valerio Borgonuovo, Silvia Franceschini (a cura di), Global Tools 1973-1975. Quando l’educazione coinciderà con la vita, Roma, Nero, 2018.. 

A Global Tools, accanto agli architetti radical, hanno aderito e, in alcuni casi, partecipato, anche artisti e critici d’arte, in particolare quelli dell’Arte Povera – tra cui Germano Celant e Luciano Fabro, ma anche Giuseppe Chiari. Qual é stato il loro apporto?

Fu un apporto di sincera adesione e condivisione del progetto ma purtroppo a parte nel caso di Davide Mosconi, Nazareno Noia e Franco Vaccari, non divenne mai veramente operativo. 

Vorrei che mi parlassi del seminario Il corpo e i vincoli. 

Nei programmi Global Tools ci dividemmo in gruppi di ricerca che dovevano approfondire i temi e progettare l’attività didattica. Io, Sandro Mendini, Davide Mosconi e Nazareno Noia scegliemmo il tema del CORPO. Gli altri gruppi erano Costruzione, Comunicazione,Teoria e Sopravvivenza. Elaborammo un elenco ricchissimo di campi di indagine nei quali il corpo umano era protagonista (corpo fisico e anche corpo mentale). Poi restringendo il campo per poter iniziare una attività di tipo seminariale, un workshop diremmo oggi, cominciammo a lavorare sul tema dei vincoli, come strumento fisico capace di generare azioni di progetto concrete sul corpo e sulle sue parti. I vincoli (al movimento, alla visione, all’ascolto, al camminare, allo stare…) erano condizioni capaci di produrre oggetti che generavano percezioni impreviste. Pensammo e costruimmo protesi, occhiali, scarpe, arredi, maschere, con questa intenzione di produrre una specie di spiazzamento sensoriale che sottintedesse una sorta di “ergonomia inversa”. Oggetti disfunzionali, invece che funzionali, come strumenti di auto indagine sul proprio corpo. 

Facciata cieca su ruote, travestita. 2005

 

Nel 1974 realizzi la tua Tenda rossa – come é nato questo progetto? 

Nel 1972 e 1973, oltre al lavoro di redattore, cominciai a fare degli schizzi di “pensieri grafici”, progetti su possibili paradossi linguistici, legati all’accostamento di opposti: case dentro case, muri in bilico, roulotte incastrate in un muro, relitti di barche con dentro una capanna… Cose e visioni che mi sarebbe piaciuto veder realizzate. Un giorno ho disegnato una tenda di forma archetipa, morbida e instabile, povera ma perfetta, dipinta come un piccolo tempio dorico. Era un oggetto semplice da fare e lo feci in modo un po’ brutale con dei lenzuoli trovati e tinti e poi il tempio disegnato a mano con le colonne convergenti in un punto lontano. È stata la mia prima opera di grande dimensione, il primo progetto che capii di voler vedere fatto. Un progetto inutile però fondamentale. Un ossimoro architettonico. Stabile/instabile, ricco/povero, pesante/leggero. É strano come certe idee non vengono a te ma sei tu che quasi vieni a loro involontariamente. 

Nel 1975-76 sei stato segretario coordinatore della Sezione Arti visive della Biennale di Architettura di Venezia, realizzando la mostra “Europa/America” – Architetture urbane/alternative suburbane. Quale era la prospettiva di quest’esposizione? 

Era un confronto disciplinare, teorico e poetico sul fare architettura a partire dall’eredità del Movimento moderno. Condizione vissuta nei due continenti speculari e spesso opposti, l’Europa e l’America. La storia densa e vincolante della città europea e la pragmatica libera sperimentalità del nuovo mondo e l’uso strumentale quasi accessorio della storia. 

 

Nel 1976 il postmoderno non era ancora sdoganato e io e Gregotti cercammo di documentare in modo tematico la transizione in corso tra la ortodossia etica ed estetica del Movimento Moderno e la pluralità degli approcci che il contesto contemporaneo corrompeva in modi anche salutari. Ad esempio con letture lucide e ciniche alla Bob Venturi e i richiami all’ordine di Oswald Mathias Ungers. In mezzo figure oggi mitiche come Aldo Van Eyck, Raimund Abraham, Alvaro Siza e Hans Hollein. Credo sia stata importante anche perché alla mostra seguì un convegno dal titolo “Quale movimento Moderno?” con la presenza di tutti incluso Manfredo Tafuri. Gli atti purtroppo sono andati perduti.

Come si é operato, per te, il passaggio dal moderno al post-moderno in Italia?

La nostra, quella italiana, è stata una modernità attenuata e condizionata dalla presenza vitale ed ingombrante della storia e della politica. Il Fascismo assunse l’architettura razionalista strumentalmente come linguaggio rivoluzionario e di rottura, ma quando si accorse che la “romanità” esulava dal vocabolario dei moderni razionalisti sposò il monumentalismo piacentiniano. In realtà non si può parlare di transizione dal moderno al postmoderno senza considerare l’eredità cospicua del ‘900 in architettura. Movimento che ha disegnato il volto di molte città, Milano per prima e che ha mediato in chiave mediterranea e storicista il rigore intransigente dell’architettura razionalista. Figure come Andreani, Muzio, Portaluppi, Ponti, Moretti, sono il ponte tra storia, modernità, e postmodernità nell’architettura italiana e aprono la strada ad una sorta di ibridazione e mediazione continua tra storia e modernità. BBPR, Albini, Gardella, Caccia Dominioni, sono solo alcuni esempi di questa originalità italiana nell’interpretare attraverso il “mestiere” dell’architetto il passaggio al postmoderno. Che tra l’altro mi è sempre sembrata una categoria critica piuttosto vaga ed inclusiva. 

Il progetto Metamorfosi (Medea, 1988-89) sembra rispondere alla proposta di Alessandro Mendini, di operare attraverso delle operazioni di redesign. Quale é la storia di questo progetto? 

Non credo di poter ascrivere quel progetto alla pratica del redesign teorizzata da Alessandro. Lo inscrivo piuttosto come variante arredativa dei miei procedimenti concettuali di contrapporre gli opposti. In realtà nella metamorfosi non c’è un redesign della poltrona liberty inglese e nemmeno di una ipotetica sedia moderna. C’è solo il brutale accostamento di diversità stilistiche e temporali che genera squilibrio ed energia. Tagliare a metà le cose e vedere cosa succede sui confini è una pratica sadica che mi appartiene e mi incuriosisce. Sui confini tra diversità avvengono sempre scintille. 

Sedia Metamprphosi 1. 1988

Come vedi il futuro del design? 

Non lo so, non voglio azzardare previsioni, non so farle, al massimo posso puntualizzare disagi, criticità e tensioni culturali che potrebbero e dovrebbero darci delle direzioni di pensiero e di metodo.

In realtà, posso dire che il modo migliore per fare previsioni è quello di guardare al passato, intendo un passato recente nel quale già sono presenti le criticità e le questioni che anche oggi si pongono a chi opera come progettista con l’intento di migliorare lo stato delle cose e il nostro rapporto con lo spazio abitato.

Qualche anno fa rispondendo alla stessa domanda ricordai appunto tre personaggi che nella cultura del progetto e del design ci hanno illuminato con le loro visioni e la loro forte componente critica, concettuale e propositiva. Te li ripropongo: 

1964. Cedric Price con il suo mai realizzato Fun Palace propose una architettura “eventuale” slegata dalla rigidità dello spazio e della funzione, aperta e disponibile, senza forma univoca, adattabile ad usi temporali e funzionali diversi. Un’architettura che interpretava fisicamente l’evoluzione del concetti di tempo e di spazio ed elaborava un linguaggio ibrido, tecnologico e circense, promotore delle forme provvisorie e nomadi di una società in movimento. Un oggetto legato alle forme dell’uso e non alle forme rigide e mute di un linguaggio autoreferenziale.

1971. Viktor Papanek pubblicava Design for the Real World, suggerendo, in piena espansione ottimistica della società dei consumi, una prospettiva in controtendenza per la cultura del progetto52Pubblicato in italiano nel 1973, con la traduzione di Guido Morbelli, il volume Progettare per il mondo reale (Design for the Real World, 1971) di Victor Papanek è fuori commercio da più di 40 anni. Una nuova edizione critica è in preparazione, a cura di Alison J. Clarke ed Emanuele Quinz, per Quodlibet. L’uscita è prevista alla fine dell’anno 2021. . Il messaggio di Papanek, in sintonia con i movimenti ecologisti della fine degli anni ‘60, si proponeva come un pratico manuale per realizzare nei fatti quella autarchia domestica che era omologa sul piano della produzione di oggetti alla rivoluzione libertaria dei figli dei fiori e al rifiuto non violento dei modelli ambientali ed economici prevalenti. Penso a Papanek oggi proprio per la portata trasversale del suo pensiero utopico e realistico insieme. Utopico nella spinta, attraverso la diffusione di una informazione alternativa sui modi di fare, verso una diversa cultura del prodotto e del progetto. Realistico perché rivolto all’azione pratica, all’uso di strumenti e materiali a disposizione di tutti e soprattutto attento ad una fondativa ecologia del progetto come filosofia per la conservazione del pianeta. Il design come disciplina allargata ha bisogno oggi di visioni capaci di riaprire un dialogo meno distruttivo tra l’uomo e l’ambiente costruito e non. 

2018. In una recente videointervista Dieter Rams (87 anni) ha riproposto a livello progettuale la mitologica contrapposizione tra Dioniso e Apollo. Il linguaggio asciutto, lineare di classica bellezza del “noioso” e anodino design di Rams appare oggi quasi profetico e terapeutico di fronte alla deriva dionisiaca e superficiale di molta produzione corrente. Alla domanda del perché non avesse mai progettato una automobile, Rams risponde che più che disegnare e ridisegnare sempre più sofisticate, pesanti, ingombranti automobili, gonfie di misteriosa elettronica, bisognerebbe riprogettare prima il traffico cioè il sistema nel quale le auto e le persone si muovono, vivono e si relazionano. Rams ci insegna un design riflessivo e non compulsivo che si oppone alla proliferazione bulimica di forme che si autoinflazionano, avvitandosi in una spirale narcisistica dove il senso sfugge e l’io si appaga di breve e simbolico possesso. “Meno e meglio” è un imperativo estetico e morale insieme, che chiede di applicare un pensiero progettante con parsimonia, umiltà e poesia. Ma anche penso che oggi l’inattualità e la retrospezione possano aiutare nel ritrovare un senso al proprio fare. 

Forse, ho nostalgia per una età delle sfide dove il design era anche rifiuto, visione, rischio, e spiazzamento semantico; in una parola: politica. 

Disegno per tessuti con frammenti di architettura. 2019

 


Immagine di copertina: Franco Raggi, La Tenda Rossa della Architettura, 1975




Come conoscere la mutazione culturale generata dal Coronavirus

Il 6 gennaio 2021, a poco meno di un anno dallo scoppio dell’epidemia di Coronavirus in Italia, i principali siti d’informazione annunciavano, con grande clamore, la notizia di una folla rabbiosa che negli Stati Uniti stava assalendo la sede del Congresso a Washington D.C..

Da mesi si erano concluse le elezioni presidenziali che avevano visto prevalere Joe Biden, la cui vittoria non era stata, però, riconosciuta dal presidente uscente Donald Trump. A partire dal novembre 2020 la rabbia dei suoi sostenitori era montata di settimana in settimana, alimentata dalla frustrazione e dalla convinzione che la risicata affermazione democratica fosse dipesa da brogli elettorali.

In un crescendo di tensioni, il Tycoon sconfitto radunò i suoi seguaci a Washington proprio il giorno in cui il Senato doveva formalizzare la vittoria di Biden. L’assalto della folla fu repentino quanto massiccio: i manifestanti penetrarono con violenza nel palazzo senatoriale, prendendo di sorpresa le esili forze di sicurezza schierate a difesa delle sedi istituzionali. Negli incidenti si contarono 140 feriti e 5 morti. Per l’intera giornata il mondo, incredulo, assistette col fiato sospeso al dramma in corso.

La tragedia fu scambiata, inizialmente, per farsa quando le immagini rimbalzate nella rete restituirono un variopinto quadro d’insieme: quasi tutti i manifestanti non indossavano la mascherina protettiva contro la pandemia, ma sfoggiavano le più svariate divise, sventolando le più disparate bandiere.

A colpire l’attenzione, fu, in particolar modo, l’aspirante attore Jake Angeli, travestito da guerriero vichingo, con in capo un elmo fatto di corna di bufalo, mentre tronfio e ridicolo occupava lo scranno del Senato. A uno sguardo più attento, però, non poteva sfuggire l’impressionante concentrato di simboli e sigle che si richiamavano alle diverse anime dell’universo cospirazionista: dai negazionisti del Coronavirus a quelli dell’Olocausto, dagli antisemiti alle sette neopagane, dall’estrema destra del Partito repubblicano alle chiese evangeliche integraliste, dalla rete dei gruppi bianchi-suprematisti all’arcipelago della destra eversiva.

Tra gli assalitori, di cui molti giovanissimi, non erano pochi i reduci delle guerre combattute dagli Stati Uniti nell’ultimo ventennio. Lo stesso Angeli apparve in una luce inquietante quando si apprese essere uno degli “sciamani” di QAnon, tra i movimenti cospirazionisti di massa sorti in rete, con aderenti perfino all’interno delle forze armate statunitensi.

L’assedio al Senato, prima di apparire come una traumatica cesura politica, non solo per la storia degli USA, rivelò la profondità della mutazione culturale intervenuta in questi anni che l’epidemia di Coronavirus-19, ancora in corso, ha accelerato in maniera vertiginosa. Bisogna interrogarsi a fondo su questi cambiamenti: il «senso del grottesco» con cui si maschera oggi la politica e l’affermarsi, attraverso le tradizionali emittenti televisive e le tecnologie digitali, di una nuova cultura di massa dal volto deforme e multiforme allo stesso tempo. 

È la domanda che attraversa le pagine del diario intellettuale tenuto da Pietro Polito, direttore del Centro studi Piero Gobetti e responsabile dell’Archivio Noberto Bobbio di Torino, nel corso dei primi mesi della pandemia di COVID-19. Le riflessioni sono, poi, confluite in un agile libro, La cultura dell’iniziativa, pubblicato per le Aras Edizioni di Fano alla fine del 2020. Il volume ruota attorno ad un interrogativo centrale: se e in quale misura l’emergenza sanitaria abbia trasformato la cultura, mutandone la sostanza e deviandone le finalità. 

Polito non cede alla tentazione di calarsi nei panni del profeta, evitando di preconizzare il futuro, offrendo, piuttosto, al lettore una serie di strumenti di analisi. A partire dall’esperienza individuale che ciascuno di noi ha vissuto nei mesi del confinamento: la solitudine e con essa la paura dell’incognito. Attraverso un fitto confronto con i testi di Gobetti e Gramsci, costantemente richiamati nel testo, la paura viene mostrata come momento disvelatore della crisi globale di civiltà. La riflessione porta al cuore dell’Europa tra le due guerre mondiali e alle molteplici poste in gioco che allora erano sul tavolo. Per molti aspetti–  ci viene suggerito – oggi stiamo vivendo in uno scenario analogo. La cultura, nella sua sostanza di «forza mite», razionale e persuasiva (p. 27), può ancora tracciare un percorso attraverso il quale incanalare le tante e contrastanti energie in movimento. 

Difficile, tuttavia, capire come. Proprio in un momento in cui, come ha richiamato più volte la filosofa Martha C. Nussbaum, è in corso la più profonda crisi del sapere e dell’istruzione pubblica dell’età contemporanea. Tra le molteplici cause, l’impatto, innanzitutto, cognitivo delle tecnologie digitali, ma che sole non bastano a spiegare la deriva galoppante. Piuttosto è il loro impiego subalterno alle logiche dell’iper-capitalismo a fare la differenza, una forza motrice paurosa in grado di far combaciare la strumentalità tecnica con la sua finalizzazione. Polito, in tante pagine, torna sulla distinzione gobettiana tra «cultura della genialità» e «cultura dell’iniziativa», facendo coincidere la prima con una cultura dell’immediatezza, tipica dell’età digitale, destinata ad auto-consumarsi e autoriprodursi in un ciclo continuo; la seconda, invece, combacia con un sapere di tipo neo-illuministico (p. 69), visto, a ragione, come l’unico antidoto a cui ricorrere.

Tuttavia, la cultura in sé non basta, come non è sufficiente reimpostare il sapere nella giusta direzione. Ne è consapevole Polito che pone in diverse pagine l’interrogativo di come riformulare il rapporto tra politica e cultura. La pandemia ha avuto immediate ricadute politiche e sociali, ha aperto uno squarcio su un movimento di fondo dell’intera civiltà globale: in questo senso, parafrasando Gobetti, è stata «un’autobiografia della specie» (p. 27). I grandi squilibri che ne conseguono possono, però, ingenerare un paradosso: la tentazione, cioè, di rinunciare al conflitto e alla «funzione educativa del contrasto», come scriveva nel 1922 l’intellettuale torinese di fronte al dilagare del fascismo (La Rivoluzione liberale, Einaudi, Torino 1971, p. 147).

In maniera del tutto simile, infatti, ovunque il populismo, in qualsiasi forma si è presentato in Europa, ha riprodotto la medesima dinamica, costruendo la sua ragion d’essere sul rifiuto stesso della dialettica politica, vuoi in ragione del tradizionale appello al popolo, di per sé in grado di assorbire qualsiasi contrasto, vuoi in obbedienza alla potenza dell’algoritmo digitale, sintesi e superamento di ogni divisione. La società del futuro non sarà certo liberale, la realtà post-pandemica ci sta consegnando nelle mani di un potere disciplinante e verticale. Sarà possibile sfuggire a questa morsa? Lo stesso Polito riflette sulla necessità di riscoprire, nel mondo che verrà, il diritto alla Resistenza, non-violenta e ispirata ai principi del neo-illuminismo (p. 57). In fin dei conti, a conclusione del suo diario, l’autore ci ricorda l’esistenza di una vasta rete informale di associazioni, movimenti e realtà sommerse, a carattere inter-generazionale (p. 79), il cui potenziale non è stato ancora utilizzato sul piano politico, prima che intellettuale.

Sono forse, queste, le pagine più stimolanti, anche per lo sguardo retrospettivo che necessariamente si apre. C’è da interrogarsi, infatti, quanto la questione generazionale abbia pesato sulla mancata riflessione culturale, soprattutto in Italia dove i rapporti di forza tra generazioni sono inversamente proporzionali rispetto ad altri paesi, con i giovani in posizione marginale e minoritaria. È esistita, a partire dagli anni Novanta, con la transizione dalla prima alla seconda Repubblica (per quanto imprecisa sia questa sintesi) e con il passaggio dall’ordine internazionale della guerra fredda all’ordine multipolare, l’ipotesi di una proposta culturale giovanile autonoma? S’intende in ordine alla possibilità che essa potesse prendere forma all’interno dei rapporti di potere, non come mera libertà d’espressione o come agibilità di uno spazio politico pur sempre garantiti in democrazia. Forse è troppo tardi per rispondere a questa domanda, ne varrà la pena sul piano storico, non c’è dubbio, tanto più perché sarebbe corretto parlare, oggi, di una molteplicità di questioni giovanili, visto il susseguirsi di generazioni sulla scena politica e sociale che non hanno avuto, però, alcuna reale possibilità d’incidere. 

D’altronde lo stesso Gobetti, nella Torino del primo dopoguerra, vedeva il carattere innovatore dei Consigli operai, sorti sull’onda dei conflitti di fabbrica che segnarono quella tormentata stagione, nella loro capacità di generare una forza autonoma, in grado di esprimere un «potere accanto e contro» a quello degli altri attori sociali (La Rivoluzione liberale, cit., p. 111). C’è da augurarsi che la cultura possa tornare a funzionare come strumento d’orientamento alle energie che dappertutto sono oggi in movimento: il rischio, altrimenti, è che la crisi globale di civiltà venga pericolosamente declinata a destra e che le nuovissime generazioni si rivolgano, per una sua soluzione, verso direzioni autoritarie, quanto capaci ed efficienti.




Il Guilmi Art Project fa incontrare un paese di 400 abitanti con artisti internazionali

Guilmi è un paese abruzzese di circa 400 abitanti, a un’ora di strada dalla costa. Qui Lucia Giardino e Federico Bacci hanno aperto nel 2007 GAP – Guilmi Art Project, un progetto di residenza che chiama un artista ogni anno a produrre un’opera che si pone in dialogo a vari livelli con il paese e con i suoi abitanti. Interrogandosi sul bisogno di mantenere uno sguardo “straniero” rispetto alla località e sulla centralità che gli aspetti educativi hanno sempre avuto nel progetto, per il quarto appuntamento di Comunità Contemporanee Giardino e Bacci affrontano il percorso finora compiuto e una riflessione sul futuro.

Emanuela Ascari Luogo Comune Guilmi Art Project Vis a Vis Guilmi, 2012

 

Che tipo di richiesta fate agli artisti che invitate in residenza?

Chico Bacci e Lucia Giardino: di lavorare non “sul” ma “nel” territorio. Non chiediamo di fare progetti partecipativi. Non vogliamo format. Diamo libertà agli artisti ma devono sapere che stanno dentro un progetto, che c’è una cornice data dal territorio e dalle sue reazioni. Il progetto deve essere sostenibile dal punto di vista economico. Produciamo le opere.

La vostra differente formazione di storica dell’arte, Lucia, e di regista e producer, Chico, vi porta ad assumere ruoli diversi nell’organizzazione di GAP? Quale è il vostro modo di lavorare in coppia?

Bacci: Lucia fa studio visit e conosce l’artista. Io lo porto in auto a Guilmi per un sopralluogo. Attraversiamo l’Italia da Firenze passando da Norcia con una vecchia Mercedes, così ci si rende conto del passaggio, vedi l’Appennino, cambia un mondo. Durante il viaggio ci si conosce. Accompagno l’artista nei posti che io e Lucia abbiamo conosciuto negli anni in Abruzzo, diamo degli input rispetto a una nostra logica di vita. È un brain storming tra me e l’ospite. Dopo il sopralluogo si può non proseguire, ma accade raramente. Lucia si mantiene a distanza. Poi arriva, segue la residenza, dà la misura. Allora mi stacco, penso all’allestimento, esce fuori la mia anima di producer.

“Noi all’inizio eravamo a-progettuali per scelta, nascevamo in maniera spontanea, come i workshop con amici artisti e architetti.”

La famiglia di Lucia è di Guilmi. Per questo vi siete trovati a fondare un progetto in questo luogo. Quale è stato l’input per l’avvio?

Giardino: i miei genitori ci hanno comprato una casa senza dircelo, ci siamo chiesti cosa farne. Nel 2007 testiamo il terreno con mostra. Dopo un anno di pausa, nel 2009 invitiamo il primo artista, Marco Mazzoni, che lavora con otto signore del luogo. Allora a Firenze insegnavo Young Italians [un corso su giovani artisti italiani che prevedeva una parte sulla formazione] e facendo la tesi di specializzazione sul tema delle residenze d’artista. Ho pensato: facciamola a Guilmi. In quegli anni non era ancora una delle pratiche del fare contemporaneo in Italia.

Quando GAP è nata, le residenze per artisti non erano ancora così diffuse e centrali per lo sviluppo della ricerca artistica. Oggi il fenomeno è esploso, e molti progetti sono fondati con fare programmatico. Negli anni siete andati incontro a una maggiore strutturazione. Quali sono i nodi di questo passaggio?

Bacci: le prime residenze, come A cielo aperto a Latronico e la nostra, devono riuscire a trasferire un’eredità positiva, perché c’è il rischio di una standardizzazione dei progetti di residenza, in ciò che potremmo chiamare “villeggiature d’artista”. Noi all’inizio eravamo a-progettuali per scelta, nascevamo in maniera spontanea, come i workshop con amici artisti e architetti, allievi di Alberto Magnaghi, Giancarlo Paba, che ci hanno fatto progredire. Il mondo dell’arte ha iniziato a venire. Le aspettative degli artisti crescevano, ma anche le nostre, e del paese. Iniziamo a pensare che il progetto potesse diventare strutturato, per offrire un “palinsesto” ordinato agli ospiti e al pubblico. All’inizio le persone venivano a Guilmi per stare assieme, era una comunità. Poi c’è stata la professionalizzazione: Lucia dice che ha allontanato gli amici perché ha portato il calcolo e la convenienza in processi prima spontanei e di sperimentazione. Siamo sicuri che la crescita sia necessaria?

Fabrizio Prevedello inaugurazione di A Guilmi non piove mai, Guilmi Art Project, 2013

 

Giardino: la genesi è effettivamente così. Ringrazio Chico perché è la sua vena visionaria ad avere dato propulsione al progetto. Formata da storico dell’arte, io ho bisogno della sintesi di ragionamento per dare un senso alle cose, perciò ho iniziato a scrivere sul sito di GAP, producendo narrazioni per il mondo dell’arte e per il paese. Scrivendo ho capito ad esempio quanto ha giocato nella genesi di GAP l’essere stata una studentessa di Enrico Crispolti. Ci litigai, ma mi formò tantissimo. Mi sono resa conto che stavo facendo quello che Crispolti faceva negli anni settanta, con le dovute differenze.

Incanali la spontaneità in una forma più strutturata. È un passaggio forse inevitabile. Quale futuro vedete per GAP?

Bacci: la strutturazione richiede finanziamenti, tutoraggio. Questo è il nodo. Un’ipotesi è sviluppare una cooperativa di comunità, ma vi sono regole regionali di difficile applicazione. Inoltre c’è la necessità di preservare ciò che abbiamo fatto – e le opere che ne sono testimonianza – in un luogo fisico pubblico.

Cosimo Veneziano Mappa del percorso di mORALE Guilmi Art Project, 2017

 

Giardino: io credo che GAP debba offrire più continuità sul territorio. Se diluiamo la presenza in appuntamenti biennali, come deciso nel 2017, si sfocano le ragioni per stare a Guilmi. Esserci senza progetti significa diventare più locali, adeguarsi a una diffusa accidia culturale. Lavorare ad anni alterni equivale a scolorire le istanze di GAP e dei singoli progetti. Il nostro luogo d’incontro con la comunità è uno storytelling con convenzioni, ruoli e linguaggi, che si indebolirà proporzionalmente all’assenza sul territorio.

Sentite la necessità di costruire una posizione anche in riferimento al sistema dell’arte?

Giardino: è così. Ho la necessità di mettermi da sola di fronte a un monitor e sintetizzare quello che facciamo per dargli un senso e stabilire una comunicazione con l’esterno. Il riscontro dal mondo con cui mi confronto legittima i miei pensieri e il nostro agire periferico. Agli artisti produciamo le opere e ci muoviamo per attivarle anche oltre Guilmi, come è accaduto ad esempio con il progetto Avanzi (2015) di Elena Mazzi. Guilmi può viaggiare con la ventricina (ndr. salume tipico), perché non con l’arte?

Lucia prima parlavi del bisogno di dare una continuità culturale al progetto e di mantenere viva la narrazione rivolta al paese, mi piacerebbe che tornassi su questo punto, mi sembra centrale. 

Giardino: Narrare è usare un linguaggio che s’impara reiterandolo, se non si pratica si dimentica ed è un compromesso con l’altro. Le relazioni di vicinanza, l’affetto, l’empatia del paese mi fanno piacere, ma mi fa più piacere sentirmi parte di un progetto che condivide una visione e un linguaggio. Ho imparato dalla comunità ma l’art world è l’aspetto culturale che mi manca.

Gap nasce come uno spazio di intermediazione tra mondi.

Giardino: lo è, il posto ci chiama. Dei principi di “etica” contro che ci appartenevano hanno conformato la ruralità di GAP. Si potrebbe fare di più: anche noi potremmo radicarci qua come il progetto. Siamo nel nodo. Alla fine questi progetti resistono se diventi local ma io non voglio diventarlo.

Bacci: quando una banda suona, ti accordi. L’aspetto bello per me è la capacità dell’arte di creare cortocircuiti. È come un misterioso diapason che entra in vibrazione. Per merito di questa vibrazione entriamo in contatto con il paese. Queste vibrazioni esistono. Le abbiamo trovate. Diventa difficile, però, se a un certo punto non hai qualcuno che ti legittima.

Quando parlate di legittimazione, da parte del paese, della politica, del sistema dell’arte? 

Bacci: il mondo dell’arte e le persone del paese ci hanno legittimato. Sarebbe servita una legittimazione più di tipo strutturale. Quale può essere un sistema per cui i progetti virtuosi possano essere riconosciuti? La questione è anche un riconoscimento a livello ministeriale.

Giardino: quando agisco sul luogo e qualcosa si muove in campo culturale mi aspetto una legittimazione in campo amministrativo. La politica DEVE captare le situazioni culturali. Se faccio un lavoro di ricucitura che devi fare tu politico, allora voglio la delega. Il Consiglio regionale d’Abruzzo chiama le associazioni a raccolta per spiegare le nuove linee guida in campo culturale e mi dice di chiamare la RAI per la visibilità!? Non ci interessa! È la struttura amministrativa e politica che ci deve riconoscere!

Che tipo di riscontro dal territorio pensate di avere avuto? 

Giardino: se batti il ferro finché è caldo, il riscontro ce l’hai ed è evidente dal linguaggio comune che è il metro dei tuoi progressi. Dò molto peso al linguaggio. A un certo punto ho avuto la percezione che GAP, l’amministrazione e la comunità stessero facendo un percorso comune verso gli stessi obiettivi, ma è stata un’illusione. Stando fissi in paese, forse costituiremmo una massa critica che di fatto non c’è; ci sono relazioni basate sull’empatia. Se siamo meno presenti, anche quelle si allentano. Ho usato la contrapposizione professionista/familiare nel descrivere il progetto mORALE (2016) di Cosimo Veneziano: se sei troppo familiare, in nome dell’empatia che ci rende tutti amici, radi al suolo le istanze culturali. Conoscere tutti in paese ha fatto sì che non si parli più di cultura, dunque quel linguaggio non viene più sviluppato o praticato. Dobbiamo invece alimentarlo. Altrimenti il patrimonio che abbiamo costruito si sperpera.

Nel tuo discorso affronti due punti importanti. La necessità di mantenere una sorta di estraneità rispetto al luogo e la dimensione del linguaggio.

Giardino: è fondamentale che venga sempre qualcuno da fuori, che ci siano ospiti che innescano un processo in/out. Personalmente non sento l’obbligo di diventare rurale. Rimanere straniero, portando nuove visioni, è fondamentale per non sclerotizzare un progetto e il paese.

Sostieni la necessità di possedere e formare un vocabolario.

Giardino: sì, è uno dei punti chiave del progetto mORALE di Cosimo Veneziano. Può essere bello avere un quadretto dentro casa, ma è quando hai il linguaggio per raccontarlo che gli dai valore. Ho iniziato a ragionare sul linguaggio a proposito dell’opera Luogo Comune (2012) di Emanuela Ascari. È un cubo, fatto con la terra prelevata da un sito archeologico dove sono stati trovati i resti di una torre, apparentemente del XII secolo, che fa risalire il paese a un’epoca remota. All’inaugurazione della mostra sul ricamo (2007) era venuta una donna con i nipoti. A fine serata i nipoti chiedono di togliere le loro firme dal libro delle presenze e cancellare le fotografie fatte al pubblico in cui era presente la nonna, perché lei diceva che dentro c’è il maligno. C’è un pensiero articolato, legato a credenze ancestrali. Cancelliamo tutto, come richiesto. Quando presentiamo il cubo di Emanuela al paese, l’artista racconta la storia del ritrovamento del sito, innescando da parte degli abitanti ricordi e leggende di cimiteri antichi e chiese perdute. La stessa donna, che era presente, mi chiede se la forma – non usa la parola cubo, credo che non la conoscesse – avesse davvero dentro i resti di un morto. Le erano rimaste in mente poche cose ma è stato il punto su cui ci siamo incontrate, questa donna ha iniziato ad acquisire il vocabolario per raccontare. Allora mi è scattata la necessità di instaurare un dialogo. Il fatto che lei avesse fatto lo sforzo di chiedere mi ha fatto capire che dobbiamo lavorare sui processi cognitivi e sull’incontro dei ragionamenti (dia-logoi), quando c’è un linguaggio che si sforza di esistere. È stato bello, un processo di conoscenza anche per me.

Il progetto Nuova Didattica Popolare, che avete attivato dal 2013 – una forma di pedagogia innovativa, in piazza, che ha coinvolto gli abitanti del paese in un’esperienza di comprensione delle parole e delle immagini dell’arte a partire dalle esperienze personali e della comunità – aveva questo intento di produrre una lingua in comune?

Bacci: la Nuova Didattica Popolare è nata dal bisogno di dare degli strumenti agli abitanti del paese. Ha coinvolto soprattutto le persone anziane. Pietro Gaglianò, che era stato chiamato in residenza, l’ha sviluppata egregiamente. Il progetto con lui si è chiuso nel 2017 per l’esigenza di cambiare schema. L’azione di cura vera è utilizzare tutte le risorse sul campo e creare nuove necessità. La reazione di questi posti è difficoltosa, bisogna stare attenti a non semplificare. Il nostro scopo è quello di rendere necessaria una domanda. Il nostro lavoro è nelle domande che ci vengono rivolte, che scateniamo.

Nuova Didattica Popolare condotta da Pietro Gaglianò, Guilmi Art Project, 2015

 

Che tipo di relazioni hanno le persone in genere con gli artisti in un contesto così piccolo?

Bacci: le persone in genere non sanno esattamente su cosa l’artista lavora. Magari ne rimangono toccate perché si cena assieme. Le residenze si concludono con la presentazione pubblica dell’opera al paese, che è un momento importante, ma agli abitanti importa soprattutto la storia dell’artista. Interessa l’artista che racconta del progetto, cosa ha visto, cosa pensa di Guilmi, come descrive il luogo dove sono nati. È un interesse legato al paese, personale. È un processo interessante che ho visto raramente in un contesto cittadino. Questa relazione può magari svilire il processo artistico, ma funziona, nel senso che gli artisti si confrontano con persone che in paese vivono, lavorano. Diciamo agli artisti: ci sono un paese e delle persone, questo è il contesto di riferimento. Questo è il nostro pubblico. Pensiamo che l’artista possa trovare qui nuovi linguaggi, spinto dal contesto.

In questo senso concepite la residenza anche come un momento di autoformazione per l’artista?

Giardino: abbiamo sempre voluto artisti mediamente formati perché volevamo mettere in discussione la sicurezza dell’artista di lavorare in un mondo che già conoscevano, cambiare il fare degli artisti.

Quali reazioni riscontrate nei confronti delle opere realizzate?

Giardino: molti locali sono orgogliosi delle opere che abbiamo realizzato, ma non si espongono perché non sanno se hanno il consenso delle altre. Le opere non devono per forza piacere agli abitanti, non vogliamo fare opere per ingraziarceli. Nella documentazione fotografica si vede tanta gente ma non è questa partecipazione che conta, non ci interessa la quantità. Conta quando succede qualcosa alla singola persona. Dice Chico che la cosa più bella sono i micro atti. Ogni volta che c’è un artista in residenza e produciamo un’opera, ci sono persone che si offrono di aiutarci e collaborare, diventano un punto di riferimento. Questo dà un senso.

Per quali ragioni non avete voluto lasciare opere permanenti, a parte alcune?

Giardino: non vogliamo imporre opere alla popolazione. L’opera di Fabrizio Prevedello attaccata alla torre dell’acqua si autodistrugge. C’è anche una questione economica: l’amministrazione non si è impegnata nell’assunzione della responsabilità economica dell’opera, quindi non spetta al paese. Se poi hai una collezione fissa hai altri problemi, ad esempio come renderla fruibile. Non aver creato opere permanenti ci è però tornata contro: non abbiamo opere per i turisti!

C’è il rischio che la politica si senta deresponsabilizzata perché sul territorio agiscono progetti culturali che – a costo contenuto – fanno ciò che essa dovrebbe fare o perlomeno agevolare? 

Giardino: Sì, ma è un discorso complesso che tradisce diverse realtà e velocità del paese Italia. La posizione di rifiuto verso un concorso ministeriale che offre una paga di €500 al mese è paragonabile a perseguire progetti culturali in aree marginali, assumendosene le responsabilità. In entrambi si tiene una posizione etica necessaria alla salvaguardia della cultura. Nelle città a vocazione turistica si vede come la politica costruisce eventi mediatici. Investe in immagine, più che in cultura. Nei luoghi smembrati ci sono progetti culturali che fanno azione politica; aprono cooperative di comunità per ricucire lacerazioni provocate dal fallimento degli investimenti non tarati sulle particolarità locali. Molto spesso mi chiedo, perché devo farlo io? E dov’è la politica che dovrebbe creare i presupposti perché i progetti abbiano effetti sul territorio? Eppure mi sento responsabilizzata, il progetto mi chiama, capisci che devi esserci. So che sto invadendo un campo -politico – che non è mio e voglio diventare una attivista, ma ributtare la colpa sull’operatore culturale, che deresponsabilizza e quindi legittima l’assenza della politica nei processi culturali è come guardare il dito indicando la luna.

Bacci: c’è anche una questione etica. Nei piccoli comuni ci sono spesso dinamiche locali di potere, che possono bloccare lo sviluppo. È una dimensione con cui i progetti locali devono fare i conti, di adeguamento, mediazione, resistenza, compromesso.


Immagine di copertina: Fabrizio Prevedello, Solido alle Intemperie, Guilmi Art Project 2013




Asilo Bianco, una piattaforma di lavoro culturale per la rigenerazione di luoghi dalle identità sospese

L’Associazione Asilo Bianco nasce nel 2005 ad Ameno, sul Lago d’Orta, in Piemonte. Ha sede in un vecchio asilo abbandonato e restaurato. Fondata da un gruppo di professionisti tra cui l’artista Enrica Borghi, Asilo Bianco è una piattaforma di lavoro culturale le cui azioni accompagnano la rigenerazione di luoghi dalle identità sospese. Tra le iniziative, organizza il Festival del Cinema Rurale, la residenza per artisti e scrittori Fogli/e Scritte, percorsi di formazione e promuove reti locali volte al riconoscimento culturale del territorio e al recupero dei suoi beni storico-artistici in disuso, per favorire la responsabilità e la consapevolezza sociale. In quindici anni di attività Asilo Bianco è diventata motore anche economico di nuove progettualità sul territorio, costruendo competenze per lavorare in rete.

Per il terzo appuntamento di Comunità Contemporanee Enrica Borghi racconta la sua visione di Asilo Bianco a confronto con lo scarto e la dimenticanza.

Studi Aperti. Festival Interdisciplinare, Laboratorio di incisione a Villa Pastori, a cura di Adrian Hossli, 2013

 

Pioselli: come nasce Asilo Bianco? Da quali motivazioni? 

Enrica Borghi: il mio percorso d’artista ha avuto un’accelerazione dagli anni novanta. A un certo punto ho sentito la necessità di trovare uno spazio più intimo di lavoro che forse appartiene alla mia ricerca legata al fare femminile e al quotidiano. Per caso sono andata con Davide Vanotti, mio marito e cofondatore di Asilo Bianco, a fare un giro sulle colline del lago d’Orta. Abbiamo trovato un vecchio asilo abbandonato, e sentito l’energia e la bellezza assopita di questo luogo. È nato il desiderio di prendere a cuore un percorso, un territorio, e anche di dare senso a un fare come artista che sentivo più congeniale. Ad Ameno mi è venuto spontaneo aprire le porte dello studio. Abbiamo pensato di fondare l’associazione Asilo Bianco per fare piccole cose, residenze per ospitare artisti con cui avevamo delle affinità, per prenderci del tempo. Invitavamo persone con cui avevamo voglia di momenti conviviali insieme, non c’era un tempo definito.

Pioselli: hai definito Asilo Bianco il gesto generativo di un’artista. In che senso?

Borghi: è pensare alla progettualità come a un motore che innesca altri movimenti. L’artista aziona un sistema complesso, come gli ingranaggi di un orologio che procede poi con un tempo suo naturale di restituzione. Asilo bianco è nato in modo spontaneo, mosso dal desiderio di trovare un respiro diverso e lavorare con le persone e la comunità che ci aveva accolti.

Pioselli: quale è l’idea di base che nutre il percorso che è diventato poi il vostro progetto strutturato di residenza per artisti e scrittori Fogli/e Scritte?

Borghi: la nostra visione di residenza è fondata sull’idea di geografia emozionale. Vivere il nostro territorio, attraversandolo e camminando per i sentieri, i vicoli, le strade di montagna che collegano il lago Maggiore al lago d’Orta, privilegiando gli aspetti emotivi che vengono trasferiti in un libro: in una guida che non parla di distanze oggettive ma di frammenti di tempo fermati con scatti fotografici, profumi, pensieri tracciati in un foglio bianco. L’invito agli artisti è avvenuto sempre in modo empatico, per incontri. Penso al primo anno di residenza con il progetto di Andrea Carretto e Raffaella Spagna dedicato a una vecchia cava di porfido.

Studi Aperti. Festival Interdisciplinare, Centotrenta di Corinne Gallotti e Laura Crespi, sezione Paesaggi mirati, 2013

 

Pioselli: come è cambiata la progettualità negli anni rispetto alle motivazioni iniziali d’ordine più personale e intimo?

Borghi: abbiamo iniziato a riflettere come l’arte contemporanea potesse essere accolta sul territorio e diventare anche un attrattore per l’economia. Ameno è parte di un territorio collinare dotato di beni storico-artistici allora poco conosciuti e fruibili. Mi interessava dare visibilità al torpore di questi luoghi, dal piccolo museo d’arte sacra al parco neogotico. Pensavo che l’arte potesse diventare una leva. È anche l’unica leva che conosco. Abbiamo, per esempio, organizzato un workshop con l’architetto Andrea Bruno, che ha restaurato il Castello di Rivoli, insieme ad architetti e alla comunità del luogo ripensando al riuso della chiesa sconsacrata di San Rocco. È stata una visione di quello che potevamo immaginare di questo luogo abbandonato. Abbiamo cominciato in modo consapevole a cercare fondi legati all’economia del territorio attraverso bandi, donazioni da parte di aziende, fondazioni bancarie e incontri con amministratori pubblici. Compresa la Regione Piemonte, che abbiamo coinvolto con diversi progetti. È stato un impasto che ha lievitato lentamente. Ci siamo strutturati e inventati una competenza costruita sul campo.

Pioselli: c’è stato un momento o un evento che vi ha fatto percepire che stavate crescendo?

Borghi: quando Asilo Bianco ha vinto con Cuore Verde tra due Laghi un importante progetto di Fondazione Cariplo sulla valorizzazione dei territori in rete. Asilo Bianco ha promosso la costituzione della rete Cuore Verde tra due Laghi nel 2008, sottoscritta da undici comuni dell’alto novarese. Nel 2011 siamo riusciti finalmente a ottenere l’importante contributo che ci ha portato tra l’altro alla rifunzionalizzazione del Museo Tornielli di Ameno, alla messa in sicurezza della Chiesa di San Rocco e a realizzare un programma triennale di attività. La Regione Piemonte è stata d’aiuto nella formazione. Abbiamo creato una cabina di regia e inserito nel progetto figure differenti per dare una lettura plurale del territorio. A volte mi sembrava di perdere il filo che accompagna la mia ricerca artistica, ma in realtà la nostra risposta è sempre stata attraverso l’arte.

Pioselli: come ti vedi come artista nel progetto Asilo Bianco?

Borghi: poche volte mi sono messa in campo come artista con le mie opere. Non volevo che la mia presenza fosse dominante. Il progetto è nato per il territorio e ho voluto fare un passo indietro per lasciare spazio alla presenza del luogo, dei suoi abitanti e anche delle sue criticità. Continuo anche a fare mostre, ma con Asilo Bianco sono dentro un processo osmotico, è parte integrante del mio percorso di ricerca.

Pioselli: la tua ricerca d’artista è stata sempre incentrata sul riuso di materiali di scarto. Come è confluita nella visione di Asilo Bianco? Nel racconto del progetto fai riferimento al confronto con lo scarto, l’abbandono, la dimenticanza.

Borghi: mi interessava la percezione di luoghi dimenticati, dormienti. Forse è simile il mio approccio nel cesellare un’installazione o incastonare incontri, progettualità e persone che credono a questo progetto. Penso che Asilo Bianco sia un’opera pubblica a tutti gli effetti, un grande laboratorio. Citando Joseph Beuys, “se le persone entrano in merito alla questione, noi tutti entriamo in quel tempo, il tempo, che è tempo economico, è tempo naturale. Questo è il compito del nuovo seminatore, dell’artista che non può più stare negli atelier, nei musei, nelle gallerie, ma entrare nel ciclo vitale della natura, deve avere nuovi occhi per fare vedere, nuovi mani per seminare”.

Pioselli: definiresti Ameno un luogo isolato? Lo hai chiamato piuttosto un luogo sospeso.

Borghi: è sospeso perché ha lasciato molti luoghi irrisolti nella loro evoluzione, nella narrazione della loro memoria. Forse Asilo Bianco ha cercato di riconnettere dei fili, di re-intrecciare alcune storie. In una società globalizzata è difficile essere isolati, si tratta di una micro-dimensione che rimarca tutte le problematiche di altre comunità ma forse tutto ha un aspetto più umano, meno impersonale come nei grandi centri abitati. In questo luogo abitano persone molto diverse tra loro, è frequentato da persone che hanno la casa per le vacanze. Non è isolato ma forse è al margine del foglio perché possiede un altro tempo. È qui nasce il desiderio di vivere un’altra dimensione, di innamorarsi di un luogo forse perché lo senti, ne senti il respiro.

Performance a cura di Ludiko, consegna di 1000 pettorine e camminata performance, mostra Ai confini del regno, per il 150° Unità d’Italia, Museo Tornielli, Ameno, 2011

 

Pioselli: Asilo Bianco è diventato sul posto un riferimento per la costituzione di reti locali e di progetti rivolti alla valorizzazione del territorio attorno ai laghi d’Orta e Maggiore. Come è avvenuto questo riconoscimento?

Borghi: l’utenza dei nostri progetti è sempre stata la comunità, e intendo anche lo staff di lavoro, i soci fondatori e i volontari che si sono affiancati in tutti questi anni. Pensando a una associazione che si occupasse di territorio attraverso l’arte, è stato naturale pensare alla crescita del nostro pubblico, alla qualità delle iniziative (eventi, mostre, festival, formazione) e a provare a fare rete con altre realtà territoriali, non solo associazioni con finalità culturali e sociali ma anche enti locali. Per Cuore Verde tra Due Laghi (2012-15) abbiamo collaborato con altre due associazioni, una musicale e una teatrale, i comuni di Ameno e Miasino e una parrocchia. Avere capacità di instaurare sinergie e offrire le proprie competenze è stato uno degli aspetti vincenti non solo per diventare un riferimento territoriale ma anche per consolidarci e crescere come gruppo di lavoro. A Cuore Verde si sono susseguiti altri bandi importanti costruiti sulla condivisione di visioni del territorio. Paesaggio Contemporaneo comprendeva in rete il Comune di Omegna dove esiste una memoria molto forte legata al distretto del casalingo (Alessi in primis, ma anche Lagostina, Girmi, Piazza, Bialetti). Il progetto prevedeva di connettere realtà che a diversi livelli parlano di contemporaneità, dal design all’arte, dai percorsi naturalistici all’apertura di beni storico-artistici quasi sempre chiusi. Lo sforzo, lo è tuttora, è di capire come innestarlo a livello territoriale con azioni di formazione, eventi, restauro del contemporaneo, un percorso complesso. È inoltre importante vivere qui, in questi luoghi, dove divieni parte di essi e non sei uno spettatore occasionale.

Pioselli: in base a queste esperienze di rete con Asilo Bianco, pensi che un progetto culturale possa contribuire a fare crescere il territorio anche economicamente? Hai riscontri?

Borghi: lo penso. L’associazione è stata formata e assistita in molti progetti, dalla Regione Piemonte alla Compagnia di San Paolo che ha monitorato e formato tutti gli attori che collaboravano nella nostra rete per Paesaggio Contemporaneo. Asilo Bianco ha iniziato a lavorare ad Ameno nel 2005. Le presenze turistiche erano 5000 all’anno, siamo arrivati a 18.000 nel 2019. Un altro dato riguarda la nascita di piccole strutture turistiche. Oggi vi sono sette o otto strutture ricettive, piccoli B&B ma anche realtà interessanti in forte crescita, come per esempio La Darbia. Non esisteva una guida turistica del territorio. Siamo riusciti a costruirla dal 2012 al 2014 in italiano e inglese coinvolgendo undici comuni del territorio, facendo ricerca, inserendo nuove documentazioni fotografiche e facendo nascere cinque siti, grazie anche agli studenti della Facoltà di Turismo dell’Università di Novara in stage presso di noi, con cui abbiamo raccolto i dati sui beni storico-artistici della zona. Gli abitanti hanno preso coscienza che Ameno potesse essere un luogo turistico. Allora c’era un sindaco donna che ha creduto in noi, affidandoci la gestione del Museo Tornielli per sette anni attraverso una convenzione con il Comune. Questo ci ha dato una grande responsabilità. Per il restauro del museo abbiamo trovato 84.000 euro oltre a tutti i budget delle mostre realizzate. Un altro dato è la nascita di un portale turistico da parte del Comune di Ameno, un progetto di itinerari percorribili a piedi, un Ostello e un’area camping. Le chiese sono state restaurate e, attraverso la donazione Macchi-Luna, è nata una biblioteca con interessanti pubblicazioni dedicate al cinema e all’arte.

Pioselli: una lettura dal punto di vista dell’economia del territorio era esplicitamente posta nella mia domanda, ma mi sembra che per te il tema della gestione sia rilevante.

Borghi: se la valutazione dell’attività di Asilo Bianco è d’ordine economico, se un progetto culturale ha permesso di raccogliere due milioni di euro in quindici anni di lavoro sia per il restauro di beni pubblici che per la loro valorizzazione, allora il progetto è già un processo vincente perché la restituzione non è stata data al sistema dell’arte ma ad un’intera comunità. Ha restituito alla comunità un beneficio non solo economico ma anche e soprattutto culturale. Per fare un esempio, un evento come Studi Aperti, realizzato per undici anni consecutivi, oppure il Festival di Cinema Rurale, che insieme portano duemila persone in un piccolo centro abitato, fa incassare le strutture di accoglienza: bar, B&B, ristoranti, pernottamenti.

Corto e fieno. Festival del Cinema Rurale

 

E produce una conoscenza virtuosa del luogo stesso. Il lavoro di tanti anni ha creato un’economia attraverso un progetto culturale dove l’arte è stata il denominatore comune. Ci sono dati dimostrabili, i bilanci certificati dicono che abbiamo realizzato progettualità di cui la comunità ha giovato. Ritengo importante il tema della gestione perché ci è sempre sembrato di avere la responsabilità di dovere restituire al territorio i soldi ricevuti, nel modo migliore possibile. Sul luogo c’è una comunità che gode di questo duplice valore economico e culturale.

Pioselli: a quali progetti state lavorando?

Borghi: al recupero di Villa Nigra, un bene storico-artistico nel Comune di Miasino, con azioni di valorizzazione e di raccolta fondi per la sistemazione degli spazi che ospiteranno un’area di co-working e un nuovo bar. Speriamo inoltre di firmare una convenzione per portare la nostra sede operativa in questo luogo. Pensiamo inoltre ad un territorio più ampio. Abbiamo un bagaglio di esperienza che ci permette di non essere così radicati in un solo luogo. Al confine con la Svizzera, in Val d’Ossola, nell’Ottocento era attiva una scuola di pittura e di disegno, la Scuola di belle arti Rossetti-Valentini, decentrata ma connessa con il mondo artistico d’oltralpe. Oggi è come un faro spento, abbandonato. L’abbiamo ripensata come Scuola di formazione delle Alpi.

È nata la Mountain Academy. Il progetto si inserisce nel programma Interreg Italia-Svizzera che abbiamo vinto nel 2020 con il progetto Di-Segnare. Conoscere il territorio attraverso il disegno e le arti, assieme a partner svizzeri. Capofila è l’Associazione Musei d’Ossola. Fino al 2022 prevede ogni anno un tema, dalle erbe officinali ai cambiamenti climatici delle Alpi, alle fortificazioni alpine, indagati attraverso workshop di disegno, attività didattiche, incontri con artisti, camminate, mercati a km0 e momenti conviviali.


Immagine di copertina: Frauke Wilken, Wait and See, mostra Continuum. Lo spirito del luogo, Villa Nigra, Miasino, 2018




Sfrattare ‘bonariamente’, l’aria che tira a Roma per la cultura

Che cos’è, oggi, uno studioso di storia? In che cosa consiste, davvero, la ricerca storica? Sono domande alle quali dovremmo sempre essere in grado di rispondere, dando ragione di ciò che facciamo. E tuttavia, è difficile chiarire a sé stessi e agli altri che cosa davvero faccia chi si occupa di ricerca storica: fortunatamente (uso il corsivo non per caso; la ragione apparirà evidente fra poco), esistono le istituzioni, che, a volte, orientano verso obiettivi comuni la volontà dei singoli.

Tra le abilità richieste allo studioso di storia, c’è la capacità di leggere i documenti; cominciamo dunque da uno di questi oggetti:

La vita giuridica di una istituzione è segnata dal suo atto costitutivo. I regolamenti appositi seguono, ma una fondazione non può prescindere dal suo scopo. Il regio decreto del 25 novembre 1883 contiene quattro avverbi rivelatori della natura del neonato Istituto: straordinariamente, i membri dell’Istituto potranno essere convocati quando ve ne sia necessità (art. 4); l’Istituto dovrà avere sede in Roma poiché corrisponde direttamente col Ministero della pubblica istruzione (art. 3); undici membri dell’Istituto su quindici rappresentavano, singolarmente, le cinque Deputazioni e le sei Società di storia patria allora attive in Italia (art. 2); segnatamente, lo scopo dell’Istituto è quello di provvedere al coordinamento e alla concreta realizzazione di tutti quei lavori che abbiano per oggetto «la pubblicazione de’ fonti di storia nazionale» (art. 1).

L’Istituto storico italiano divenne Istituto storico italiano per il medioevo nel 1934, ma la sua missione è rimasta segnatamente quella che ho appena ricordato. Dall’Istituto sono passati studiose e studiosi che, grazie al legame diretto con il Ministero della pubblica istruzione e all’istituzione, dal 1923, di una Scuola storica nazionale, hanno contribuito in maniera più o meno straordinaria alla storiografia italiana, europea e mondiale.

Dallo stesso anno in cui venne fondata la Scuola, l’Istituto occupa alcuni ambienti dell’Oratorio dei Filippini, in un complesso che ha al suo centro la chiesa di Santa Maria in Vallicella. L’insieme di edifici racchiusi oggi tra via piazza dell’Orologio, piazza della Chiesa nuova e corso Vittorio Emanuele II è legato al nome di Francesco Borromini: dal 1637 Borromini pensò, mise in opera e lasciò al suo successore Camillo Arcucci uno spazio che è oggi, almeno in parte, dell’Istituto. Come successore dei Ministeri dei lavori pubblici, di grazia e giustizia e della pubblica istruzione, che occuparono in forze buona parte del complesso dei Filippini dal 1871, l’Istituto non è responsabile dei pesanti lavori che hanno certamente modificato l’impianto borrominiano, ma non hanno cancellato scorci come quello che segue:

Per quanto riadattato, è facile intravedere ancora l’idea di Borromini nella realizzazione delle logge, ispirata, come dichiarò egli stesso, alle invenzioni di Michelangelo per il palazzo del Campidoglio.

Già, il Campidoglio. Immaginiamo un solerte funzionario che la mattina, passeggiando per corso Vittorio Emanuele II verso l’edificio più rappresentativo del Comune di Roma, si fermi a guardare Santa Maria in Vallicella e: a) entri in una delle chiese più importanti della città per fare le sue devozioni; b) chieda di accedere al cortile degli agrumi per procurarsi quanto è necessario a combattere i malanni di stagione; c) decida, avendo alzato gli occhi, che quei locali finestrati che il Comune ha da molti decenni affittato all’Istituto debbano cambiare destinazione d’uso. E del resto, l’Archivio storico capitolino non occupa già parte del complesso e, al secondo e al terzo piano, disponga di grandi spazi restaurati nel 2006 e ancora inutilizzati? Il documento trasmesso dall’ufficio Patrimonio del Comune di Roma all’Istituto a metà novembre è granitico: ingiunge di «rilasciare bonariamente i locali, liberi da persone e cose, entro 90 giorni dal ricevimento della presente»; in caso contrario, si procederà alla «riacquisizione forzosa del bene», anche a fronte di un debito dell’Istituto nei confronti del Comune di 24.473, 88 euro.

L’Istituto e il suo presidente, Massimo Miglio, hanno risposto nel solo modo possibile. Hanno dichiarato che il documento contiene una falsità dimostrabile (falsamente è l’avverbio utilizzato) e hanno mobilitato tutti coloro che possono impedire un atto privo di senso. Una nota del 25 novembre del presidente Miglio informa di un colloquio avuto con la sindaca di Roma Virginia Raggi nella serata del giorno precedente, durante il quale la sindaca avrebbe «espresso la volontà di sospendere ogni iniziativa intrapresa dai suoi Uffici contro l’Istituto storico italiano per il Medioevo».

È già qualcosa, se non fosse per l’uso di quell’avverbio, bonariamente. In italiano, ha due significati, il primo registrato nei dizionari, il secondo imposto dalla lingua non codificata del diritto. Bonariamente può rinviare a qualcosa che avviene con bontà schietta e cordiale, con indulgenza, con ingenuità, con spirito conciliante, alla buona e senza formalità; in ambito giuridico, lo stesso avverbio può indicare una pretesa che si intende far valere senza ricorrere, in un primo momento, a metodi più formali.

Che il documento ricevuto dall’Istituto storico italiano per il Medioevo contempli il secondo uso possibile dell’avverbio è quasi certo. In quante circostanze si cerca di far valere una prassi, anche linguistica, facendo finta che essa attesti un diritto o addirittura una norma? L’assenza di comunicazione tra il Sindaco e gli Uffici non è sufficiente a spiegare uno slittamento che è rivelatore di una mentalità. O, forse, tutta la vicenda non è altro che un gigantesco equivoco.

Torniamo a metterci nei panni del nostro solerte funzionario, amante dell’arte e degli agrumi. L’aver alzato improvvisamente gli occhi verso le stanze dell’Istituto storico italiano per il medioevo può aver causato un improvviso calo di pressione e un malessere protratto per tutta la giornata. Una volta giunto in ufficio, in preda alla confusione, avviene uno scambio di pratiche; si minaccia di sfratto l’Istituto, mentre si intendeva inviare una lettera al ristorante pizzeria “Medioevo” di Rosolina, in provincia di Rovigo.

Le cose sono andate certamente così, con bontà schietta e cordiale, con indulgenza, con ingenuità, con spirito conciliante, alla buona e senza formalità. La lettera dell’ufficio Patrimonio del Comune di Roma era destinata a un ristorante e non a un Istituto storico. Probabilmente.