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È ora di parlare della sostenibilità neurologica del lavoro cognitivo

Con il progetto Nube di parole stiamo lavorando alla scrittura collettiva del significato del termine ‘Sostenibilità’ per chi lavora nella cultura.

Clicca qui per scoprire il progetto.


Ricordo di aver letto un articolo, anni fa. Non so se su carta o in rete. Mi pare che fosse firmato da uno scrittore romano. A essere sinceri, essendo passato molto tempo, non ricordo più di che cosa parlasse. Però c’è un singolo frammento di quel pezzo, un rapido passaggio, che mi si è stampato in mente. Non sono neppure sicuro che l’autore fosse romano o trapiantato a Roma.

Facciamo finta che l’articolo sia stato scritto da un certo SC. SC racconta che all’incirca ogni sera, all’ora dell’aperitivo, gli capita d’incontrare qualche amico. Usciti dal lavoro, o comunque al termine della giornata, si ritrovano da qualche parte a Roma, in un bar, per sedersi a un tavolo e farsi insieme un bicchiere di spritz o una birra. Non sono sicuro che la ricostruzione sia esatta.

Comunque SC incontra un coetaneo o una coetanea di sua conoscenza, quindi un trenta-quarantenne. I due entrano in contatto, mentre il sole tramonta o col buio, si salutano con una stretta di mano, un abbraccio o un bacio sulla guancia. Magari si siedono su una sedia di metallo o un gradino. Bevono. Il ghiaccio si scioglie nel bicchiere dello spritz. Noccioline sul tavolo.

Inizia una conversazione. La conversazione, però, stenta, non parte. Arrotolano una sigaretta. Accendono la sigaretta. Spengono la sigaretta nel posacenere. Arriva un messaggio da un gruppo di lavoro su WhatsApp o una chiamata che li costringe ad allontanarsi. Tornati al tavolo, ritrovano la stanchezza che accomuna entrambi e impedisce al pensiero di circolare fluidamente.

Se non una stanchezza, un residuo di elettricità accumulata durante il giorno. È come un rifiuto che non si lascia smaltire e che diventa la causa di un disturbo. Tra una parola e l’altra si verifica un errore, una sovrascrittura, un’amnesia, un momento di défaillance, una difficoltà nella messa a fuoco. Nel frattempo arriva un venditore di rose.

Mi sembra di ricordare che SC da qualche parte tirava fuori l’aggettivo «fritto», non in relazione a un cibo, ma allo stato psicofisico delle due persone coinvolte nel dialogo. Un po’ come se fossero soggetti che scontano un passato di abusi con droghe da rave party. «Fritto», infatti, non suona un po’ come «bruciato»? Tra i due non c’è un dialogo che da A muove verso B per poi arrivare a C, ma un continuo tentativo, un prova e riprova, che tuttavia fallisce, perché si è troppo stanchi e appannati. I nervi sono ancora attraversati dal torrente di stimoli e informazioni assorbite durante il giorno dagli schermi. Negli occhi brulica ancora un po’ della luce del computer. Solo l’alcol, ora, può salvare l’interazione tra i due e ridare un po’ di brillantezza e libertà alla conversazione. Ma da dove arriva tutto questo affaticamento? La domanda è interessante, anzi centrale, perché credo riguardi un numero crescente di trentenni e quarantenni impiegati in alcune professioni ben determinate e caratterizzate da un elevatissimo tasso di precarietà.

SC è uno scrittore, anzi un writer che si adopera e autoimprende in più contesti e rapporti di lavoro. Quarant’anni fa avrebbe avuto una scrivania a Paese Sera e magari, dieci anni dopo, un buon contratto a King firmato dal padre di Fabrizio Corona. Oggi se la gioca giorno per giorno. Nella sua esistenza quotidiana frequenta, volentieri o suo malgrado, altri individui che orbitano in sfere professionali confinanti. È la sua vita, del resto, che spesso coincide con il suo lavoro e con il perimetro della sua bolla sociale, una sorta di camerata riecheggiante di voci e plasmata ogni giorno dalla tessitura di un algoritmo, tanto immerso e potente che sembra perfino influire sulle trasformazioni all’interno di una città o di un quartiere.

Giornalisti della carta stampata e della rete, creativi a vario titolo, social media manager, content manager, insegnanti a contratto nella scuola, uffici stampa, autori per la tv o la radio, copywriter, grafici, ricercatori universitari, editor, web designer, illustratori, cacciatori di bandi europei per il finanziamento di progetti d’interesse socioculturale, videomaker, montatori, fotografi, galleristi indipendenti, curatori d’arte contemporanea, designer della comunicazione. Più in generale, lavoratori della conoscenza. Un lungo elenco di figure professionali che può generare in chi legge un conato d’insofferenza. Tutte queste figure, di solito concentrate in capoluoghi come Roma o Milano, faticano ad avere una vita stabile e soddisfacente da un punto di vista economico. Ma non è questo il punto. Questo è solo l’aspetto più noto e pubblicamente discusso della loro vicenda umana.

Precari cronici, partite IVA letteralmente ammazzate dalle tasse, spesso in affitto in case «di merda», in esubero rispetto alla domanda, sfruttati da altri sfruttati, sfruttatori di sé medesimi, sottopagati da aziendine indebitate, esposti a un monologo interiore che mostra la verità della loro condizione materiale, sminuiti nella sociologica dicitura «precario» che poco racconta e sa della loro storia personale; e infine, col passare del tempo, sempre più ammorbati dalla crescente consapevolezza di una grande incognita che pesa sul futuro, in quanto non hai maturato una pensione. (tutte questioni che non si possono più trattare senza involontariamente evocare un testo di cui si è molto parlato nell’ultimo anno, ovviamente il dibattutissimo Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura).

Alla questione della sostenibilità economica si aggiunge, col tempo, la questione di una sostenibilità di tipo «esistenziale», che riguarda, naturalmente, anche le relazioni affettive. Quando hai vent’anni o poco più di trenta, la complicata sostenibilità economica del tuo lavoro è almeno esistenzialmente tollerabile, se non altro perché il tuo stile di vita coincide con un immaginario felicemente bohemien, perché l’hangover è una forma di languore che si sposa con la domenica, perché ci sono la vitalità del corpo e l’eros che ti sorreggono, infine perché, magari, la voce del tuo daimon è ancora forte e chiara quando ti parla dentro il petto. Anche la questione della «sostenibilità esistenziale» nel precariato cognitivo, tuttavia, è materia nota, già descritta in saggi, romanzi e opere cinematografiche.

Con lo scorrere del tempo, che interessa tanto le trasformazioni del lavoro, lo sviluppo dei device e degli strumenti professionali, quanto i nostri corpi che cambiano e le generazioni che invecchiano, si pone però il tema di un terzo tipo di sostenibilità: quella neurologica. Eccoci al punto. Ed ecco forse la vera ragione di quel senso di spossatezza e sfocatura che impedisce a SC e al suo amico di avere una conversazione decente. È semplice, quasi matematico: la precarietà e l’autoimprenditorialità costringono a lavorare il più possibile, a imbarcare più lavori e progetti contemporaneamente, a sovraccaricare il corpo e la mente di obiettivi e scadenze, a impegnare il cervello nella soluzione di più compiti, a dotarsi di più strumenti, ad aggiornarsi infinitamente, a vivere insomma in uno stato di ansia e allerta dentro un mercato del lavoro culturale e cognitivo che somiglia a una morbida e paludosa arena darwiniana; ma intanto il corpo invecchia.

E in questo quadro, soprattutto, gioca un ruolo decisivo il modo con cui sono progettati i device dei quali ci serviamo per lo svolgimento del nostro mestiere. Smartphone e computer. Possiamo controllare la posta oltre cinquanta volte al giorno e fino a centocinquanta volte al giorno. Secondo l’antropologa digitale Gloria Mark, l’essere umano, maschio o femmina che sia, non è una creatura multitasking, non svolge due o più lavori in modo contemporaneo, ma può al massimo spostarsi da una mansione all’altra, switchare, fare avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. L’attesa di notifiche sul telefono genera un fenomeno chiamato «vibrazione fantasma». Sembra che il telefono abbia vibrato, ma non è vero. È il risultato del rafforzamento di alcuni circuiti neuronali causato dall’uso del telefono e di internet. Il nostro telefono si trova sempre nel raggio di trenta centimetri dal palmo della mano.

Lo sblocchiamo anche quando non ci sono messaggi da visualizzare, senza un motivo. Lo accendiamo al mattino poco dopo aver aperto gli occhi o nel cuore della notte se abbiamo il sonno leggero. E dopo aver osservato scorrere una timeline per qualche minuto, ci resta in corpo una sorta di eccitazione, difficile da disperdere. È come un pulviscolo di materia misteriosa che vaga con moto browniano sotto lo sterno. Frammentarietà e distrazione sono una condizione frequente della nostra coscienza, senza che questo nuovo presupposto abbia ispirato un diverso stile della coscienza e un modo bello e gratificante di vivere.

«Ci sarà una rivoluzione nel 2025 e ce ne sarà un’altra ancora più grande nel 2035 e poi nel 2045», ha detto lo storico Yuval Noah Harari in una conferenza dello scorso ottobre, organizzata a Londra dalla casa editrice Penguin, «e ciò significa che per continuare ad avere valore sul mercato del lavoro, siamo chiamati a reinventare noi stessi, non una volta, ma ripetutamente, ogni dieci anni, e il principale ostacolo a questo processo potrebbe essere di natura psicologica, più che economica e tecnologica. È molto, molto duro reinventare sé stessi, soprattutto dopo una certa età».

La stanchezza –il sociologo Byung-Chul Han parla di società della stanchezza- è ciò che accomuna una variegata classe di lavoratori, forse più dei gusti o dei consumi culturali. Prevalgono la fatica e lo stress. Lo sappiamo bene, perché ce lo dice l’esperienza diretta e lo conferma un’intera letteratura dell’iperconnessione. Tutto questo ha un costo per il cervello. All’epoca della rivoluzione industriale, la classe operaia, cioè gli uomini e le donne che dalle zone rurali si trasferirono nelle grandi città dove si concentravano le fabbriche, si confrontò con un boom delle patologie polmonari e muscoscheletriche. Oggi il tema, specie tra gli enta e gli anta, sembra essere un altro. È la questione, infatti, di ciò che vorrei chiamare «neurosostenibilità» del lavoro culturale e cognitivo. Dunque, che fare?

Intanto facciamo un salto indietro all’aperitivo di SC e del suo compare. Teatro dell’incontro è un bar di Roma. Entrambi per raggiungere quel tavolo, dove si sono seduti con una birra e uno spritz in mano, hanno attraversato un pezzo di città. Mezzi che non funzionano, ritardi, sporcizia, gabbiani svergognati, rivoli di orina sui marciapiedi, muri invasi da manifesti di organizzazioni di estrema destra. Le immagini ormai mitologiche di Roma in putrefazione si amalgamano, nello spirito del tempo presente, alle profezie sulla fine del lavoro, sull’accelerazione tecnologica e sull’avvento della Singolarità, sulla fine dell’Unione Europea e della democrazia, sull’aumento esponenziale dei flussi migratori e, soprattutto, su quella catastrofe climatica data per certa nel giro di un secolo. Roma in ginocchio diventa il simbolo dell’impotenza di tutti a cospetto degli spauracchi del futuro. Roma capitale dell’impotenza.

C’è un bellissimo documentario, dal titolo Piazza Vittorio, che il regista americano Abel Ferrara ha girato su uno dei tanti quartieri complicati di Roma: l’Esquilino. 67 anni, nato nel Bronx, Ferrara è un cineasta di lunghissimo corso. Debuttò con un porno nel 1977. Dopo essere sopravvissuto a dipendenze e abusi di droga lungo tutta una vita, è il candidato ideale per contemplare le rovine e la fine senza esserne travolto o spaventato. Da qualche anno vive proprio dalle parti di Piazza Vittorio, di cui si è evidentemente innamorato.

Il punto di vista di Ferrara, nonostante le difficoltà quotidiane del quartiere, non è angosciato. Il suo è uno sguardo ironico-buddista e generoso di pietas cristiana; invita a sorridere, anche quando la telecamera inciampa nei corpi di gente che dorme per strada in pieno pomeriggio, accasciata senza neppure una stuoia tra uno scooter e l’ombra di un platano. È questo sguardo impotente eppure sorridente, non angosciato e tantomeno incattivito, che dobbiamo assumere su di noi, di fronte allo spettacolo nero del futuro? Lo sguardo di Ferrara consola, incanta, ma serve qualcos’altro, io credo. In questo momento, non esiste in campo una risposta collettiva e strategica. Non c’è, non è a disposizione, non è ancora il suo tempo. Occorre quindi, almeno, trovare una postura, come individui, che non perda il sorriso e l’umorismo, amichevole ma sveglia, attiva, determinata. Sentirsi sconfitti o perduti, ci fotterebbe. Anche il cervello.


Immagine di copertina: ph. Dan Carlson da Unsplash




Dal 2017 al 2018: cheFare per un anno intero

cheFare 2017

Il 2017 è stato un anno molto denso per noi di cheFare:

  • è iniziata “Rosetta”, il progetto culturale nomade di Casa della Cultura e cheFare che ha attraversato Milano e quelli che per noi sono i suoi centri culturali con 9 incontri in cui si è parlato di migrazioni, di accessibilità e cittadinanza, di come si diffonde l’ignoranza, della città meticcia, del ruolo politico del cibo, del rapporto tra cultura, denaro e lavoro, di manifattura digitale nell’ex città-fabbrica e di diritto alla città. Nel 2018 Rosetta continua il suo giro con altri 9 incontri, che come sempre costruiamo via via insieme agli spazi che ci accolgono e agli ospiti di Rosetta.

rosetta-milano chefare

  • abbiamo avviato la curatela di una nuova collana di Edizioni di Comunità: si intitola cheFare, la grafica è di Riccardo Falcinelli, lo scopo è indagare l’innovazione sociale contemporanea nel solco di Olivetti.
  • il primo volume della collana si intitola Shareable! L’economia della condivisione, è curato da Tiziano Bonini e Guido smorto e raccoglie i più importanti contributi apparsi sulla piattaforma americana Shareable, fondamentali per comprendere l’evoluzione di un fenomeno nato come movimento e distinguere la condivisione dal business delle piattaforme.
  • Insieme a Fattidicultura abbiamo organizzato a Mantova due panel dedicati alla città, alla cultura e ai suoi impatti, al policy making.
    Hanno partecipato, oltre a Bertram Niessen in veste di moderatore, Giovanni PizzocheroPaolo Venturi, Stefano MaffeiValentina MontaltoAlessandro Rubini e Marianna D’Ovidio.
  • Insieme a Fondazione Feltrinelli e Sharitaly abbiamo organizzato l’incontro Sharing Economy, dedicato alla prima presentazione in Italia della Risoluzione del Parlamento europeo sull’economia collaborativa.
    Una giornata importante in cui si è sviluppato un dibattito insieme a tutte le più importanti realtà milanesi della sharing economy.
    Hanno partecipato Ivana PaisGuido SmortoTiziano BoniniNicola DantiBertram Niessen come moderatore e Marta Mainieri per Sahritaly.Sharing-Economy-chefare-fondazione-feltrinelli-sharitaly
  • per la prima volta abbiamo iniziato a dedicarci alla curatela di un progetto artistico in cui la città, i suoi abitanti e il modo di vivere si intrecciano: Civic Media Art, parte del programma Lacittàintorno di Fondazione Cariplo, è un progetto di arte pubblica e relazionale, site-specific, realizzato insieme agli abitanti del quartiere Adriano di Milano da Kevin Van Braak, artista e attivista culturale olandese. Il progetto è sostenuto dall’Ambasciata e Consolato Generale dei Paesi Bassi in Italia e da Mondriaan Fonds. Nel 2017 abbiamo fatto conoscenza con il quartiere e iniziato il lungo e delicato processo artistico, nel 2018 le cose prenderanno sempre più concretezza.

civic media art lacittaintorno chefare

  • abbiamo pubblicato sul nostro Almanacco 270 inediti e 775 segnalazioni di articoli da altre fonti sugli stessi temi che trattiamo noi. I dieci inediti più letti?

1 – La città turistica come messinscena di Marco D’eramo
2 –
33780 battute contro la teoria della classe disagiata di Valerio Mattioli
3 –
La rigenerazione come egemonia culturale di Ilda Curti e Michele D’Alena
4 –
La presunta fine del capitalismo di Adam Arvidsson
5 –
Il lavoro culturale tra antipatie e logiche da clan di Paolo Di Paolo
6 –
Fa’ il lavoro giusto di Annibale D’Elia e Paolo Venturi
7 –
Uscire dal vecchio mondo. Dialogo con Fabrizio Barca di Filippo Tantillo e Giovanni Carrosio
8 – Il Re è nudo: Lavorare nella cultura di Maria Elena Colombo
9 – Biennale di Venezia: cultura e futura umanità di Lucrezia Cippitelli
10 – The day Internet Died di Tiziano Bonini

  • come sempre abbiamo organizzato workshop, partecipato ad incontri e dibattiti pubblici, coltivato la rete di cui facciamo parte con contributi pratici e teorici.

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  • abbiamo trasformato in Linked Open Data i dati provenienti dai progetti che hanno partecipato ai bandi cheFare, alle prime 3 edizioni di iC-Innovazione Culturale e ai bandi Open e ORA! di Compagnia di San Paolo, mettendo a disposizione di tutti un prezioso patrimonio di informazioni sulla produzione culturale italiana dei tempi in cui viviamo.

     

  • abbiamo lanciato un bando per progetti culturali innovativi transfrontalieri tra Lombardia, Cantone Vallese e Cantone Ticino, si chiama Laboratorio Creativo.

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  • abbiamo avviato una revisione della struttura del nostro sito: nei primi mesi del 2018 potrete navigare sul sito che conoscete, ma la sua struttura sarà più semplice, la navigazione più facile, il nostro lavoro più chiaro per chi ci visita.
  • altri progetti e iniziative importanti bollono in pentola già dal 2017 ma manterremo il segreto finché ogni cosa non sarà pronta.
  •  a gennaio 2017 il gruppo di lavoro di cheFare contava 6 persone, adesso siamo in 9!

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    Erika Sartori, Marilù Manta e Lucrezia Cippitelli al lavoro su Civic media Art

    Il 2018 per noi comincia adesso, e una cosa che ci mette di buon umore è che la nostra pagina Facebook ha appena raggiunto i 30.000 iscritti!

 




PopUp-Ventura, Cella e Niessen al Madama Hostel

PopUp-Ventura

PopUp è la trasmissione itinerante di Radio Popolare che va in onda ogni sabato dalle 18.30 alle 20.30, condotta da Alberto Nigro e Andrea Frateff-Gianni.

Quasi sempre in diretta, qualche volta registrata, ogni settimana PopUp trasmette da un luogo diverso di Milano.
Sabato 14 ottobre 2017 registra dalle 13.00 alle 15.00 al Madama Hostel in via Benaco, 1.

Ci saranno il filosofo Raffaele Alberto Ventura, l’economista Michela Cella e Bertram Niessen, direttore scientifico di cheFare, per discutere le ragioni e le cause del declino della classe media.

Il libro “Teoria della classe disagiata” di Ventura (titolo che fa il verso a “La Teoria della classe agiata” dell’economista e sociologo statunitense Thorstein Veblen), è stato definito dai critici “il lamento di tutta una generazione” che è ancora troppo ricca per rinunciare ai propri sogni ma contemporaneamente troppo povera per realizzarli.

Il live musicale sarà a cura del duo milanese Coma Cose.




Stasera Rosetta: la cultura è ricchezza?

Lo scambio che ho avuto con la libreria Gogol & Company per scegliere il tema di Rosetta, in un afoso pomeriggio d’estate, verteva sull’idea di “traduzione”. Quel giorno, infatti, ci eravamo interrogati sulla capacità della cultura di operare come soggetto/dispositivo in grado di fare da ponte tra le parti sociali che compongono la città.

Nelle parole dei gestori, quelle mura, quei caffè, ma soprattutto quei volumi volevano offrire linguaggi possibili ai ragazzi del Giambellino, quartiere popolare che si nasconde dietro al Naviglio Grande. Ci eravamo lasciati con quel proposito, e una manciata di nomi possibili.

Quel pensiero, tuttavia, si è fatto strada nelle nostre riflessioni, e si è annodato indissolubilmente ad un tema che stava iniziando ad echeggiare sul finire dell’estate: il tamtam crescente nel dibattito pubblico e nelle nostre filter bubbles della critica/definizione/teorizzazione della cosiddetta classe “aspirazionale”, o, con epiteti meno ottimistici, “classe disagiata”.

Cosa collega questi due temi all’apparenza così lontani? Perché, partendo dalla relazione tra la vendita di oggetti culturali (i libri) in uno spazio di fragilità sociale (il quartiere) abbiamo parlato di traduzione per poi approdare alla cultura come forma di ricchezza? Una libreria in un quartiere in trasformazione, come processo urbanistico, può essere il motore positivo di una possibile mobilità sociale o opera come mero agente gentrificatore? E in che modo possiamo ancora parlare di mobilità sociale intesa come capacità aspirazionale di cambiamento e di miglioramento delle condizioni sociali, economiche e culturali di partenza, a fronte di una paralisi ascendente ed una progressiva riduzione della c.d. “classe media”?

Quel fil rouge confuso si può agilmente dipanare richiamando l’opera di Pierre Bourdieu, che nel suo percorso di ricerca quarantennale ha allineato le questioni grazie ad indagini di “psicanalisi sociale”, privilegiando la sociologia pubblica rispetto a una mera ricerca dell’oggettività, con la felice definizione della sociologia come uno “sport de combat”.

È grazie al conflitto ricercato dal professore parigino che si riesce a ricostruire come gli scambi simbolici rappresentino il principale terreno strategico per la costruzione gerarchizzata dello spazio sociale. In altre parole, secondo Bourdieu, quei concetti di classe, di stratificazione sociale, di mobilità sociale, sono principalmente il frutto di scambi simbolici che muovono, producono e riproducono processi di accumulazione: di capitali economici, sociali o culturali. Ciò che scelgo, la musica che ascolto, l’abito che indosso, genera comunicazioni che sono esse stesse scambi simbolici che, nella relazione con l’altro, con gli altri, permettono di definire il posizionamento, creando, di conseguenza, gerarchie nello spazio sociale.

Per distinguere il senso dello scambio simbolico e della stratificazione sociale Bourdieu parte da lontano, e riconosce i simboli del potere francese attraverso l’analisi della società cabila in Algeria. È dalla “giusta distanza” mediterranea che il sociologo ha potuto riconoscere quei processi che ha poi analizzato per quasi quattro decenni. Solo posizionando correttamente “il sé”, professore, intellettuale pubblico, francese, che ha potuto poi colmare quella distanza e tradurre quei processi simbolici raccontati in saperi accessibili.

La natura dell’estetica, i gusti e i disgusti che guidano i costumi, il ruolo sociale degli artisti e degli autori sono solo alcuni dei temi trattati nelle sue opere. Come scrive, «ogni atto culturale, creazione o consumo, contiene l’affermazione implicita del diritto di esprimersi legittimamente e con ciò coinvolge la posizione del soggetto nel campo intellettuale e il tipo di legittimità che reclama».

Bourdieu amplia e sviluppa il tema ne “La distinzione” opera omnia in cui le classi sociali rappresentano il fondamento (e la spiegazione) del sistema di classificazione e percezione del mondo sociale che permette la scelta di oggetti di piacere estetico. Il gusto si connette, quindi, ad alcuni fattori: la traiettoria individuale (soggetto) economica e sociale, e la percezione del mondo (relazione) alla posizione economico-sociale di partenza (la classe), e si intreccia indissolubilmente ai corpi e alla loro fisicità.

Così, l’antitesi tra la cultura e il piacere fisico (o, se preferiamo, la natura) si radica nella “contrapposizione fra la borghesia colta ed il popolo, sede fantasmatica della natura incolta, della barbarie dedita al semplice godimento. […] La posta in gioco del discorso estetico, e dell’imposizione della definizione di ciò che è autenticamente umano, che essa mira a realizzare, non è altro, in ultima analisi, se non il monopolio dell’umanità”(Paolucci, Gabriella. Introduzione a Bourdieu – Maestri del Novecento Laterza – posizioni nel Kindle 1993-1997. Editori Laterza).

E ancora: “Quando si cerca di determinare in che modo gli atteggiamenti colti e le competenze culturali espresse tramite la natura dei beni consumati e il modo di consumarli variano a seconda delle diverse categorie di attore sociale e a seconda degli ambiti a cui vengono applicati, da quelli più legittimi come la pittura o la musica, fino a quelli più liberi come l’abbigliamento, l’arredamento o la cucina e, all’interno degli ambiti legittimi, a seconda dei «mercati», «scolastico» o «extrascolastico», sui quali vengono offerti, si appurano due fattori fondamentali: da un lato, il rapporto strettissimo che lega le pratiche culturali (o le relative opinioni) al capitale scolastico (misurato in base ai titoli di studio ottenuti) e, in via subordinata, all’origine sociale (stabilita mediante la professione del padre); dall’altro lato, il fatto che, a parità di capitale scolastico, nel sistema esplicativo delle pratiche o delle preferenze, il peso dell’origine sociale aumenta quando ci si allontana dagli ambiti più legittimi”.

Questa lettura deterministica delle traiettorie, chiamata ed analizzata come “habitus” ossia una serie di comportamenti ed esercizi di potere non è il prodotto ineluttabile di fattori positivi, ma si tratta di un ordine simbolico che è semplice riflesso del reale.

È con una gigantesca mole di dati che l’autore riesce a ricostruire gli habitus culturali delle classi (francesi) che esamina.

Se nel lavoro sui consumi lo strutturalismo è la lente principale delle sue riflessioni, è con il lavoro del 1993, “La misère du monde” che il sociologo (coordinando un team di ricercatori) riesce ad evidenziare la centralità del conflitto, profondamente politica e radicale. Le molte interviste effettuate nella Parigi di Mitterrand raccontano de “la miseria” concepita non come povertà assoluta (condizione oggettiva) ma come miseria di posizione. Gli intervistati sono e stanno in uno spazio fisico e sociale precario, degradato, in cui sono senza possibilità di uscita e che tendono a riprodurre; un insieme di relazioni sociali che influenza con assoluta preponderanza il modo in cui le persone pensano sé stesse e riflettono gli altri. Nelle analisi questo processo è il prodotto di una desertificazione sociale, data dal crescente e costante impoverimento materiale e relazionale. Il tema del dominio che sembra sottotraccia nelle sue riflessioni culturali ed estetiche si esplica e ritorna evidente.

Lo Stato, messo alla berlina dai processi neoliberisti, ha, di fatto, smantellato l’idea di servizio pubblico, che perde la sua funzione sociale e assistenziale e viene, secondo Bourdieu, gestito come un’impresa privata da parte di funzionari usciti dalle grandi scuole di Stato.

Questo processo trasforma quindi le pratiche solidali (e mutatis mutandis, quelle culturali) in una semplice allocazione di risorse che non fa altro che riprodurre gli schemi, i confini e gli spazi sociali già marginalizzati dal lavoro, dalla provenienza, dal sistema educativo, lasciando a pochi audaci di frontiera il compito di un confronto quotidiano con tali scelte.

In questi vent’anni, questa pratica di stagnazione non solo ha bloccato tutti nelle posizioni di partenza, ma ha anche nei fatti rivelato quella contraddizione che la politica (come pratica sociale) aveva modificato (o camuffato): ossia che lo studio, il sapere, i libri, la cultura, la pratica nella polis avessero la capacità di far uscire dal guado le traiettorie soggettive (e collettive), e che quel modello a cui aspirare, costruito sui consumi, fosse l’unico modello possibile.

Secondo Raffaele Alberto Ventura, “La classe media affronta oggi una degradazione della sua situazione economica: precariato, disoccupazione, debito… Ma soprattutto fa i conti con la sua dipendenza da valori e aspirazioni socialmente indotti che la spingono a identificarsi con la figura del borghese”.

Questi argomenti vengono apertamente contestati da Valerio Mattioli, che scrive: “Sapete che c’è? Io al limite direi che di retorica del Sessantotto ce n’è stata troppo poca, tiè. E lo dice uno che del Sessantotto non gliene è nemmeno mai fregato granché, figuratevi. Direi – perché è quello che mi dice la realtà che conosco, in cui sono cresciuto e a cui se volete sono scampato – che è stato il modo brutale in cui per decenni è stato represso e confinato a un angolo qualsiasi slancio utopico, qualsiasi proiezione desiderante, ad aver preparato la strada a quello scenario da guerra civile imminente che per Ventura è l’unica prospettiva plausibile a quasi dieci anni dalla “più grande crisi nella storia del capitalismo”. Altro che “siamo stati troppo velleitari, torniamo a più miti propositi”. Ragionamenti del genere se li possono permettere solo quegli happy few che dalla rinuncia alle “velleità” non hanno niente da perdere perché già hanno tutto e quel tutto vogliono tenerselo stretto”.

A dispetto del sociologo francese, e anche in parte di alcuni relatori, io tendo a credere che, per un breve ma fortunato periodo questo processo abbia agito e funzionato: se pensiamo alle felici esperienze del movimento femminista, di quello operaista e delle trasformazioni del mondo del lavoro, o la portata dirompente degli scambi simbolici e sociali successivi alla legge Basaglia, quegli spiragli sembrano ancora percorribili proprio perché il conflitto non è stato rimosso o negato, ma attraversato dai pensieri e dai corpi.

Quei saperi hanno operato nella definizione del sé (sia individuale, che collettivo) per poterne nei fatti, prendere distanza, per vedere il posizionamento nel mondo, che non significa solamente percepire il mondo impossibile, ma, al contempo, anche quello possibile.

Come ci dice Gloria Origgi, “L’autenticità non è altro che l’incontro, raro e perfetto, tra l’immagine che vorremmo dare di noi stessi e come siamo visti dagli altri. Diventiamo autentici grazie allo sguardo degli altri. Il nostro ego è doppio ed è nella sua doppiezza che ci motiva. Senza la coscienza dell’interdipendenza tra me e l’immagine di me negli occhi degli altri, tra la mia reputazione e la mia azione, non posso capire né chi sono né perché agisco”. Quella relazione sociale è politica, ed è pratica culturale.

La cultura può operare questi processi di trasformazione nella misura in cui da esercizio estetico diventa pratica etica, di fatto, politica. Solo quel processo di trasformazione può ricreare quella relazione con l’altro, centrale per definirsi, per costruire la reputazione, per emanciparsi. Così il mondo del bar di Casola Valserio, palestra di immaginari per Cristiano Cavina, quei “Bar degli Appennini, con la sua testa di cinghiale appesa sopra l’ingresso, il bancone consumato, la gente che anche se ti vuole bene non te lo dice perché non sa fare ma te lo dimostra mandandoti cordialmente a quel paese; un posto in cui si ha piacere di stare, anche solo per litigare un po’. Quelli sono turbine che generano un sacco di narrativa, di ogni tipo”. E di racconti abbiamo bisogno, perché permettono di vedere oltre le montagne, oltre la circonvallazione, e lo spazio (geografico/sociale) diventa un mondo del possibile e non uno spazio finito, in provincia di Faenza come al Giambellino.

Queste sono alcune delle questioni che vorremmo affrontare a partire da due poli, quello della cultura come mezzo di conoscenza, riscatto e trasformazione del mondo da una parte, e quello della cultura come mezzo inceppato di conservazione del privilegio dall’altra, si articolerà la conversazione. In un luogo che vive questo tema attraverso la concretezza del rapporto quotidiano coi lettori: sia quelli già forti che quelli che stanno nascendo.


Programma

19.00 – Rosetta è disagiata – conversazione presso libreria Gogol & Company Via Savona, 101 Milano

Partecipano:
Cristiano Cavina – scrittore, autore di Fratelli nella notte, Feltrinelli
Valerio Mattioli – curatore e autore, sua la critica al libro di Ventura pubblicata su cheFare
Gloria Origgi – filosofa, autrice di La reputazione. Chi dice cosa di chi, Università Bocconi Editore
Raffaele Alberto Ventura – scrittore, autore di Teoria della classe disagiata, Minimum Fax

Modera Bertram Niessen – direttore scientifico di cheFare  – 21.00 – Djset di Matteo Saltalamacchia


Rosetta. Un progetto culturale nomade è un ciclo di incontri che attraversa Milano toccando luoghi sempre diversi della città, all’ora dell’aperitivo, a partire dai primi mesi del 2017 per almeno due anni, ideato e promosso da Casa della Cultura e cheFare, realizzato con Fondazione Cariplo.  Gli incontri sono nove all’anno, uno per ciascuna delle nove zone della città.

Rosetta vuole mettere in relazione i centri innovativi di produzione e distribuzione culturale della città di Milano, compresi quelli meno mappati e riconosciuti. Lo farà affrontando temi diversi tra loro, accomunati da un legame diretto con la vita quotidiana, con l’obiettivo di coinvolgere quei pubblici più giovani e più dinamici che stentano a riconoscersi nei mondi culturali tradizionali.

Il progetto è stato realizzato con Fondazione Cariplo, tra le realtà filantropiche più importanti del mondo con oltre 1000 progetti sostenuti ogni anno per 144 milioni di euro e grandi sfide per il futuro. Giovani, benessere e comunità le tre le parole chiave che ispirano oggi l’attività della fondazione. “Dalla coesione tra le persone parte la nostra piccola rivoluzione – Giuseppe Guzzetti, Presidente – perché ciascuno dia il proprio contributo per fondare il futuro della nostra società su quei principi di solidarietà e di innovazione sociale che sono alla base dell’operato di Fondazione Cariplo” #conFondazioneCariplo

www.rosettamilano.it
per informazioni:
rosetta.milano@che-fare.com
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È davvero tutta colpa del neoliberismo?

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È tempo di abbandonare l’uso del termine «crisi» per descrivere la fase storica che sta vivendo l’Occidente. I principali indicatori economici, a cominciare dal tasso di crescita del Pil negli ultimi cinquant’anni, suggeriscono che non abbiamo a che fare con una semplice perturbazione ma con una situazione permanente e sempre più degradata.

A essere eccezionale per il capitalismo occidentale è piuttosto quella brevissima parentesi di prosperità dopo la seconda guerra mondiale che oggi viene appunto ricordata come «Età dell’Oro».

Un periodo di sviluppo rapidissimo e smisurato, nel quale milioni di persone in tutto il mondo passarono dalla miseria al benessere, andando a occupare i ranghi di una classe media sempre più ampia. Per dare un nome alla fase successiva, di cui individua l’inizio nel 1973, lo storico Eric J. Hobsbawm ha proposto un termine molto più adatto: la frana.

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La metafora è sorprendentemente aderente al grafico che mostra la crescita del Pil decennio per decennio a partire dagli anni Sessanta, in cui possiamo vedere una scala che inesorabilmente scende. Una forma di decrescita ma per niente serena. Eppure si continua a fingere che la congiuntura passerà e in questo modo si alimentano aspettative che potranno soltanto essere deluse. La verità è che stiamo galleggiando in una curiosa illusione collettiva che ereditiamo dalla generazione dei baby boomer. Mentre l’idea del collasso si fa strada tra gli studiosi, l’opinione pubblica occidentale sembra situarsi ancora tra la prima e la seconda fase dell’elaborazione del lutto, tra il rifiuto e la rabbia.

Dapprima si individuarono delle cause esogene per spiegare quello che stava accadendo senza mettere in discussione i modelli macroeconomici dominanti, e così per un po’ ci si accontentò di dare tutta la colpa agli shock petroliferi del 1973 e del 1979.

D’altronde all’epoca (proprio come oggi) si studiava sui manuali di Paul A. Samuelson, secondo cui

l’impiego appropriato e rafforzato delle politiche monetarie e fiscali attraverso il nostro sistema di economia misto può evitare gli eccessi dei boom e delle depressioni, e garantisce uno sviluppo progressivo sano.

Come ricorda Hobsbawm, negli anni Settanta e Ottanta si parlava timidamente di «recessioni» o di «stagnazioni» mentre i governi si limitavano a guadagnare tempo; ed è quello che si continua a fare oggi tra l’esplosione di una bolla e l’altra, sempre più ravvicinate e ovviamente attribuite a qualche occasionale misfatto di trader cocainomani e agenti immobiliari troppo avidi.

Quando fu chiaro che le vecchie politiche di stabilizzazione attraverso la spesa pubblica non producevano più i loro effetti miracolosi (anche perché la produttività marginale del debito aveva visibilmente raggiunto un tetto e lo Stato iniziava a entrare in una pesante crisi fiscale) si fece strada una nuova scuola di economisti, detta neoclassica, che si illuse di rilanciare l’economia tagliando le tasse e abbassando gli stipendi. Fallirono anche loro, ma si rivelarono provvidenziali capri espiatori: tant’è che si può oggi scaricare ogni colpa sul «neoliberismo» e illudersi che tornare alla politica economica del boom – ammesso che sia mai stata davvero abbandonata – basterà a rimettere in moto la crescita. Se non fosse che i nostri problemi sono iniziati proprio in quel periodo, con l’esaurimento di quello che evidentemente era soltanto un ciclo. (…)

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A metà degli anni Sessanta, in effetti, l’oliato meccanismo comincia a incepparsi. La domanda ricomincia a scarseggiare e stimolarla risulta sempre più costoso. Disoccupazione e inflazione si presentano contemporaneamente, contraddicendo la logica keynesiana… Negli Stati Uniti vanno in crisi sia il modello di produzione fordista che gli strumenti politici di sostegno alla crescita.

La bilancia commerciale entra in una fase deficitaria e, per non essere costretto a svuotare Fort Knox in cambio dei miliardi di verdoni sparsi per il mondo (in particolare nelle riserve europee) Richard Nixon nel 1971 abolisce la convertibilità del dollaro in oro. Come se non bastasse, la crisi energetica del 1973 pone fine allo sfruttamento precapitalistico del petrolio.

Certo, una nuova generazione di consumatori è stata formata dai «persuasori occulti» di Madison Avenue e dai «cattivi maestri» della controcultura libertaria del Sessantotto, ma di fronte a una crisi di accumulazione resta il problema di come finanziare tutto questo desiderio liberato.

La classe agiata, diventata classe media, cresce fino al punto in cui il sistema produttivo non è più in grado di sostenerla: il settore primario e il settore secondario possono forse generare abbastanza merci per soddisfare un’ampia gamma di bisogni, ma non realizzare abbastanza plusvalore per finanziare i crescenti investimenti – posizionali e formativi – che i membri della classe devono sostenere per garantire la propria permanenza al suo interno. La classe disagiata non è al riparo dalla minaccia della «grande devalorizzazione» di cui scrivono Lohoff e Trenkle nel loro saggio del 2012 Die große Entwertung. In fin dei conti:

L’enorme crescita del settore terziario negli ultimi trent’anni, lungi dall’essere il risultato di una nuova dinamica di accumulazione generata in seno a questo settore, non è altro che l’effetto derivato dell’espansione del capitale fittizio. La grande maggioranza degli impieghi nei servizi è, in modo diretto o indiretto, totalmente dipendente dai flussi in provenienza dal settore finanziario e non può, di per sé, sostenersi.

Il punto è che, ovviamente, le contraddizioni non erano state risolte; si erano segretamente accumulate. Non solo per il potere pubblico era diventato sempre più difficile correggere le disfunzioni generate dalla divisione del lavoro, ma inoltre lo sviluppo ipertrofico dello Stato aveva iniziato a produrre nuove disfunzioni. Si era trattato solo di «tempo guadagnato», per citare Wolfgang Streeck.

In fondo se crediamo a Robert J. Gordon e alla sua teoria dell’ascesa e declino, gli straordinari risultati del capitalismo di Stato postbellico non sono dipesi tanto da qualche efficacissima politica di stabilizzazione quanto dalle condizioni storiche eccezionali. Guerra inclusa: come aveva dichiarato con il consueto cinico ottimismo Keynes alla BBC nel 1939, la spesa militare poteva funzionare come cura per la disoccupazione.

I marxisti non si erano lasciati ingannare. Le loro analisi rifiutano di prendere in considerazione cause esogene come lo sviluppo tecnologico e si concentrano sulle contraddizioni strutturali dello sviluppo industriale. L’economista belga Ernest Mandel lo fece praticamente in diretta, prima nel 1963 con una Iniziazione all’economia marxista in cui denunciava le contraddizioni dell’economia mista e poi nel 1972, con un libro che fece epoca anche perché fin dal titolo dell’edizione americana – Late Capitalism – proponeva un punto di vista nuovo e originale.

Il tardo capitalismo, secondo Mandel, è l’epoca in cui tutte le contraddizioni emergono in maniera esplosiva, franano potremmo anche dire, scatenando una crisi generalizzata nei rapporti di produzione. Di fatto, «quella che oggigiorno viene chiamata recessione non è altro che una crisi capitalista classica ammortizzata per effetto del welfare pubblico». Ma questa opera di contenimento produce a sua volta degli effetti collaterali.

Contrariamente ai governi che si vantavano di riuscire a controllare il ciclo espandendo il credito e la massa monetaria, Mandel e gli altri marxisti avevano previsto con un certo anticipo l’aumento dell’inflazione, il crollo del sistema monetario internazionale del 1971, la contrazione del commercio mondiale e la recessione del 1974-75. (…)

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Le osservazioni dei marxisti sull’inflazione o sulla spesa pubblica improduttiva, e in generale la loro diffidenza nei confronti della capacità dei governi di regolare il ciclo capitalistico, possono convergere apparentemente con le teorie avanzate dagli economisti che oggi vengono chiamati «neoclassici» o «neo­liberisti» (negli anni Sessanta si parlava invece di «neoclassici», «neoliberali» o «neocapitalisti» per parlare dei sostenitori dell’economia mista). Con una grossa differenza: che la soluzione proposta dai nostri economisti neoliberali, ovvero un deciso ritorno al laissez-faire, secondo i marxisti non può chiaramente evitare la crisi bensì serve a gestirla.

Quello che per un marxista appare evidentemente come un sintomo della crisi, ovvero l’abbassamento del livello dei salari, per un neoclassico sarebbe soltanto un aggiustamento del sistema: se il costo del lavoro si abbassa al di sotto della soglia di povertà, ad esempio, l’economista «borghese» dirà che ciò segue semplicemente la legge della domanda e dell’offerta. Per il lavoratore, questa resta una tragedia.

Tuttavia il fallimento del paradigma keynesiano era ormai sotto gli occhi di tutti, e sembrava giunto il tempo di un cambio della guardia, simboleggiato dai premi Nobel assegnati nel 1972 a Friedrich von Hayek e nel 1976 a Milton Friedman «per la sua dimostrazione della complessità della politica di stabilizzazione». Quarant’anni dopo, bisogna riconoscere che neanche questo è servito ad arrestare la frana. (…)

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Le politiche della Thatcher (1979-1990) nel Regno Unito e di Reagan negli Usa (1981-1989) – ispirate alla scuola neoclassica e integrate con altre di segno opposto – furono l’ennesima manovra di correzione del capitalismo per assicurarne la sopravvivenza. Si parla di privatizzazioni, lotta ai sindacati, lotta all’inflazione: tutte misure volte da una parte a sostenere la competitività dell’offerta compensando la caduta del saggio di profitto, e dall’altra a recuperare sul costo del lavoro quello che si era ceduto e si continuava a cedere sul costo dello Stato. Non si abbandonarono invece le misure di stimolo della domanda e la politica monetaria espansiva, che associate alla deregolamentazione dei mercati finanziari permise di inondare il mercato di «soldi facili». (…)

Le responsabilità del famigerato «neoliberismo» in tutta questa faccenda risultano vagamente esagerate e ci impediscono di guardare al cuore della natura essenzialmente tragica dei cicli di accumulazione. Nella pratica il neoliberismo si realizzò violando una parte dei principi sostanziali della dottrina che lo ispirava: quel che è sicuro è che non si riuscì a invertire praticamente nessuna delle tendenze di lungo periodo sopra segnalate – salvo appunto la caduta del tasso di profitto.

Lo stesso Reagan fu artefice di una politica deficitaria e giustificò la riduzione delle tasse con l’argomento che ciò avrebbe stimolato la domanda aggregata, proponendo insomma un inedito keynesismo di destra. L’attuale debito pubblico americano, in fin dei conti, non è altro che il risultato della coesistenza scoordinata tra una politica di spesa ambiziosa (in particolare sul versante militare) e una politica fiscale concentrata sulla competitività.

Per non parlare del debito italiano, risultato dell’aggiustamento utopistico della spesa sul gettito virtuale fantasticato al netto di un’evasione fisiologica. Altro che neoliberismo: il problema era congenito alla struttura del capitalismo industriale, quel sistema di cui i keynesiani dichiaravano di avere risolto le contraddizioni.

Oggi viene il sospetto che la gestione dell’economia non possa che rispondere alle regole della curatela fallimentare o, detto con maggiore eleganza, dell’amministrazione della catastrofe. È il «realismo capitalista» di cui ha scritto Mark Fisher pochi anni prima di togliersi la vita al culmine di una depressione che aveva indubbiamente un solido radicamento nella sua concezione dell’economia.

Alla luce di tutto questo, com’è possibile che il dibattito pubblico proceda per la sua strada, trattando la «crisi» come un incidente di percorso che verrà presto superato? C’è innanzitutto una ragione culturale: una grande maggioranza della popolazione oggi vivente è nata dopo gli anni Trenta e non conosce nient’altro che la società del benessere.

C’è poi un’inquietante spiegazione politica: la classe dirigente non può permettersi di rivelare il proprio fallimento; deve continuare a promettere, promettere, promettere, finanziando la propria sussistenza con il debito pubblico. Se necessario, trovandosi un capro espiatorio in quelle che sono le conseguenze della frana o più precisamente i nuovi strumenti che abbiamo trovato per gestirla: l’espansione del commercio internazionale, la finanziarizzazione, la robotizzazione, l’immigrazione, l’euro eccetera. (…)

In questo contesto desolante esiste un’ampia letteratura che dimostra che complessivamente il mondo sta diventando un posto migliore, poiché fasce sempre più ampie di popolazione accedono a nuovi beni e servizi fondamentali. Ma questo esercizio di teodicea non tiene conto del fenomeno della povertà relativa, ovvero lo scarto crescente tra chi è più ricco e chi è più povero, e dell’effetto devastante del declassamento, che produce uno sfasamento tra aspettative e risultati individuali. Entrambi questi fenomeni, oggi, vanno compresi più come scarti di status che come sperequazione nella distribuzione delle risorse.

Se la produzione complessiva continua effettivamente ad aumentare, e quindi a soddisfare bisogni, è anche vero che questo accade in un contesto economico profondamente instabile. Il prezzo altissimo che paghiamo per far girare la macchina del benessere sta nella compressione degli stipendi di una massa crescente di lavoratori, nella disoccupazione di massa e nella progressiva erosione del risparmio accumulato dal ceto medio.

Il problema, sollevato ultimamente da vari economisti, è la polarizzazione della nostra società: non soltanto c’è chi vince e c’è chi perde, ma lo scarto tra massimo e minimo continua a crescere in maniera esponenziale. La concorrenza per lo status, ovvero per saltare dal minimo al massimo, diventa così sempre più disperata e costosa.

E tutto questo, grazie alla retorica dominante del «successo», senza che il passaggio dal minimo al massimo paia mai impossibile. Il prezzo della mobilità ascendente è la mobilità discendente. Ogni balzo verso l’alto può concludersi con una rovinosa caduta: e questa è precisamente la traiettoria della classe disagiata.


Pubblichiamo un estratto da Teoria della classe disagiata (Minimum Fax) di Raffaele Alberto Ventura da questa settimana disponibile in libreria.