La piattaforma Fiverr nasce per delegare piccoli lavori creativi ma l’effetto è spaesante

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Un estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso. È il quinto della serie di estratti dallo stesso libro dedicati a Fiverr e ai cosiddetti ‘gig’: piccoli lavori una tantum intorno ai quali sta fiorendo un intero sistema economico legato alle piattaforme digitali


«Quando ti tocca delegare, fallo» scrive Adam Dachis su LifeHacker a proposito di Fiverr. Delegare quando possibile, ovvero quando conviene spendere una modica somma in denaro piuttosto che il proprio tempo prezioso. Delegare compiti tediosi, stressanti o ingrati. Ma quando è così facile, fino a che punto ci si può spingere?

A tale riguardo vorrei raccontare un aneddoto: uno studente di graphic design, poco interessato al corso di programmazione, mi ha confessato di aver delegato la scrittura del codice necessaria a passare l’esame. «Ciò che conta è l’idea da sviluppare, non lo sviluppo», mi ha detto.

Pubblichiamo, su concessione dell’autore, un estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso (Krisis, 2018)

Fiverr non ha certo dato avvio allo scaricabarile (chi scrive tesi per conto terzi lo fa dall’alba dei tempi), eppure l’immediatezza fornita dalla rete acuisce il fenomeno, ponendo degli interrogativi. Nelle società affluenti, ci si limiterà tutti a essere art director che creano visioni e idee realizzate poi altrove da qualcun altro? Nel fare ciò, cosa ne sarà dell’identità professionale e delle competenze… del mestiere (parola che già suona desueta)?

Sintetizzando crudamente gli effetti della popolarizzazione delle tecnologie digitali, si potrebbero individuare tre rivoluzioni.

La prima riguarda l’avvento dei personal computer, che ha garantito l’accesso agli strumenti. La seconda, quella del web, ha garantito l’accesso ai canali di distribuzione. Infine, la terza, quella della gig economy (tuttora in corso di svolgimento), garantisce l’accesso alla manodopera.

Fiverr, come molti altri mediatori di servizi online, incorpora tutte e tre queste rivoluzioni in quella che si potrebbe definire democratizzazione della delega. Fiverr stessa ci scherza su, pubblicando su Instagram un meme che ritrae un giovane in pigiama costretto a fare outsourcing di tutti i suoi impiegati poiché abita ancora in casa dei genitori.

Se tutti delegano, chi fa? In un episodio della serie Silicon Valley (capolavoro di Mike Judge, autore di Beavis and Butt-Head) alcuni personaggi visitano un supermercato dove non è rimasto nessuno che la spesa la fa per sé, bensì soltanto addetti di varie startup che la spesa la fanno per altri, consegnandola poi a domicilio. Si tratta di un’immagine comica che rischia di non farci ridere.

Non è per pigrizia che la società della delega scarica i propri fardelli altrove, ma piuttosto perché è troppo indaffarata. Un nuovo servizio di Amazon sembra confermarlo. Amazon Key controlla elettronicamente la serratura di casa garantendo l’accesso a manodopera di vario tipo quando il proprietario è assente.

In vista di una visita imminente dei suoi genitori, la protagonista dello spot introduttivo si fa recapitare un pacco e pulire casa perché è bloccata in ufficio.  Da lì, grazie a una telecamera può controllare – o meglio microsorvegliare –  gli addetti, assicurandosi che lavorino per bene.

Secondo il filosofo André Gorz, che sul finire degli anni ‘80 criticava i limiti della ragione economica, tra le conseguenze del delegare c’è lo spaesamento, l’erosione del senso di appartenenza agli ambienti che si abitano, una sensazione che si rafforza quando vengono a mancare la cura e la partecipazione attiva: la casa cessa di appartenere a chi la abita nello stesso modo in cui un’auto guidata da un autista appartiene più a quest’ultimo che al suo legittimo proprietario.

Eppure lo chaffeur non è completamente padrone del mezzo e, chissà, magari gli tocca chiamare un Uber per tornare a casa.

Ora che abbiamo analizzato il punto di vista di chi intraprende, passiamo a quello di chi è intrapreso. I seller sono davvero così autonomi come Fiverr spinge a credere?

Per capirlo bisognerebbe conoscere il guadagno medio orario, la distribuzione geografica dei flussi di capitale, il grado di continuità degli ingaggi e via dicendo. Per ovvie ragioni, queste informazioni non sono accessibili e perciò ci si può limitare solo a delle deduzioni.

Nel 2012 Fiverr faceva presente che per il 14% dei seller il sito rappresentava la fonte primaria di reddito. Non è chiaro però l’ammontare di tale reddito. Cercando su internet, ci si imbatte perlopiù in casi di survivorship bias («Donna guadagna più di 9000 dollari al mese con Fiverr») che non aiutano certo a farsi un’idea chiara.

Tuttavia, a giudicare dal modo in cui Fiverr viene inquadrato dai giornali, qualche dubbio sorge. Il Wall Street Journal introduce il marketplace con il seguente quesito: «Che cosa si ottiene mescolando disoccupazione, consumatori frugali e noia su internet?» C’è poi chi racconta di banchieri disoccupati che lavorano fino all’alba. E, se si considera il fatto che certi mestieri creativi sono svolti in ogni caso a titolo quasi gratuito, l’uso della piattaforma può addirittura rappresentare per qualcuno un segnale di progressiva professionalizzazione.

Fiverr, un esperimento sociale fatto mercato globale, è uno strumento user-friendly che moltiplica i livelli di organizzazione imprenditoriale del lavoro: Fiverr organizza il campo d’azione in cui i microimprenditori si organizzano a vicenda. A tale scopo, il lavoro è frammentato in una grossa quantità di microcompiti.

Portata alle estreme conseguenze, tale frammentazione si presenta sotto forma di paradosso del sorite: in quanti microcompiti si può spezzettare un lavoro prima che questo non sia più considerato tale? Se questa sembra fantascienza, basti pensare al meatware, descritto da Pietro Minto in un articolo per la rivista online Il Tascabile, ovvero un tipo di manodopera che mescola le facoltà cognitive degli esseri umani alla ripetitività tipica dei computer. Su siti come Mechanical Turk (proprietà di Amazon) si può guadagnare qualche dollaro trovando gattini nelle foto o ricopiando indirizzi stampati su biglietti da visita.

I captcha, piccoli test svolti online per dimostrare di non essere un bot, funzionano in modo simile. Qualche tempo fa, una donna statunitense ha fatto causa a Google chiedendo un risarcimento per il lavoro svolto attraverso i captcha.

La corte le ha dato torto, sulla base del fatto che la soluzione di un captcha fosse troppo rapida per essere considerata lavoro vero e proprio. Eppure, milioni di soluzioni sono cristallizzate nei servizi online che usiamo, sono ciò che li rende intelligenti e dunque redditizi.

Benché il lavoro autonomo sia tuttora esercitato per la maggior parte senza l’ausilio dei mercati digitali, si può ipotizzare un futuro prossimo in cui Fiverr abbia acquistato la pervasività di Facebook diventando così una tappa obbligata per il crescente numero di freelancer globali.

In tal caso l’autodistruzione creatrice delle carriere, la prototipazione rapida di ruoli professionali, diventerebbe normale più di quanto non lo sia già. Ovviamente Fiverr spinge in questa direzione, incoraggiando i suoi utenti a mettere in pratica ciò che l’artista tedesco Sebastian Schmieg chiama sopravvivenza creativa, ovvero «la necessità di inventarsi qualsiasi cosa per sopravvivere in un contesto competitivo».

Che la sopravvivenza creativa sia una necessità dei tempi che viviamo o piuttosto una stravagante forma di emancipazione è oggetto di discussione. Certo è però che non bisogna proiettarsi nel futuro per scoprire che sono in molti a ricorrere agli espedienti più assurdi – e a volte umilianti – per sbarcare il lunario in rete. Secondo Kaufman, non c’è nulla di nuovo in questo.

In pieno stile schumpeteriano, il macro-imprenditore considera le crisi economiche delle ottime opportunità per innovare.

Prendendo a riferimento la Grande Depressione degli anni ‘30, ha sostenuto nella sua rubrica su Forbes che «tempi disperati impongo una mentalità innovativa». Fiverr è il posto ideale in cui esercitare tale mentalità perché, come scriveva Lamar Morgan sul blog Examiner nel 2012, «in un’economia impazzita, Fiverr è una buona scelta sia per chi vende che per chi compra».


Immagine di copertina: ph. Mpho Mojapelo da Unsplash




La retorica ‘doer’ di Fiverr celebra l’ammazzarsi di lavoro

Oggi pubblichiamo il quarto estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso. È l’ultimo della serie di 4 estratti dallo stesso libro dedicati a Fiverr e ai cosiddetti ‘gig’: piccoli lavori una tantum intorno ai quali sta fiorendo un intero sistema economico legato alle piattaforme digitali


(Continua da questa pagina) – Qualche tempo fa Jia Tolentino ha firmato un articolo per il New Yorker intitolato «La Gig Economy celebra l’ammazzarsi di lavoro». Il pezzo in questione è solo una delle numerose reazioni a una campagna pubblicitaria che ha fatto balzare Fiverr agli onori della cronaca.

Pubblichiamo, su concessione dell’autore, un estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso (Krisis, 2018)

L’indignazione di massa è stata causata innanzitutto da un poster che mostra il primo piano di una giovane doer dai tratti un po’ lividi tipici di alcune modelle Calvin Klein. Il ritratto, firmato da Platon, fotografo britannico che ha immortalato Obama, Putin e Mark Zuckerberg, è associato alla tipografia schietta del seguente testo:

Mangi caffè per pranzo.

Finisci ciò che c’è da finire.

La privazione del sonno è la tua droga preferita.

Potresti essere un doer.

Il manifesto è apparso nella metropolitana di New York, dove ha attirato l’attenzione di pendolari assonnati che hanno prontamente riversato la loro rabbia su Twitter contro quella che è solo una piccola parte della campagna pubblicitaria di Fiverr.

Campagna che va sotto l’hasthtag #InDoersWeTrust, uno slogan che mescola riferimenti religiosi a richiami economici e identitari («In God We Trust», il motto degli Stati Uniti d’America, è stampato sui vari tagli del dollaro).

Ulteriore declinazione: uno spot in cui ripercorriamo la routine dei doer, dove vediamo i microimprenditori comunicare con l’altro capo del mondo («Ni Hao Ma») dalla toilette di un club, oppure promuovere instancabilmente il loro business con parenti e familiari.

I doer si danno da fare e sono sempre disponibili, anche mentre fanno sesso; i doer in questione sono perlopiù donne bianche, anche se a finire sulla copertina di Entrepreneur è un ragazzo. Il ritmo frenetico dello spot ricorda film mozzafiato come Birdman e Whiplash, entrambi esplorazioni dei dilemmi relativi al successo individuale. L’atmosfera always on di Fiverr, pervasa com’è da un’ansia subliminale e scandita dal battito di un cuore che pompa energy drink, sembra un adattamento del manifesto generazionale di Trainspotting fatto da un gruppo di manager. In questo caso però «scegliere la vita» significa trascurare i bisogni del proprio corpo.

Significa ignorare la morte, che fa la sua apparizione in un breve cameo. Il doer se ne frega delle idee («la mia sorellina è piena d’idee…») perché non è certo un sognatore (chi ha tempo per dormire?). Il doer disprezza l’industria hi-tech e i suoi profeti. È tempo di «battere i guru, battere i ragazzi dei fondi di fiducia, battere i bro del settore tecnologico». Nessuno crede più agli “unicorni”: le fiabe sono per i bambini. I burocrati del settore finanziario – banchieri, capitalisti di ventura ecc. – sono (letteralmente) squali agli occhi del nuovo imprenditore.

Per non parlare delle gang dei nerd con i loro sciocchi gadget. Stop ai brainstorming, ai meeting infiniti e a tutti quei rituali aziendali che servono solo a perdere tempo. Lo spot ne ricorda un altro: quello della Cadillac del 2014, una schietta celebrazione dell’etica lavorativa americana dal punto di vista di uno che ce l’ha fatta. Con una differenza: qualsiasi traccia di lusso è ora scomparsa.

La campagna è stata creata da DCX Growth Accelerator, agenzia di base a Brooklyn che non si fa scrupoli a chiamare «ideologia» quello che un pubblicitario comune chiamerebbe concept. L’ideologia in questione è definita da una tensione culturale tra l’imprenditore agile e l’élite burocratica. Per i creatori della campagna, l’imprenditore agile non è altro che il piccolo freelance che lavora duro mentre l’élite burocratica non è, come si potrebbe pensare, quella composta da grigi quadri aziendali, bensì si tratta del popolo dei TED talk, di quelli che campano di pane e disruption.

L’imprenditoria celebrata da Fiverr è dunque quella invisibile ai media, troppo impegnati a spendere fiumi d’inchiostro a proposito dell’ultima bizzarria di Elon Musk. Citato sul sito Attn:, Chris Lane, Global Head of Digital di Fiverr, non esita a definire la campagna una celebrazione dello spirito imprenditoriale e ne spiega gli intenti: «vogliamo far sì che le persone oltrepassino la loro zona di comfort, vogliamo sfidarle a riflettere sulla loro vita e chiedersi se stanno facendo tutto il possibile per ottenere il successo». A proposito di successo, lo scopo della campagna era quello di trasformare Fiverr in un brand riconoscibile. Oltre allo spot e ai poster, slogan quali «Make America Do Again» (ricordate la ragazza di Singapore?) e «Niente come una busta paga sicura e affidabile. Per schiacciare la tua anima», sebbene motivo di sdegno mediatico, hanno garantito che ciò accadesse: Fiverr vuol dire fare.

La campagna segnala un mutamento dell’ideale imprenditoriale che riecheggia nei tumulti politici del momento: i doer non sono i tipici imprenditori celebrati dai media per i loro pronostici fantascientifici. Il nuovo imprenditore non è né un visionario, né un mago della tecnologia.

Il nuovo imprenditore, il doer, non è, come da tradizione americana, semplicemente operoso, bensì indaffarato. Ciò che Fiverr promuove è una specie di populismo imprenditoriale, secondo cui l’élite tecno-finanziaria dei nullafacenti sarà presto demolita dalla moltitudine dei facenti, quelli veri. Che i pubblicitari abbiano avuto un’illuminazione durante i loro brainstorming, rendendosi conto che non c’è tema più virale della nostra relazione perversa con il lavoro? La campagna è uno specchio deformante che ingigantisce l’ossessione collettiva con la busyness e i sensi di colpa che vi si associano. Ci arrabbiamo con Fiverr ma in fondo ce l’abbiamo con noi stessi e con la nostra incapacità di vivere rispettando un adeguato work-life balance. «Se non stai facendo, allora che stai facendo?» domanda il doer che è dentro di noi.

L’elogio del fare, dell’etica lavorativa e della competizione non sono i soli valori che compongono la narrazione di Fiverr, così come la campagna pubblicitaria non ne rappresenta l’unico veicolo. Un altro tema chiave è quello dell’indipendenza che, come abbiamo visto, va a braccetto con la celebrazione del lavoro autonomo.

A tal proposito Fiverr ha prodotto uno studio in cui tenta di dimostrare che la microimprenditoria conduce all’indipendenza finanziaria. Il tema dell’indipendenza trasforma inoltre la struttura stessa della compagnia a livello manageriale, dato che Fiverr si considera un’organizzazione in cui ognuno è CEO. Sono parecchi gli articoli e gli infomercial in cui Micha Kaufman in persona si spende a favore della gig economy, quella che, come dichiara su Wired, è la «forza che potrebbe salvare il lavoratore americano».

Un altro tema ricorrente è quello del globalismo: il lavoro freelance non ha bisogno di radici; è nomade, fluido, diffuso. Non a caso la campagna pubblicitaria predilige le infrastrutture mobili del lavoro informale, come tornelli e stazioni metropolitane. Fiverr lancia una call per assumere un Chief Digital Nomad, il cui compito è quello di girare il mondo per documentare la vita dei freelance.

L’atmosfera always on di Fiverr sembra un adattamento del manifesto generazionale di Trainspotting fatto da un gruppo di manager. In questo caso però «scegli la vita» significa trascurare i bisogni del proprio corpo.

La candidata scelta è la nigeriana Chelsy O, che per prima cosa si reca in Vietnam per celebrare la Festa internazionale dei lavoratori. Infine come ogni tech-company che si rispetti, Fiverr non è priva di autoironia, e così si prende gioco dell’universo del self-help («C’è una sola regola per avere successo» al contrario di quanto sostiene Stephen Covey) o della stessa retorica imprenditoriale e i suoi feticci, come il gene imprenditoriale, protagonista di un video pubblicato come Pesce d’aprile.

Leggi tutti gli altri estratti da Entreprecariat di Silvio Lorusso su come funziona Fiverr e sul suo concept

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‘Autodistruzione creatrice’, ovvero il lavoro al tempo di Fiverr

Oggi pubblichiamo il terzo estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso. Fa parte della serie di 4 estratti dallo stesso libro che pubblicheremo settimanalmente e sono dedicati a Fiverr e ai cosiddetti ‘gig’: piccoli lavori una tantum intorno ai quali sta fiorendo un intero sistema economico legato alle piattaforme digitali.  


(Continua da questa pagina) –  A volte diversificare la propria offerta vuol dire inventare un servizio che prima non c’era. Come si è detto, su Fiverr si trovano numerosissime stramberie che sembrano rifarsi al teatro dell’assurdo e alla performance art oppure replicano la logica dei meme.

Questi servizi post-situazionisti ci fanno riflettere su tutti gli altri: in fondo che differenza c’è tra chi registra la sua voce per uno spot pubblicitario e chi si filma mentre parla al telefono con una banana? Entrambi forniscono delle prestazioni, livellate e astratte dalla conveniente interfaccia di Fiverr.

[Pubblichiamo, su concessione dell’autore, un estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso (Krisis, 2018)]

Il sito è perciò una chiara manifestazione di quella che Federico Chicchi e Anna Simone chiamano «società della prestazione», in cui le qualità performative del lavoro contemporaneo sono oggetto di valorizzazione economica. Fiverr incoraggia l’incessante invenzione di servizi, un processo che, strizzando l’occhio a Schumpeter, potremmo chiamare autodistruzione creatrice, ovvero il rimescolamento di competenze, pratiche e iniziative a misura d’individuo.

Su Fiverr il lavoro diventa spesso spettacolo, e ciò a volte porta con sé delle conseguenze. Nel 2017 Felix Kjellberg, in arte PewDiePie, lo youtuber con più iscritti al mondo, è finito nei guai con un video in cui descriveva proprio il funzionamento del sito. Nella clip PewDiePie scopre Fiverr e ci spiega di che si tratta.

Per fare ciò ordina innanzitutto un logo, stupendosi della semplicità e dei costi del servizio, ma poi decide sventuratamente di testare i limiti etici della piattaforma e di quelli che ci lavorano commissionando il messaggio «Death to All Jews» ai Fiverr Funny Guys, due giovani indiani che, indossando una decorazione natalizia sul petto nudo, mostrano un cartello con un messaggio scelto dal buyer mentre ballano su uno sfondo tropicale.

Difficile ignorare le implicazioni post-coloniali del fattaccio: qui lo sguardo occidentale esercita il suo potere mettendo a valore l’esotismo dei corpi, dei movimenti e degli scenari. Kjellberg è stato prontamente bannato da Youtube e lo stesso è accaduto ai poveri indiani che hanno in seguito pubblicato una dichiarazione di scuse in cui spiegano di non conoscere il significato del messaggio incriminato.

Mettiamo da parte gli scandali e consideriamo ora le storie di successo, che a quanto pare su Fiverr non mancano. Tra i “killer gig” ci sono quelli offerti da Joel Young, padre di famiglia costretto a trasferirsi spesso a causa della sua attività di pastore ecclesiastico. Young ha guadagnato quasi un milione di dollari creando voice-over su Fiverr, munito solo del suo laptop e di un microfono.

Riflettendo sulla sua fortunata carriera in un’intervista della CNBC, Young spiega le ragioni del suo successo: bisogna reggersi sulle proprie gambe e far sì che le cose accadano. Di contro, i detrattori del marketplace sono parecchi. C’è chi considera Fiverr una vera e propria truffa e ha creato un sito apposta per dirlo intitolato Fiverr is a Scam.

Su Fiverr numerosissime stramberie sembrano rifarsi al teatro dell’assurdo e alla performance art oppure replicano la logica dei meme

Una truffa sia per gli acquirenti, che comprano ad esempio follower per i propri social che scompaiono nell’arco di pochi giorni; ma anche per i venditori, poiché la piattaforma «attinge a un bacino globale di seller disperati che competono tra loro nella speranza di procacciarsi quattro dollari preziosi». Fiverr, come d’altra parte numerosi servizi online, generalizza l’accesso a risorse e servizi, ma nel fare ciò omogeneizza il mercato prescindendo dalle differenze culturali ed economiche dei contesti di riferimento.

Un grafico statunitense si può trovare a competere con un collega bengalese per un guadagno equivalente solo sulla carta.

Qualche tempo fa fece scalpore una storia relativa alla campagna presidenziale di Trump. Tra i tormentoni dell’attuale presidente degli Stati Uniti, c’era l’idea di riportare il lavoro in America. Basta con la delocalizzazione!, prometteva Trump. Ebbene, si è scoperto tra i designer delle slide usate dall’allora candidato compariva un’adolescente di Singapore assoldata proprio tramite Fiverr. La ragazza ha raccontato di aver usato il servizio per mettere qualche soldo da parte per l’apparecchio da denti.

In tale contesto, dove si colloca Fiverr, dalla parte dei buyer o dei seller? In altre parole, ritiene più importante agevolare il lavoro dei venditori oppure far sì che i compratori traggano vantaggio da una manodopera a basso costo e senza diritti, scaricando i costi sui freelancer?

Su Fiverr il lavoro diventa spesso spettacolo

A tal proposito la posizione dell’azienda rimane in questo parecchio ambigua: qualche anno fa pubblicò un post sponsorizzato che domandava: «perché pagare 100 dollari per un logo?» scatenando le ire di molti graphic designer. Nella sezione dedicata alla rassegna stampa, Fiverr si fregia di articoli dal titolo piuttosto deprimente, come «Così un uomo usa Fiverr e la sua creatività in un’economia di poveretti» in cui si racconta con entusiasmo che per cinque dollari è ora possibile delegare interi progetti a sconosciuti.

Fiverr è inoltre promosso come lo strumento perfetto per il bootstrapping di una startup, ovvero la messa in piedi di un servizio con risorse finanziarie minime. Una testimonial di Fiverr spiega sull’homepage che il sito le ha permesso di «delegare lo stress» mentre un altro gioisce del tempo risparmiato grazie a esso. D’altro canto Fiverr si propone di potenziare l’autonomia dei suoi microimprenditori offrendo tutorial e strumenti per gestire le proprie finanze, come Elevate, una sorta di 101 della vita freelance.

Inoltre il sito tutela i freelancer rendendo il pagamento immediato, eliminando lo spettro delle attese di 30, 60, 90 giorni. La vera domanda sembra dunque essere: qual è la differenza tra buyer e seller, dato che, come abbiamo visto, il titolo di doer può essere vantato sia da chi vende, sia da chi compra. Su Fiverr ognuno sembra essere il freelancer di qualcun altro, un perfetto schema di Ponzi che avvantaggia soprattutto la piattaforma.




‘Congratulazioni per il tuo primo gig’: il lavoro dei traduttori su Fiverr

Oggi pubblichiamo il secondo estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso. Fa parte della serie di 4 estratti dallo stesso libro che pubblicheremo settimanalmente e sono dedicati a Fiverr e ai cosiddetti ‘gig’: piccoli lavori una tantum intorno ai quali sta fiorendo un intero sistema economico legato alle piattaforme digitali.  


(Continua da questa pagina) – Per farci un’idea della composizione dei seller soffermiamoci su un tipo di servizio comune, la traduzione di testi, che ha il vantaggio di offrire una metrica chiara: il numero di battute. A dispetto di tutto il parlare di automazione e intelligenza artificiale, su Fiverr troviamo centinaia di traduttori in carne e ossa.

[Pubblichiamo, su concessione dell’autore, un estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso (Krisis, 2018)]

Tra quelli che parlano italiano c’è Fabio (i nomi sono stati cambiati), 18 anni, attualmente residente in Finlandia, che per poco meno di 5 euro promette di tradurre un testo di 3000 parole offrendo anche una revisione. Si è iscritto da poco a Fiverr ed è contento perché in meno di un mese ha guadagnato 50 euro.

Fabio, che considera Fiverr un lavoretto, ambisce a guadagnare 100-200 euro mensili. C’è poi Michele, seller di livello 2, che oltre a fare traduzioni, scrive canzoni, pianifica viaggi in Italia, trascrive testi da tracce audio ecc; il tutto su Fiverr. Michele si presenta con uno di quei video esplicativi, ormai onnipresenti, in cui si vede una mano che disegna delle silhouette su un foglio bianco, un cartoon probabilmente commissionato a qualche altro utente di Fiverr. Dopo aver perso il lavoro, il traduttore-cantautore ha fatto di Fiverr la sua principale occupazione.

Per lui si tratta di un sito serio nonostante le false recensioni negative create dalla concorrenza e i continui aggiornamenti del sito che a volte danneggiano la sua visibilità. Michele lamenta però l’alto costo di commissione di Fiverr e la mancanza di comunicazione con i gestori del sito, che gli negano il badge più importante senza addurre motivazioni chiare. C’è infine Clara, traduttrice e redattrice con 16 anni di esperienza, che traduce 3000 parole per circa 30 euro nell’arco di dieci giorni.

Attiva su Fiverr dal 2014, Clara è una seller di livello 1 che può vantare numerosi feedback (tutti positivi) e diversi clienti fissi. Nel suo profilo ci tiene a precisare che le sue traduzioni sono svolte manualmente. Oltre a questo servizio, Clara impagina libri e disegna copertine. Benché Fiverr rappresenti una delle sue principali fonti di reddito, la traduttrice lamenta alcune politiche del marketplace «poco garantiste» per i seller. Ha subìto infatti diversi tentativi di truffa, perlopiù ignorati dall’amministrazione. Racconta così del suo ultimo guaio con dei concorrenti asiatici:

A volte i loro messaggi sono addirittura incomprensibili e non ho perso tempo a rispondere in un momento di troppo lavoro. Sono stata penalizzata e riportata al primo livello, perché ora (le cose le sappiamo solo quando le subiamo) bisogna rispondere a tutti, sempre, anche solo con un emoticon o una segnalazione di spamming. Altrimenti downgrade. Un’assurdità.

Nonostante queste complicazioni, Clara non ha dubbi riguardo al valore di Fiverr, e ne parla in questi termini: «per noi traduttori italiani è una mano santa, specie se sei costretto (come me) a lavorare da casa. Altrimenti moriremmo di fame».

Per volontà di completezza, ma anche per risparmiare un po’ di tempo su una traduzione, ho provato a commissionare un “lavoretto” su Fiverr. Il seller l’ho scelto abbastanza casualmente, optando per una cifra intermedia tra quelle disponibili. Alla fine ho ingaggiato una ragazza italo-australiana al costo di 35 euro per tradurre 1500 parole.

Facciamo un piccolo calcolo: un testo di tale lunghezza richiede come minimo tre ore di lavoro, quindi il guadagno, esclusa la percentuale che spetta a Fiverr, è poco meno di 10 euro l’ora, cifra che corrisponde al salario minimo in Australia, senza considerare le tasse.

Dopo un paio di clic il mio ordine era stato inoltrato: in due giorni avrei ricevuto la mia traduzione. Dall’app dedicata potevo controllare l’ora locale della freelance e accertarmi che fosse attiva sul sito. Ho notato inoltre un conto alla rovescia relativo alla data di consegna.

Poco dopo aver piazzato l’ordine, ho ricevuto una mail da Fiverr: «Congratulazioni per il tuo primo gig. Ora sei ufficialmente un doer». A questo punto mi sono sentito un po’ in colpa: ironicamente, a fare di me uno che produce è stato l’aver sbolognato un compito per me tedioso.

Da questo breve e incompleto censimento capiamo che Fiverr non è popolato soltanto, come ci si potrebbe aspettare, da lavoratori in giovane età. Le statistiche fornite dal sito lo confermano: mentre all’inizio i giovani dominavano la piattaforma, pian piano sono arrivati gli adulti e addirittura gli ultracinquantenni.

Qualunque sia la loro età, i seller sembrano abbracciare l’idea che «fare una cosa e farla bene» non sia su Fiverr una strategia vincente. Così parecchi utenti rivestono vari ruoli, praticando una specie di A/B testing professionale continuo per identificare i servizi che raggiungono il pubblico più ampio [1]. D’altronde microimprenditoria vuol dire anche limitato investimento e perciò rischio ridotto. Su Fiverr vige dunque una regola non scritta che proviene dal mondo del business e degli investimenti, quella di diversificare il proprio portfolio.


1 Nell’ambito del web design, per A/B testing si intende il confronto tra due o più versioni di un singolo elemento d’interfaccia per determinare quale risulti più efficace a seguito della risposta di un gruppo di utenti.




Cosa sei disposto a fare per cinque dollari? La prototipazione rapida delle carriere su Fiverr

Oggi pubblichiamo un estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso. È il primo di 4 estratti dallo stesso libro che pubblicheremo settimanalmente e sono dedicati a Fiverr e ai cosiddetti ‘gig’: piccoli lavori una tantum intorno ai quali sta fiorendo un intero sistema economico legato alle piattaforme digitali.  


«Il posto per le persone che condividono le cose che sono disposte a fare per 5 dollari». Fiverr.com si presentava così, nel 2010: incuriosendo e sfidando gli utenti. All’epoca si sarebbe potuto pensare a un esperimento sociale creato apposta per stimolare gli appetiti voyeuristici della rete. E invece, col passare di qualche anno, Fiverr è diventato il più grande mercato online dedicato ai servizi freelance sparsi sul globo. Il sito è ora tra i 100 più popolari negli Stati Uniti e tra i 200 più popolari al mondo. La piattaforma, fondata a Tel Aviv da Micha Kaufman e Shai Wininger, conta ulteriori uffici a New York, Chicago, Miami, e San Francisco e coordina quasi un milione di transazioni al mese.

Pubblichiamo, su concessione dell’autore, un estratto da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso (Krisis, 2018)

Oggi Fiverr ci accoglie con un invito al pragmatismo («Non limitarti a sognare, agisci») e ci propone servizi di freelancing per il il lean entrepreneur, l’imprenditore agile. Di quali servizi si tratta? Se riesci a immaginarlo probabilmente su Fiverr c’è. Hai bisogno di un grafico che realizzi il logo del tuo ristorante o di un programmatore che ne crei il sito? Sei stanco di giocare a Fortnite da solo? Vuoi incrementare i follower del tuo canale YouTube? E ancora: Vuoi che Gesù Cristo in persona faccia gli auguri alla tua migliore amica? La tua relazione sentimentale necessita di qualche seduta di counseling? Urge l’intervento di un cartomante? Fiverr è ciò che fa per te. Oltre a sezioni prevedibili come quelle dedicate al marketing o al montaggio video, ce n’è una intitolata «Fun & Lifestyle».

Qui ci si imbatte nei servizi più assurdi: dai numerosi imitatori di Morgan Freeman al ragazzo indiano che recita qualsiasi messaggio mentre indossa un costume da «uomo vegetale». Per non parlare della sezione riservata ai video virali… Qui le varie offerte, spesso introdotte da generiche immagini stock, fanno leva su una dose di micro-intrattenimento, simile a quello sdoganato tempo fa da Chatroulette: con pochi click ti puoi ritrovare faccia a faccia con uno sconosciuto che vive chissà dove e si rivolge proprio a te.

Il funzionamento di Fiverr è semplice: un seller pubblica un annuncio relativo a un gig (un lavoretto svolto una tantum), un buyer acquista il servizio, Fiverr trattiene il 20% del guadagno. Se il prezzo di un certo servizio è di cinque dollari (il minimo permesso dal sito), Fiverr ne ricava uno. Una piccola percentuale va inoltre a coprire i costi di commissione di PayPal.

Un sistema di valutazione e feedback, simile a quello di Amazon, aiuta i compratori a orientarsi nella scelta dei seller, i quali ottengono a loro volta dei badge relativi alle proprie prestazioni che fungono sia da garanzia che da accesso a una serie di benefici. Fiverr si premura – o almeno così sostiene – di dare una chance anche ai nuovi arrivati, i rising talents: l’algoritmo di ricerca è programmato in modo tale da opporsi a un network effect che accentrerebbe le commissioni nelle mani di pochi seller.

Per coloro che necessitano di servizi di alta qualità c’è Fiverr Pro, sezione del sito dedicata ai professionisti certificati. È così che Fiverr prova a risolvere l’annosa questione della validità delle pratiche non protette da un albo professionale, come ad esempio la grafica o il copywriting.

Produttivizzare i servizi

Fiverr è stata fondata a quattro mani eppure è Micha Kaufman, con alle spalle tre ulteriori startup e un passato da avvocato, a fare da agitatore per il sito in questione.

Come spiega Carmel DeAmicis sul sito Pando, il fatto che Kaufman abbia contribuito a creare un mercato online che delocalizza il lavoro freelance è perfettamente in linea con il suo passato imprenditoriale.

Munito di un’idea relativa a un prodotto di sicurezza digitale, l’avvocato – che «non sapeva programmare, ma aveva una vision» – si imbattè in un sito russo che proponeva un prodotto simile a quello che aveva in mente.

Di lì a poco Kaufman aveva fondato la sua prima startup con un individuo mai incontrato di persona, e così è stato fino a quando l’azienda è stata venduta.

Successivamente, furono due trend paralleli ad attirare l’attenzione di Wininger e Kaufman, attuale CEO di Fiverr: l’incremento del lavoro autonomo e l’aumento della disoccupazione. A poca distanza dal 2008, gli effetti di una crisi apparentemente cronica erano chiari agli occhi di tutti.

Per i due imprenditori attivi in Israele, paese che ambiva a diventare una startup nation, era evidente che c’era un’opportunità da cogliere. In un’intervista per Yahoo del 2012, Kaufman dichiarava che Fiverr non era stato pensato soltanto per connettere gli individui che già offrono un servizio, bensì come un’occasione per creare nuove forme di occupazione.

Dato che all’epoca Fiverr ospitava soltanto servizi dal costo di cinque dollari, non sorprende la reazione di Eric Pfeiffer, l’intervistatore, che, pur sollevando qualche dubbio rispetto alla sostenibilità economica del lavoro su Fiverr, notava come il sito sfatasse il mito secondo cui gli statunitensi non siano disposti a lavorare per bassi salari.

Non appena reso pubblico, Fiverr ha generato una risposta immediata sia da parte della stampa che degli utenti: decine di testate, tra cui CNN e Fox News, hanno pubblicizzato il sito elencando i modi più strani di «guadagnare 5 verdoni».

Tuttavia, i primi a essere sorpresi dalla quantità e varietà dei servizi sono stati i suoi stessi creatori. Ma perché proprio cinque dollari? Benché tale vincolo sia ormai scomparso, l’idea innovativa di Fiverr è tutta lì. La scelta di un prezzo fisso per ogni tipo di servizio era motivata da un preciso obiettivo: far sì che ingaggiare un freelancer fosse facile e immediato come effettuare un acquisto su eBay, evitando una seccante trafila di preventivi e negoziazioni.

In altre parole, il fine era quello di «produttivizzare i servizi». Il vincolo serviva proprio a questo: il freelancer sveglio avrebbe atomizzato le sue prestazioni in scaglioni da 5 dollari (Kaufman parla di «affettare il proprio talento»), moltiplicandoli se necessario per commesse più impegnative.

Da parte sua il cliente, attratto dall’accessibilità del prezzo («il costo di un frappuccino»), non avrebbe esitato a rischiare la modica somma su Fiverr. Completa il tutto la messa a punto di una vera e propria sintassi sopravvissuta fino ad oggi. Ogni gig è introdotto infatti da una formula che sembra quasi una riga di codice: I will X for X dollars.

L’idea ha funzionato: già nel 2012 la piattaforma poteva contare più di 600.000 gig. La produttivizzazione dei servizi è inoltre ciò che distingue Fiverr dai numerosi mercati concorrenti basati su tariffe orarie come Upwork, Outsourcely o Freelancers.com.

Una volta raggiunta una certa stabilità (anche grazie a 110 milioni di dollari di finanziamento ottenuti nel corso di diversi round) il limite dei cinque dollari è stato eliminato, lasciando però una traccia nel nome del sito. A questo punto Kaufman ha cominciato a definire microimprenditori gli utenti attivi su Fiverr, celebrando al tempo stesso l’accesso illimitato alla manodopera reso possibile dal web.

L’amministratore delegato ha dunque respinto la necessità di un’imprenditoria locale abbracciando pienamente una visione fluida, globalista e apolide del mercato del lavoro in cui l’assenza di friction e l’immediatezza la fanno da padrone. «Abbiamo trasformato il mercato del lavoro in un e-commerce», dichiara Kaufman su TechCrunch, ben contento di occultare il famigerato esercito di riserva dietro al prezzo fisso di una merce, con buona pace di Karl Marx.

Il testo continua la settimana prossima con il secondo estratto su Fiverr da da Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro di Silvio Lorusso.
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Scuole d’arte e design: Expectations as reality

Pubblichiamo una trascrizione di un talk tenuto presso la Yale School of Arts il 5 aprile 2022 nella serie “Paul Rand”, un ciclo di lezioni tenute da ospiti internazionali su design, grafica e architettura.


 

In una fase di inflazione dei titoli, lo scarto tra le aspirazioni prodotte dal sistema scolastico e le possibilità reali che esso offre, diventa un fatto strutturale, che colpisce in misura diversa, a seconda della rarità del rispettivo titolo, ed a seconda del rispettivo capitale sociale, tutti i membri di una generazione scolastica. – Pierre Bourdieu

Buongiorno. Oggi vorrei parlarvi di qualcosa che conoscete fin troppo bene: la scuola d’arte e design. Uso di proposito un’espressione generica perché credo che ciò su cui mi soffermerò accomuni diverse istituzioni dedicate all’insegnamento delle discipline progettuali (accademia, università, scuola privata, master, summer school ecc.). Le ragioni per cui insisterò un po’ puntigliosamente nel tenere insieme arte e design diventeranno ovvie, spero, nel corso della presentazione.

Negli ultimi anni mi sono dedicato al tema del lavoro, inteso come attività, sistema di relazioni e soprattutto come mito, ovvero come storia che ci raccontiamo a vicenda1Vedi S. Lorusso, Entreprecariat: Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro, Brescia: Krisis, 2018.. In altre parole, ho tentato di offrire una prospettiva quanto più possibile realistica (e proprio per questo nient’affatto immune da idealizzazioni e patine retoriche) sul cosiddetto ‘mondo reale’, quella dimensione che segue, in teoria, al periodo di studi. È proprio questa sequenza che, secondo me, va riconsiderata. Iniziamo da qui.

La scuola è il mondo reale

La scuola è spesso concepita come uno spazio protetto dalla disorientante brutalità del mondo del lavoro. Tradizionalmente si identifica nella scuola il luogo privilegiato della vita contemplativa, contrapposto al contesto lavorativo, dominio della vita attiva. Sono parecchi i motivi per cui le cose non stanno così, e alcuni di essi si legano specificatamente al campo del design. Anni fa Enzo Mari, designer assurto a “coscienza critica del design”, notava che, a patto di reputare un diploma in design alla stregua di un prodotto, è legittimo affermare che il settore più imponente di questo campo, anche in termini di fatturato, è l’“industria” delle scuole di design. Quindi le ragioni strutturali del mercato interagiscono già a scuola con le “speranze, strategie e ingenuità” dei futuri designer2E. Mari (a cura di B. Casavecchia). 25 Modi Per Piantare Un Chiodo, Milano: Mondadori, 2020, pp. 122-23.. Qui non solo si riproduce la cultura del design, ma si generano i soggetti che ne fruiranno.

Atlante secondo Lenin, Enzo Mari, 1974.

 

Tuttavia c’è un’altra ragione, più generale e più allarmante, per considerare la scuola come un organo del mondo reale. In tempi di crisi, essa mette sempre meno al riparo dalle preoccupazioni tipiche dei lavoratori: non sono estranei agli studenti affitti salati, alloggi che scarseggiano, debiti di vario genere, lavoretti malpagati o stage curricolari non pagati affatto. Inoltre l’instabilità del mondo del lavoro cambia il senso dell’esperienza scolastica: in un clima di incertezza, non serve sapere chi sia Gary Becker per adottare istintivamente il prisma dell’investimento quando si parla di formazione. Insomma, i problemi della scuola sono difficilmente distinguibili dai problemi della vita.

Giuseppe de Mattia, 2021.

 

Benché meno protetta di quanto non la si immagini, la scuola d’arte e design resta, nel migliore dei casi, uno spazio che consente di pensare criticamente. Se in passato la critica del design e tramite il design si è rivolta principalmente verso l’esterno (esaminando, per esempio, le piattaforme tecnologiche dominanti, l’inquinamento, le ideologie che orientano gli stili), oggi assistiamo sempre più a una critica autoriferita, che nasce nelle istituzioni e punta il dito contro di esse, biasimandone valori e modelli organizzativi. Lo spettro della critica istituzionale, che fino a qualche tempo fa perseguitava principalmente i musei e le biennali dell’arte, si manifesta ora anche nelle scuole di design.

Qui in Olanda (e non solo) si è sviluppata una rete di pagine Instagram non ufficiali legate alle varie accademie. Si tratta di account anonimi che si cimentano quotidianamente in una critica istituzionale a tutto tondo: assurdità burocratiche, sessismo, meritocrazia fasulla, precarietà dei contratti… il tutto veicolato attraverso il linguaggio al tempo stesso esoterico e accessibile dei meme, inside joke aperti a tutti privi della pedante seriosità tipica dei movimenti. È in queste pagine che nei mesi più bui della pandemia ho percepito il fervore di una comunità, molto più che nel paternalismo accorato delle comunicazioni ufficiali3Vedi la mia intervista a @wdka.teachermemes intitolata “May the Bridges We Burn Light the Way”, Other Worlds, 26 luglio 2021, link. Vedi anche T. ten Zweege, “Calling Out Dutch Art Institutions”, Futuress, 26 febbraio 2021, link..

“12 ore di revisione. 15 minuti di pausa”. @wdka.teachermemes, 2021.

Il lunghissimo ’68

Non è peraltro la prima volta in cui i confini tra scuola e mondo reale si fanno così fragili e porosi. Scaturite, ieri come oggi, da un senso di alienazione e precarietà, le proteste studentesche del ’68 e del ’77 sono state eventi colossali in grado di rompere l’incantesimo che faceva della scuola un fenomeno naturale e perciò immutabile.

Foto di Enrico Scuro, 1977.

 

A Giancarlo De Carlo, che ha analizzato la crisi delle facoltà di architettura in Italia, gli studenti parevano “passeggeri accidentali ed estranei in una istituzione che dovrebbe essere fatta per loro e che si giustifica solo per la loro presenza.”4G. De Carlo, La piramide rovesciata: Architettura oltre il ’68. Macerata: Quodlibet, 2018, p. 46. Che dire allora del corpo docente temporaneo? “Spermatozoii alla febbrile ricerca di un ovulo che dia loro una configurazione concreta”. Avendo seguito con vivo interesse il dibattito studentesco, De Carlo riportava per esteso i comunicati degli studenti torinesi:

L’Università attuale non risponde alle esigenze poste dalla domanda di lavoro esistente nella società. Il nostro obiettivo tuttavia non è il semplice adeguamento alle esigenze della domanda di lavoro. Riteniamo che l’Università debba e possa fornire a chi la frequente, al tempo stesso, […] preparazione professionale adeguata e strumenti di critica.5Ibid., 54.

Slogan formulato dagli studenti nel ’68.

 

Non molto mi pare cambiato. Gli studenti sono sempre più consci della “sorte che sarebbe stata loro riservata una volta usciti dalla scuola, senza arte né parte in un mondo indecifrabile.”6Ibid., 73.

La scuola come mercato

Come suggerisce il comunicato, quando si parla di scuola ci si divide tra realisti e idealisti. I realisti si concentrano sull’impiego futuro, sulle competenze e i bisogni del mercato. Gli idealisti si dividono a loro volta tra pessimisti e ottimisti. I primi sostengono che la scuola sia un luogo di disciplinamento e repressione. Essi lamentano inoltre l’assoggettamento dell’istruzione al mercato del lavoro. La scuola, secondo questo punto di vista, rischia di diventare una fabbrica, solo apparentemente egualitaria, di quadri aziendali, liberi professionisti, operai o addirittura disoccupati. I secondi vedono nella scuola uno spazio di liberazione attraverso l’esercizio dello spirito critico e la sospensione dei preconcetti familiari. Da una parte Ivan Illich, dall’altra bell hooks.

Ovviamente hanno tutti ragione, almeno in parte. Come fondere però le rispettive posizioni in un modello? Sostenere che la scuola d’arte e design sia parte integrante del mondo reale non basta. Non è nemmeno sufficiente, per non dire scorretto, contrapporre preparazione professionale a sviluppo dello spirito critico. Ad esempio, siamo davvero sicuri che la scuola professionalizzante non possa essere liberatoria, o che l’emancipazione non sia, in alcuni casi, una forma di disciplina? Credo che Pierre Bourdieu offra una sintesi utile della questione. Per il sociologo francese la scuola è innanzitutto un mercato in cui il capitale culturale è formato e scambiato, ma soprattutto legittimato e sanzionato7P. Bourdieu, La distinzione: Critica sociale del gusto. Bologna: Il Mulino, 2012, p. 78-79.. Parlare di cultura come capitale è cruciale: significa sottolineare che la cultura, pensiero critico compreso, può essere convertita in capitale economico, cioè in denaro.

Il capitale scolastico, ovvero l’ammontare delle conoscenze legittimate dalla scuola, è un sottoinsieme del capitale culturale. A ogni livello d’istruzione, il discente porta con sé un’eredità più o meno sostanziosa (a volte addirittura negativa!) di capitale culturale, soppesata dunque dall’istituzione scolastica. Nessuno entra a scuola a mani vuote. La scuola d’arte e design è un caso particolare perché qui più che altrove lo studente è incoraggiato a fare del proprio bagaglio culturale, specialmente quello più personale (interessi, passioni, hobby, letture, ideali etici e politici ecc.) una ‘pratica’, ovvero l’attività attraverso cui la cultura diventa profitto e i consumatori culturali diventano produttori.

Mentre la ‘scuola emancipatrice’ si rivela nelle ambizioni apparentemente autonome di studenti e docenti, la ‘scuola conservatrice’ si nasconde nei meccanismi di legittimazione o sanzione di queste stesse ambizioni. Può dunque capitare che lo sdegno, manifestazione enfatica dello spirito critico, diventi un valore legittimo se non addirittura prescritto, come mi è capitato di osservare in alcune accademie. Tuttavia ciò non elimina il meccanismo di legittimazione in sé, spesso tacito e fatto di frizioni, impedimenti, micro-censure, che dalla scuola si estendono al mercato del lavoro.

Diventare se stessi

La casa era il luogo in cui ero costretta a conformarmi all’immagine di qualcun altro su chi e cosa avrei dovuto essere. La scuola era il luogo in cui potevo dimenticare quell’io e, attraverso le idee, reinventarmi.8b. hooks, Insegnare a trasgredire: L’educazione come pratica della libertà. Milano: Meltemi, 2020.

La scuola di bell hooks, donna nera cresciuta in un ambiente patriarcale e segregato, è l’antitesi della casa: territorio di reinvenzione fuori dai bastioni della tradizione9Eppure, come abbiamo visto, la separazione tra casa e scuola è perlopiù sfumata. A scuola si porta, volente o nolente, sempre e comunque, parte del fardello casalingo. E non è detto che l’ambito scolastico sia meno conformista di quello domestico.. La scuola d’arte e design va oltre e fa della reinvenzione una riscoperta. Qui si insiste spesso, infatti, sull’io autentico, su ciò che ‘tu e solo tu’ puoi fare o apprezzare. In altre parole, adottando una retorica dell’autenticità, si promette a produttori e fruitori di “diventare ciò che sono”.

A partire da questa considerazione vorrei affrontare l’annosa questione del rapporto tra arte e design. Non intendo però riesumare antiche distinzioni (committenza contro indipendenza, razionalità contro intuito…), bensì propongo di considerare la relazione tra progetto di sé e progetto delle cose. Prevedo un certo scetticismo. Non è il design una pratica riflessiva con cui progettando il mondo si riprogetta se stessi? E non è l’arte a sua volta un elaborare artefatti indipendenti da colui che li crea? Tutto vero, eppure credo che esista una distinzione essenziale tra progetto del sé e progetto delle cose, distinzione resa evanescente dai continui elogi del progettista glorioso che riversa la sua personalità nelle cose che concepisce. Questa figura, calco sbiadito dell’artista romantico, sopravvive nelle promesse della scuola e nelle speranze degli studenti. Si tratta, in fondo, di una questione di valore. Mentre la dimensione progettuale della scuola d’arte e design tende a valorizzare cose e servizi, quella artistica – che non è certo priva di progettualità – tende a valorizzare l’espressione di un’identità autonoma e distinta.

Spot dell’Accademia del lusso, 2020.

 

Personal branding, capitale umano, identity politics: oggigiorno il progetto del sé è un impegno che si mette in atto consapevolmente. Bisogna dunque chiedersi: in quale misura si può considerare una prassi liberatoria? Per rispondere è necessario chiarire che la progettazione di sé, ciò che possiamo definire self-design, è uno dei fatti chiave della modernità, opportunità e condanna di chiunque abiti un ambiente non del tutto tradizionale. Poiché non ci sono traiettorie o ‘carriere’ predefinite, non ci si può esimere dal progettarsi. La vita si presenta a ciascuno come un ventaglio, più o meno ristretto, di rischi e possibilità10È proprio a partire da questa considerazione che il teorico del design Ezio Manzini descrive una condizione in cui “tutti devono costantemente progettare e riprogettare la loro esistenza, che lo vogliano o no.” E. Manzini, Design, When Everybody Designs Chicage: MIT Press, 2015, p. 1. . In tal senso, la spinta espressiva che generalmente si associa all’arte non è che il riflesso dell’ineluttabilità autoprogettuale tipicamente moderna. Non è un caso che la creatività, sinonimo popolare dell’arte come espressione individuale (e forse proprio per questo mal sopportata dai designer), abbia acquisito negli ultimi decenni tale primato.

Sono parecchi i libri che mescolano elementi di self-help con la cultura del design. Il cerchio si chiude: l’espressività artistica diventa strumento della realizzazione del proprio progetto di vita e lavoro.

 

Il self-design porta con sé dei rischi. Nelle sue forme estreme risulta ombelicale e patologicamente autoriflessivo: è cattiva letteratura. Misurandosi ossessivamente con il fantasma dell’identità, è turbato da un’essenza che non sempre si manifesta. Non è difficile comprendere allora la delusione di quegli studenti giunti a scuola credendo di cimentarsi con un sistema di idee, e che si ritrovano invece piazzati di fronte a uno specchio. Rovescio speculare della scuola emancipatrice di bell hooks, a livello pedagogico il self-design estremo si presenta come una facile scorciatoia, poiché delega la definizione dei contenuti agli studenti (“cosa ti sta a cuore?”).

L’identità si esprime per differenza, attraverso quel dispositivo di distinzione che è il gusto. Non dobbiamo pensare il gusto come l’attitudine snob del connoisseur, bensì come quel sistema di preferenze (dalle serie tv agli orientamenti politici) che di fatto costituiscono gli stili di vita. La scuola di arte e design, operando come mercato delle differenze, individua e legittima componenti identitarie facendone delle skill distintive (come quelle, ad esempio, del genio folle) da spendere successivamente nel lavoro, presentando alcune di esse come autentiche e dunque inalienabili. Tuttavia, quello dell’autenticità è, almeno in parte, un dispositivo che si nasconde agli altri e perfino a se stessi. Attraverso l’autoipnosi dell’autenticità, un aspetto della propria persona può apparire vero11Il saggista Raffale Alberto Ventura sostiene che “la correttezza politica non è un merito innato bensì niente di meno che una competenza acquisita.” Credo che sia proprio il dispositivo dell’autenticità a far sì che tale competenza appaia come un merito. “La cattiva notizia è che la cancel culture esiste eccome”, Wired, 10 maggio 2021, https://www.wired.it/play/cultura/2021/05/10/cancel-culture-esiste-debunker-politicamente-corretto/.. È così che il soggetto può diventare ciò che è. È dunque possibile essere inautentici e sinceri, o insinceri e autentici. Questo meccanismo permette di spiegare almeno in parte il turn autobiografico delle scuole, già notato anni fa da diversi osservatori12Tra cui Rob Giampietro, che ha proposto un’analogia tra scuola di design e corsi di scrittura creativa. “School Days”, in Graphic Design: Now In Production (a cura di Lupton, A. Blauwelt), Minneapolis: Walker Art Center, 2012, https://linedandunlined.com/archive/school-days/.. Tuttavia, mentre si incoraggia l’autobiografia si tende a omettere che non tutte le biografie sono parimenti spendibili, non tutte le identità si prestano a una conversione simbolica vantaggiosa.

Aspirazioni professionali

Il design è, al pari dell’arte, proteiforme: i suoi confini mutano costantemente e riflessivamente. Non a caso buona parte della letteratura di settore, piuttosto che chiarirne la natura, prova a indirizzarne gli scopi. Le scuole, in quanto fucine di correnti e manifesti, partecipano attivamente a questo proposito. Ciò fa sì che nel design possano convergere il carisma del maestro, il kitsch del progettista star, la nostalgia dell’artigiano, l’orgoglio dell’esperto e, sempre più, la lotta dell’operaio13Riccardo Falcinelli spiega che nessuna di queste attitudini è più vera delle altre: “Ciascuno sceglierà per sé che tipo di designer o di pubblico vuole essere: si può preferire il funzionalismo o il design espressivo; si può ambire a una grafica strettamente informativa o di stile postmoderno; credere nell’efficienza o praticare la performance. Purché non si scambino questi convincimenti per verità ineluttabili, purché li si tratti per ciò che sono. È l’unica strada per non finire nelle secche del moralismo, come coloro che credono ci sia un solo modo giusto di fare le cose.” Critica portatile al visual design, 2014, Torino: Einaudi, p. 301..

Potremmo dire, parafrasando Bourdieu, che essendo quello del design un campo fluido e confuso, permette obiettivi professionali anch’essi fluidi e confusi14P. Bourdieu, op. cit., p. 159.. La sua ambiguità dà adito ad aspirazioni mai completamente realizzate né del tutto frustrate, un’ambiguità peraltro utile a quei giovani ambiziosi che non vogliono rinunciare né al “lavoro vero” né a degli ipotetici benefici simbolici15P. De Martin, “Breaking Class. Upward Climbers and the Swiss Nature of Design History”, in Design Struggles (a cura di C. Mareis, N. Paim), Amsterdam: Valiz, 2021, p. 71.. Verrebbe quasi da sostituire il diktat modernista “less is more” con il più vago “more or less”…

L’intrinseca vaghezza del design possiede dunque una sua logica precisa. Ad essa si accompagna però un fenomeno recente: la professionalizzazione, intesa come promozione del ruolo del designer da parte di associazioni di categoria, pare un problema superato. Aggie Toppins, designer e docente statunitense, ha recentemente sostenuto che “oggi l’imperativo più urgente del campo non è più la professionalizzazione; è quello di rendere la pratica del design una parte responsabile della costruzione di un futuro equo e sostenibile.” A riprova della riuscita dell’impegno professionalizzante, Toppins riporta il fatto che “il graphic design è ora una specializzazione universitaria in voga ed è più visibile nei media popolari”16A. Toppins “We Need Graphic Design Histories That Look Beyond the Profession”, AIGA Eye on Design, 10 giugno 2021, https://eyeondesign.aiga.org/we-need-graphic-design-histories-that-look-beyond-the-profession/. . Un’affermazione che conferma la tesi di Mari della scuola come principale industria del design.

Post sponsorizzato di Fiverr, mercato online per freelancer.

 

È fondamentale riconoscere, come fa Toppins, che la professione è stata storicamente uno strumento di esclusione di donne, minoranze e fasce oppresse. Ma è anche importante ricordare che oggigiorno la questione professionale è tutt’altro che risolta. Per non annoiarvi, snocciolo soltanto un paio di dati. Uno studio fatto su 30.000 laureati in design nel Regno Unito (l’indirizzo universitario più popolare nelle triennali) ha dimostrato che solo un quarto di loro finisce per svolgere lavori altamente qualificati e ben pagati nel campo della progettazione17S. Dawood, “Design Most Popular University Choice – But Graduates Aren’t Ending up as Designers”, Design Week, 15 febbraio 2018, https://www.designweek.co.uk/issues/12-18-february-2018/design-popular-university-choice-graduates-arent-ending-designers/.. Entrando poi nello specifico del graphic design, il settore che mi è più familiare, è sufficiente dare un’occhiata alle sporadiche indagini professionali per rendersi conto che lo scenario non è certo roseo. Secondo il censo annuale dell’AIGA, ad esempio, un progettista su tre sarebbe insoddisfatto del proprio mestiere18AIGA Design Census 2019, https://designcensus.org/..

Elitismo di massa

Quando si parla di design e lavoro non si può fare a meno di parlare di tecnologia. Democratizzazione, automazione e disintermediazione sono parole chiave difficili da eludere. Ruben Pater, designer e autore olandese, riassume così il lungo dibattito intorno all’avvento del desktop publishing.

“Rendendo il nostro lavoro così facile da svolgere, stiamo svalutando la nostra professione”, ha avvertito lo storico del design Steven Heller. “Con tutto così democratico, rischiamo di perdere la posizione di élite che ci dà credibilità”. Non è stato così, come sottolinea Ellen Lupton nel suo libro sul design do-it-yourself, visto che “il campo si è allargato piuttosto che restringersi”.19R. Pater, CAPS LOCK, Amsterdam: Valiz, 2021, p. 329.

Oggi che la parola élite è diventata quasi un insulto, stare dalla parte di Ellen Lupton è certamente comodo. Va però detto che la crescita del settore prevista nei prossimi 10 anni è inferiore a quella di altri percorsi di carriera (il 3% contro una media dell’8%)20Vedi https://www.bls.gov/ooh/arts-and-design/graphic-designers.htm#tab-5.. Inoltre – e ciò conta ancora di più – Heller evidenziava un reale problema di percezione che si traduce in un declino dei guadagni e, ancor di più, dei profitti simbolici. Un problema che la scuola non può prendere alla leggera: nel momento in cui parecchi studenti non hanno la possibilità di convertire il loro ingente investimento scolastico in una posizione di élite professionale, un problema c’è e non è certo un problema da poco.

L’espressione ‘élite professionale’ è quasi tautologica. Secondo il filosofo Donald Schön, il professionista è colui che “rivendica conoscenze straordinarie in questioni di importanza umana, ottenendo in cambio diritti e privilegi straordinari”21D. Schön, The Reflective Practitioner: How Professionals Think in Action, London: Routledge, 2017, p. 4. . Questa definizione dimostra che la professione è un ruolo intrinsecamente esclusivo (ma non necessariamente escludente, come lo è stato in passato).

Se il sapere dei designer non è ritenuto, almeno in parte, una forma di competenza, non sarà loro riconosciuto lo status di professionisti. È quello che succede ad esempio nel graphic design, ambito il cui know-how ha perso la sua aura esoterica. La percezione comune è che, grazie ai dispositivi digitali e alla rete, chiunque possa progettare un logo o un libro. Per alcuni il fatto che il graphic design sia un indirizzo universitario è addirittura fonte di stupore.

La sola esistenza di questo tipo di propaganda dimostra che le aspettative qui criticate sono esse stesse una realtà.

 

Che questa percezione sia giusta o sbagliata è irrilevante. Essa plasma comunque le relazioni economiche generali tra clienti e designer, e quindi lo status di questi ultimi. Gli effetti sono già evidenti nel divario salariale tra gli specialisti dell’UX design, ambito tuttora considerato esoterico, e quelli della grafica, pratica ormai demistificata2274.000 dollari degli UX designer contro i 41.000 dei grafici. T. Siang, “How to Change Your Career from Graphic Design to UX Design”, Interaction Design Foundation, 2020, https://www.interaction-design.org/literature/article/how-to-change-your-career-from-graphic-design-to-ux-design..

Nasce dunque il sospetto che la professionalizzazione sia considerata un problema superato da chi questo problema lo ha superato individualmente, ovvero chi è considerato a tutti gli effetti un professionista, magari membro di un’élite culturale, in grado di ottenere benefici sia materiali che simbolici.23Cfr. M. Rock, On Unprofessionalism, 1994, https://2×4.org/ideas/1994/on-unprofessionalism/.

Responsabilità economica

Qualche mese fa ho firmato senza esitazione la lettera aperta dell’associazione Platform BK intitolata “I laureati delle accademie d’arte meritano di avere più potere sul loro futuro”24https://www.platformbk.nl/en/graduates-of-art-academies-deserve-more-agency-over-their-future/.. Rivolgendosi ai consigli di amministrazione delle accademie d’arte olandesi, i firmatari sostengono che l’istruzione dovrebbe preparare gli studenti alla “caotica realtà del mercato del lavoro nel settore culturale”. Il piano include quattro punti: sviluppo di corsi post-precarietà; impegno sociale e auto-organizzazione; inchieste sul mondo dopo l’accademia; coinvolgimento degli studenti negli sviluppi istituzionali.

Una versione precedente della lettera auspicava un’“educazione artistica economicamente responsabile”. La domanda è: come definire la responsabilità economica? Fin qui ho provato a dimostrare che non si tratta soltanto di redditi e fatture, né di mero spirito imprenditoriale, ma anche di flessioni di capitale simbolico, tra percezione pubblica e propriocezione professionale.

In seno a varie scuole d’arte e design si comincia ad affrontare il problema della professione prendendo le parti di un proletariato sfruttato. Benché, come mostrano i dati, ci siano delle ottime ragioni per adottare questa posizione, vi è in essa qualcosa di autolesionistico: accettando lamentosamente la neo-condizione operaia, si celano le legittime aspirazioni professionali dei designer, ovviamente tutt’altro che operaie. Questa è, secondo me, la ragione per cui la chiamata alla sindacalizzazione non porta i risultati sperati. Siamo in presenza di un doppio vincolo: la scuola educa gli studenti come liberi professionisti ma chiede loro una presa di coscienza proletaria. Essa rischia così di tradire la sua promessa professionale25Vedi S. Lorusso, “No Problem: Design School as Promise”, blog personale, 7 dicembre 2020, https://networkcultures.org/entreprecariat/no-problem-design/., non solo “creando dei falliti”, ma facendo del loro risentimento materiale per corsi e sillabi.26Sono consapevole del peso di questa espressione e non la uso a cuor leggero, come non la usano a cuor leggero gli autori a cui faccio riferimento. Si vedano in particolare P. Bourdieu, op. cit., p. 150, e I. Illich, Descolarizzare la Società, Milano: Mimesis, 2019.

Questo poster del duo The Rodina (2018) mette in scena il doppio vincolo professionale: lo slogan sindacale stride con il volto ingigantito di un membro dello studio, manifestazione più o meno cosciente dell’attività performativa necessaria a costituire un’aura professionale e culturale a partire dalla propria individualità.

Il designer come intellettuale

Il libro da cui è tratta la posizione di Ellen Lupton è stato scritto assieme agli studenti del MICA di Baltimora. È un libro che nasce a scuola. Nel testo introduttivo la storica americana accosta la figura del designer all’“intellettuale organico” di gramsciana memoria. Considerando il design “una funzione sociale, piuttosto che una professione o una disciplina accademica”, Lupton suggerisce che

Questi intellettuali organici potrebbero fondere lavoro fisico e mentale, generando “nuovi modi di pensare” a partire da azioni e costruzioni. Le loro abilità sarebbero sia tecniche che teoriche.27E. Lupton, D.I.Y: Design It Yourself. New York: Princeton Architectural Press, 2011, p. 21.

Ma che cos’è esattamente un intellettuale? A questa domanda, Tomás Maldonado, esponente complesso e profilico del campo del design, ha dedicato un intero volume di ampio respiro: si passa da Cervantes a Jonathan Swift, da Erasmo ad Heidegger28T. Maldonado, Che cos’è un intellettuale? Avventure e disavventure di un ruolo. Milano: Feltrinelli, 2010.. Secondo Maldonado l’intellettuale nasce impegnato. È una figura che “prende posizione” e firma manifesti. A volte ha una funzione esornativa all’interno del partito che sostiene e dal quale è sostenuto. Inoltre, nel momento in cui diventa moderno, non può fare a meno di lavorare su di sé:

Egli esprime “l’identità moderna”, un modo di essere intellettuale che privilegia la “riflessività radicale”. È l’intellettuale “dopo Montaigne”. Con Montaigne “entra in scena l’io”. Nasce l’intellettuale vòlto a se stesso, ma che si offre allo sguardo degli altri.”29Ibid., p. 27-8.

L’affinità con il prototipo del designer immaginato e promosso dalla scuola mi paiono evidenti: si tratta di un intellettuale che si schiera, critica ed educa, che progetta sé stesso e fa di questo lavoro il suo proprio contenuto da disseminare, la sua voce.

Le due culture

Questo tipo di intellettuale risponde al criterio dell’agire, ma che ne è del fare tipico dei progettisti? In altre sedi, lo stesso Maldonado ha offerto una definizione fulminante: il designer è un intellettuale tecnico30Stranamente la parola ‘designer’ non compare mai nel suo excursus sul ruolo dell’intellettuale.. Egli provava così ad abolire la falsa dicotomia che oppone cultura umanistica a cultura scientifica. Come spiega Giovanni Anceschi,

[…] “intellettuale tecnico” è un’espressione che colpisce come un ossimoro, ma è tale solo per il pensiero banale e per il pregiudizio schizoide che continua a credere nelle “due culture”.31G. Anceschi, Tomás Maldonado intellettuale politecnico Milano: Edizioni del Verri, 2020, p. 35.

Il tentativo di “scacciare quest’attività tanto concreta dal middle-brow professionalista e praticone” è meritevole, eppure le cose non sono così semplici32 Ivi.. La difficoltà sta nel fatto che la distinzione tra tecnico e intellettuale sopravvive nella percezione generale dei ruoli professionali, e in linea di massima il designer è percepito più come un tecnico che come un intellettuale.

Sondaggio effettuato su un campione generico di cento partecipanti. La figura del designer si lega principalmente alla sfera dell’arte e della creatività. I partecipanti non esitano inoltre a considerare il progettista un tecnico. Invece vi sono dubbi evidenti rispetto al designer come intellettuale.

 

Che tipo di tecnico, però? È vero per molti designer ciò che Bourdieu sostiene a proposito di coloro che occupano le posizioni inferiori della classe dominante. Essi “si ritrovano relegati in posizioni di tecnici, cioè di esecutori privi di potere economico, politico o culturale vero e proprio.”33P. Bourdieu, op. cit., p. 316. Ciò appare evidente nelle lamentazioni dei vari sotto-settori, non solo nel graphic design, che è in declino, ma anche in quelli in ascesa come l’interaction design, che chiede a gran voce il suo seat at the table. C’è differenza dunque tra il tecnico e il tecnologo, professionista a tutti gli effetti, sintesi riconosciuta delle due culture.

Come si spiega allora la propensione intellettualistica, per così dire monoculturale, del design contemporaneo? Non essendosi stabilito autorevolmente nella sfera della tecnica il designer tenta di rifarsi nella sfera umanistica. Si tratta di una mossa sensata, benché di gran lunga inconscia, che consiste nel sostituire un’élite tecnica (che élite non è più) con una pseudo-élite intellettuale, che si pone come “coscienza” della tecnica. La scuola può così rivendicare un ruolo formalmente autonomo, che consiste nell’esercizio del pensiero critico e nella produzione di consapevolezza. Nel loro ultimo libro, Mieke Gerritzen e Geert Lovink inquadrano bene questo fenomeno principalmente europeo con un titolo spietato: Made in China, Designed in California, Criticized in Europe.34M. Gerritzen, G. Lovink, Made in China, Designed in California, Criticized in Europe, Amsterdam: Valiz, 2019.

Il problema dei problemi

Il passaggio dall’intellettuale tecnico all’intellettuale della tecnica si manifesta in modo particolare nel design speculativo, anche detto design critico35Vedi A. Dunne, F. Raby, Speculative Everything: Design, Fiction, and Social Dreaming. Cambridge: The MIT Press, 2013.. Si tratta di una pratica che consiste nell’immaginare scenari futuri per ripensare – e dunque trasformare – il nostro presente.

Il manifesto fondante della corrente, firmato da Anthony Dunne e Fiona Raby nel 2009, mette in chiaro alcuni principi36http://dunneandraby.co.uk/content/projects/476/0.. Si passa dall’intenzione affermativa a quella critica; non si progetta più per la produzione bensì per il dibattito; la provocazione sostituisce l’innovazione e le applicazioni fanno largo alle implicazioni. Ne risulta una figura tutto sommato simile a quella tradizionale dell’intellettuale umanista. Non a caso il design critico è a volte chiamato anche design for debate.

“Consapevolezza”. Collage di descrizioni dei progetti di laurea della Design Academy di Eindhoven. Afonso Matos, 2022.

 

Ogni corrente ha le sue eccellenze e le sue mediocrità. Non mi interessa qui determinare la validità generale del design speculativo, bensì dare ragione della sua popolarità, specialmente in ambito pedagogico e accademico. Al netto di alcuni precedenti storici riconosciuti dagli stessi designer speculativi, la novità sta nel definire e ridefinire i problemi attraverso scenari e prototipi, piuttosto che dedicarsi alla loro risoluzione.

Così facendo, il design speculativo risolve il problema dell’accesso ai problemi. Creando finzioni legate alla realtà eppure del tutto autonome, può disconnettersi dalla dimensione concretamente sociale della tecnica, ovvero la cosiddetta tecnostruttura, che include CEO, policy-maker e quadri aziendali. Inoltre, a livello pedagogico tale pratica si presta all’isolazionismo: per creare un mondo di finzione basta a volte un tenue legame con la realtà. Una realtà che per molti designer è peraltro scadente: se la risoluzione dei problemi è ridotta a mera esecuzione, l’inquadramento dei problemi ha il fascino della produzione culturale, compito tradizionale degli intellettuali.

“Non risolvere il problema. Articola il problema.” Chris Ashworth, 2021.

 

È così che va letto lo scetticismo diffuso nei confronti del problem solving. Non si tratta soltanto di mettere in scena la “perfidia” dei problemi complessi, ma anche di evadere l’ostacolo sociale che non permette di partecipare alla loro risoluzione. Questo spiega anche la propensione a investigare problemi colossali, dato che essi si prestano perfettamente allo sguardo sbalordito del critico. Concentrandosi sui massimi sistemi, si possono ignorare quei sistemi concreti da cui si è esclusi o su cui non si ha alcun potere37A proposito di design e potere, vedi S. Lorusso, “Design and Power – Part 1”, Other Worlds, 4 ottobre 2021, link.. Per dirla con Victor Papanek, “È anche nell’interesse dell’establishment fornire vie di fuga fantascientifiche per i giovani, affinché non prendano coscienza della durezza di ciò che è reale”38V. Papanek, Design for the Real World, London: Thames & Hudson, 2019, p. 283. .

L’etica impotente

Scrive la storica britannica Alison J. Clarke:

Gran parte del discorso attuale sul design insiste su un modello polarizzato nato nel paradigma vagamente neo-marxista degli anni ’70 […] esercitando una retorica che contrappone una pratica progettuale moralmente ed eticamente virtuosa (sostenibile, socialmente integrata, basata sulla comunità, coprogettata, ecc.) all’immagine del progettista ancella di una cultura aziendale guidata dal profitto.39A. Clarke, “Design for the Real World: Contesting the Origins of the Social in Design”, in Design Struggles (a cura di C. Mareis, N. Paim), Amsterdam: Valiz, 2021, 89.

Questo binarismo etico si collega all’inaccessibilità dei problemi. Generazioni di studenti hanno letto appassionatamente il manifesto First Things First di Ken Garland, aggiornato e ripubblicato più volte negli ultimi decenni40 K. Garland, First Things First Manifesto, 1964, http://www.designishistory.com/1960/first-things-first/.. Tuttavia già la versione originale, esplicitamente anticonsumista, lamentava in filigrana la riduzione del designer a mero esecutore di un piano i cui “scopi banali” sono decisi da altri. La presa di coscienza di Garland non è dunque solo etica ma anche posizionale.

Riferendosi all’edizione del 2000 del manifesto, J. Dakota Brown sostiene che “al pari dei precedenti tentativi di capire e contestare lo status del design quale ‘istituzione di potere’, la critica del manifesto è stata rapidamente riabilitata come affermazione apolitica del ‘potere del design’”41 J. Brown, The Power of Design as a Dream of Autonomy, Chicago: Green Lantern Press, 2019, p. 2. . A ben vedere, dunque, l’afflato etico del design esprime un’autocelebrazione per eccesso di responsabilità. Esempi eclatanti di questo eccesso li troviamo sia nei testi canonici (come Design for the Real World di Victor Papanek) che in pamphlet recenti, come quello di Mike Monteiro:

Il design è un mestiere che implica responsabilità. La responsabilità di aiutare a creare un mondo migliore per tutti. Il design è anche un mestiere con molto sangue sulle mani. Ogni pubblicità di sigarette è colpa nostra. Ogni pistola è colpa nostra. Ogni scheda elettorale che un elettore non riesce a capire è colpa nostra.42M. Monteiro, Ruined by Design, self-published, 2019.

Questa sovra-responsabilizzazione si presta bene a fare da contenuto educativo per corsi e conferenze, dando l’impressione che il design sia meno una filosofia pratica che un quadro morale individualizzato. Rivolgere l’attenzione all’etica individuale, componente fondamentale del progetto di sé, è un modo per mascherare la propria subordinazione. Indubbiamente il designer influenza la realtà attraverso il suo lavoro e le sue scelte, ma generalmente questo avviene in maniere tutt’altro che spettacolari, che mal si attagliano al mito fumettistico del grande potere da cui derivano grandi responsabilità. Difatti molti designer concordano sul fatto che la buona riuscita di un progetto dipende in gran parte dalla bontà del cliente, intesa come fiducia nella competenza del progettista43Il 62% secondo Graphic Designers Surveyed (a cura di L. Roberts, R. Wright, and J. Price), London: GraphicDesign&, 2015, p. 288..

L’entità malvagia che seduce, manipola e inganna i consumatori, incarnata di volta in volta nell’organizzazione, nel committente o nello stesso designer, è spesso un fantoccio, perfetto obiettivo polemico di una scuola che legittima uno stile di vita distintivo – un’attitudine, per dirla con Moholy-Nagy – caratterizzato dall’appartenenza a una specie di avanguardia morale dove ciò che non può il posizionamento professionale, tutt’altro che garantito, può il posizionamento etico.

Economia politica

Questa occasione mi ha ricordato un famigerato articolo di Paul Rand particolarmente aspro. Immagino che alcuni di voi lo conoscano già, ma rileggiamone comunque uno stralcio:

Sia a scuola che a lavoro il graphic design rappresenta spesso un caso in cui il cieco guida il cieco. Fare della classe un forum perpetuo per questioni politiche e sociali, per esempio, è sbagliato; e vedere l’estetica come sociologia, è grossolanamente fuorviante. Uno studente la cui mente è ingombra di questioni che nulla hanno a che fare direttamente con il design; il cui obiettivo è imparare a fare e a realizzare; che viene gettato nella mischia tra l’imparare a usare un computer, proprio mentre sta imparando le basi del design; e l’essere sommerso da problemi sociali e questioni politiche è uno studente disorientato; questo non è quello che ha pattuito, né ciò per cui ha, in effetti, pagato.44P. Rand, “Confusion and Chaos: The Seduction of Contemporary Graphic Design”, AIGA Journal of Graphic Design, vol. 10#1, 1992, https://www.paulrand.design/writing/articles/1992-confusion-and-chaos-the-seduction-of-contemporary-graphic-design.html.

È di nuovo Aggie Toppins a svelare i retroscena di questo vero e proprio rant. Infuriato dalla nomina di Sheila Levrant de Bretteville, designer femminista associata al postmodernismo, a direttrice del corso di graphic design di Yale, Paul Rand abbandonò il posto nel dipartimento convincendo Armin Hoffman a fare lo stesso. Citando Roger Kimball, Rand lamentava l’apparente predominanza dei “women’s studies, black studies, gay studies” rispetto a dei fantomatici “curriculum e modalità di indagine intellettuale tradizionali”45Ivi. . È come se lo spirito di Jordan Peterson si fosse impossessato retrospettivamente di lui.

Per una critica dettagliata dell’articolo rimando al paper di Aggie Toppins46A. Toppins, “Good Nostalgia/Bad Nostalgia”, Design and Culture, 2022, https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/17547075.2021.2010876.. Io vorrei provare invece a estrarre un grano di verità da un materiale a prima vista irrecuperabile. Lo studente disorientato dalle questioni politiche non è meno smarrito di quello gettato in un mondo indecifrabile, descritto da De Carlo nel ’68. Purtroppo la politica non rende il mondo un luogo meno complesso, e proprio lì sta il suo pregio. La disposizione etica rischia invece, come abbiamo visto, di ridurre il politico a binarismi elementari e roboanti manifestazioni di sdegno che servono a produrre skill distintive riconosciute, forse, soltanto dagli stessi designer. Sarà pure un bello spettacolo, ma il cosiddetto do-goodism non è granché come offerta formativa.

Music and Apocalypse, diretto da Max Linz nel 2019. La protesta studentesca appare qui depotenziata e ridotta a motivo ornamentale. Essa adopera inoltre lo stesso linguaggio genericamente politico dell’accademia.

 

Come trarre vantaggio dalla complessità politica nel contesto educativo? Prendendo atto, tra le altre cose, delle legittime aspirazioni professionali degli studenti, comprese quelle meno ‘rivoluzionarie’. L’inclusione ornamentale di questioni smaccatamente politiche, lo spettacolo dell’indignazione, i crocevia etici non assolvono la scuola dalle sue lacune professionalizzanti, possono contribuire anzi a oscurarle. Una scuola che voglia davvero agire nella cosiddetta complessità deve invece estendere il dominio del politico fino a farne una economia politica.

Compromesso

Isteresi. Bourdieu utilizza una parola difficile per descrivere un fenomeno tutto sommato semplice, che consiste nell’applicare una prospettiva obsoleta a un contesto ormai mutato. Scrive il sociologo:

L’effetto d’isteresi è tanto maggiore, quanto maggiore è la distanza dal sistema scolastico e quanto più scarsa o astratta è l’informazione sull’effettivo andamento del mercato dei titoli di studio.47P. Bourdieu, op. cit., p. 147.

“Io e i ragazzi che chiediamo a quell’unico professore che ha lavorato da Herzog 15 anni fa se è a conoscenza di qualche opportunità”. @b0ysfirm, 2021.

 

Sono numerose le testimonianze informali di questo effetto sia nel contesto dell’arte che in quello del design. Joshua Citarella, artista statunitense, dichiara al suo pubblico fatto di studenti e artisti emergenti che “questo percorso educativo e professionale vi sta formando per entrare a far parte di una classe professionale che, in realtà, non esiste più.”48 J. Citarella, storia su Instagram, 2021. Roberto Arista, designer italiano, rincara la dose sostenendo che “il nostro percorso di studi professionalizzante è stato ideato a partire da un modello che si stava già sgretolando negli anni Novanta, e che negli anni Duemila era giusto un multiplo sbiadito della matrice originale.”49 R. Arista, “Le interfacce sono un oggetto solido: Grafica e codice tra monopolio, didattica e autonomia”, Progetto Grafico 33, p. 57-9.

Il modo in cui la scuola d’arte e design concepisce il progetto di sé è dunque fuori sincrono. Il collante che lega i suoi ideali datati è il concetto di autonomia. Questa si declina in vari modi: distacco romantico dalle cose del mondo, autoconvincimento della necessità sociale delle proprie competenze, riposizionamento critico rispetto a un contesto che limita l’accesso alla risoluzione dei problemi, distacco dal presente e perciò dalla storia.

Nel 2003 Andrew Blauvelt, designer e curatore statunitense, ha sostenuto, in un testo divenuto poi canonico, la proposta di un’autonomia critica del graphic design, intesa come “disciplina capace di generare significato dalle proprie risorse intrinseche senza fare affidamento su commissioni, funzioni, o materiali e mezzi specifici.”50A. Blauvelt, “Towards Critical Autonomy, or Can Graphic Design Save Itself?”, Emigre, vol 64, 2003. Più effetto che causa, l’autonomia critica è un abbaglio, una bella storia da raccontare in classe e al museo. Con cosa sostituire allora questa apparente indipendenza che è in realtà frutto di un’estromissione? Riprendiamo Maldonado e Anceschi:

[…] l’intellettuale tecnico, pur praticando l’arte stoica e realista del compromesso progettuale non è mai gestore neutrale, indifferente alla cosa, al tema, alla sostanza.51G. Anceschi, op. cit., p. 36.

“Docenti di pratica autonoma praticano la loro autonomia durante la pausa di maggio”, @wdka.teachermemes, 2021.

 

Il compromesso progettuale è l’antitesi dell’autonomia critica. È ammissione del fatto che il designer è, in fondo, inevitabilmente un bricoleur, ossia colui che si arrangia con ciò che trova, nelle condizioni in cui si trova52G. Caliri, “Cos’è il design-as(-a)-bricolage, la cultura del progetto attraverso le teorie della complessità”, cheFare, 19, gennaio 2021, https://che-fare.com/cose-il-design-as-a-bricolage-la-cultura-del-progetto-attraverso-le-teorie-della-complessita/.. Il compromesso progettuale non è per questo docile o vittimistico, ma è anch’esso critico: è critica del compromesso, presa di coscienza delle ragioni che orientano le prese di coscienza. È compromesso storico: capacità e coraggio di distinguere il passato dal presente. Affinare l’arte del compromesso progettuale vuol dire prendere atto della compromissione della scuola quale parte integrante del mondo reale. Vuol dire superare la propriocezione professionale per fare i conti con la percezione altrui del proprio ruolo, specialmente quando questa si rivela spiacevole.

Vi ringrazio per l’attenzione.


L’autore è grato a Caterina Di Paolo, Michele Galluzzo e Gui Machiavelli per i preziosi commenti.

Immagine di copertina: Shouldn’t you be working? alla Kunstalle Mulhouse, 2020.




La quotazione in borsa di WeWork racconta la crisi dell’immaginario californiano

Il 2019 è già stato un anno attivo per le IPO delle società tecnologiche statunitensi. Se da un lato aziende come Fiverr, Zoom e CrowdStrike hanno visto salire il valore delle proprie quotazioni, dall’altro lato unicorni come Uber e Lyft hanno deluso le aspettative.

Tra le IPO che suscitano maggiore attesa c’è sicuramente quella di WeWork (nota come The We Company) soprattutto dopo la decisione di rimandarla di alcune settimane. Fondata nel 2010 nel quartiere di SoHo a New York da Adam Neuman, Rebeka Neuman e Miguel McKevley, WeWork è una società americana che fornisce spazi di lavoro condivisi. Nei suoi nove anni di vita è cresciuta rapidamente comprendendo 528 sedi in 111 città e 29 paesi.

Tuttavia, David Trainer su Forbes ha etichettato questa IPO come ‘la più ridicola e la più pericolosa’. L’articolo, che analizza le performance della società, mostra come WeWork non sia un business economicamente sostenibile. Nel 2018 l’azienda ha registrato perdite per circa 1,9 miliardi di dollari a fronte di 1,8 miliardi di fatturato con una perdita di capitale di circa 219.000 dollari l’ora. Una delle cause che gli esperti hanno addotto alla mancanza di profittabilità riguarda il business model che viene inquadrato come leasing d’ufficio. Un modello non propriamente ‘radical disruptive’.

Da un lato, WeWork affitta per lunghi periodi da società terze grandi ambienti di lavoro che sono poi trasformati in coworking. In questo modo si cercano di contenere i costi di locazione. A sua volta, l’azienda di Adam Neuman offre postazioni condivise a prezzi più alti che sono giustificati da una serie di servizi aggiuntivi come gli eventi di networking, il supporto tecnologico e l’accesso alla rete di esperti e professionisti.

Il profitto di WeWork sta, quindi, nel differenziale tra affitti di lungo periodo e affitti di breve periodo.

Questo modello funziona solo durante i periodi di espansione economica, quando le società hanno bisogno di uffici. WeWork è stata in grado di capitalizzare la richiesta di una vasta gamma di attori economici come i freelance, gli startupper, i designer e i digital marketer che hanno bisogno di una scrivania per le loro attività. Ma, nonostante la crescita del mercato, la società è in perdita. La mancanza di profittabilità di WeWork ricorda la più recente IPO di Uber.

I manager della piattaforma con base a San Francisco hanno dichiarato che ‘le spese operative sarebbero aumentate in modo significativo nel prossimo futuro’ e che Uber ‘potrebbe non raggiungere mai la redditività’. L’insufficienza delle performance economiche è motivata dai manager con la necessità di ‘bruciare cassa’ per espandersi verso nuovi mercati.

La visione strategica non è quella di competere con altri attori ma bensì di creare un monopolio, cosi come recita uno dei mantra della Silicon Valley, pronunciato nientepopodimeno che Peter Thiel: competition is for losers.

L’assenza di profittabilità è giustificata dalla promessa di una posizione di controllo nel mercato futuro. Solo in questo tipo di regime economico aziende come WeWork possono generare profitti. Una promessa che, come i manager di Uber hanno fatto ben notare, potrebbe non realizzarsi mai.

Allora, com’è possibile che un’azienda non profittevole come WeWork, il cui business model non è certo innovativo e che si basa su una promessa futura di sostenibilità, abbia raddoppiato il proprio valore da 20 a 47 miliardi di dollari dopo l’ultimo round di investimento di SoftBank (per poi ritornare ad una valutazione inferiore dopo aver deciso di rimandare l’IPO)? Quali sono le metriche, gli asset e i benchmark che gli investitori utilizzano per misurare il valore di una compagnia?

Il dibattito generato su questo caso ha prodotto diverse analisi. Alcuni esperti si soffermano sul valore immateriale del brand o sul piano di acquisto e non di affitto degli immobili da trasformare in coworking. Altri sul valore aggiunto in termini di intelligenza collettiva prodotta nei coworking o più semplicemente sulle capacità di self-branding dell’eccentrico fondatore. Tuttavia, le dichiarazioni degli investitori e del founder conducono ad un altro tipo di riflessione.

Lo scorso 14 agosto, WeWork ha presentato i documenti necessari per l’IPO. L’introduzione recita: ‘Dedichiamo tutto questo all’energia del noi — più grande di ognuno di noi, ma dentro tutti noi’. Il fondatore ha rimarcato la relazione tra valutazione e dimensione spirituale della sua società anche in un’altra occasione a Forbes, affermando: ‘La nostra valutazione e le nostre dimensioni oggi sono basate molto di più sull’energia e sulla spiritualità che su un qualsiasi moltiplicatore di fatturato’.

Ma questo non dovrebbe stupire considerando il fatto che la loro mission è ‘elevare la coscienza del mondo’. WeWork non è solo una società che vuole generare profitti ma il suo intento dichiarato è quello di migliorare il mondo attraverso il mercato, cosi come prescritto dall’Ideologia Californiana. ‘Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo’ o ‘Il futuro non è ancora stato scritto’ sono solo alcune delle frasi motivazionali che campeggiano nei co-working.

L’economia startup ha offerto ai giovani che non riescono a trovare un lavoro nelle corporation non soltanto la possibilità (spesso delusa) di garantirsi un reddito, ma anche una forma di salvezza dall’incertezza esistenziale del presente. L’hype generato dall’esplosione delle startup del Web 2.0 ha promosso la visione di un nuovo sistema socio-economico in cui le tecnologie digitali avrebbero migliorato la vita delle persone. Questo immaginario ha permesso agli attori economici di agire nel presente come se questo potenziale futuro fosse reale attraverso ‘fictional expectations’ (aspettative fittizie) (Beckert, 2016) nonostante il grande grado di incertezza.

Questo meccanismo è utilizzato anche dagli investitori che ipotizzano alcuni scenari possibili e cercano di capire se le idee proposte dalle startup possono avere senso in quegli stessi futuri. In altre parole, il valore d’uso dei prodotti e servizi viene creato attraverso l’immaginario che opera come un ‘collective calculative device’ (dispositivo di calcolo collettivo) (Callon, 1998). In questo modo specifiche forme di razionalità possono operare, ma gli immaginari sono molteplici, diversi e possono competere l’uno con l’altro: vi è quindi bisogno di continue pratiche di rinforzo.

Questo è il ruolo dei ‘frame makers’ (Beunza & Garud, 2007). Gli startupper di successo, gli incubatori, le società di consulenza o le stesse business competition sono alcuni degli attori e dei momenti che intervengono in questo processo. La creazione del monopolio, quindi, avviene innanzitutto attraverso la colonizzazione dell’immaginario futuro. Le narrative operano come regimi di giustificazione del valore (Boltanski & Thévenot, 2006). Produrle e gestirle significa controllare in che direzione i capitali finanziari devono dirigersi.

Se si opera all’interno del frame dell’economia startup, quindi, non appare irrazionale ricevere round di finanziamento e valutazioni elevate anche se si è in perdita. Gli investitori sostengono il processo di materializzazione di un potenziale futuro in cui avranno una posizione di dominio. Per questo motivo sono disposti a supportare con somme ingenti le startup non economicamente sostenibili.

Questa è la strategia di SoftBank: sostituirsi all’IPO. Il fondo giapponese finanzia le proprie società anche se non profittevoli finché non riusciranno a creare un monopolio in uno dei potenziali futuri. Ovvero, SoftBank cerca di rimandare quanto più è possibile questo momento.

Questo perché l’IPO rappresenta un banco di prova sia delle performance economiche ma soprattutto dell’immaginario e delle pratiche di valutazione dell’economia startup. Come considerare razionali le parole del founder di SoftBank Masayoshi Son che ha dichiarato che per valutare una società deve ‘sentire la forza’.

Questa motivazione indirizza le scelte di finanziamento di uno dei più grandi fondi di investimento al mondo. Finché si opera all’interno del frame dell’economia startup, le valutazioni sono percepite come giustificabili e razionali. Quando una società che appartiene al mondo startup/digital come WeWork (che si definisce un’azienda tech) deve operare in un altro sistema di valore, allora emerge l’irrazionalità delle pratiche e delle valutazioni. Il confronto tra i due frame che si manifesta nell’IPO produce una crisi del regime di verità (Foucault, 1977) in cui opera l’economia startup.

Il fallimentare IPO di Uber e quello probabile di WeWork, quindi, non possono essere spiegati considerando solo metriche oggettive come asset, piano di sviluppo o performance economiche. Ma questi casi vanno riletti alla luce della più ampia crisi dell’immaginario della Silicon Valley e delle sue pratiche di misurazione del valore.

*Queste riflessioni sono contenute nella pubblicazione del mio lavoro di ricerca sull’economia startup: Luise, V. (2019) Le forme dell’innovazione nell’Ideologia Californiana. Le retoriche, i modelli e le trasformazioni dell’economia startup, Milano: Egea.

Bibliografia

Beckert, J. (2016). Imagined futures. Fictional expectations and capitalist dynamics. Cambridge and London: Harvard University Press.

Beunza, D., & Garud, R. (2007). Calculators, lemmings or frame-makers? The intermediary role of securities analysts. The sociological review, 55, pp. 13-39.

Boltanski, L. & Thévenot, l. (2006) On Justification: Economies of Worth. Princeton: Princeton University Press.

Callon, M. (1998). The Laws of the Markets. Blackwell Publishers: Oxford.

Foucault, M. (1977). The Political Function of the Intellectual. Radical Philosophy, (17), pp. 12- 14.




Il graphic design tra automazione e relativismo

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“La cosa che mi fa più incazzare è lo sminuimento del ruolo intellettuale del designer.” Così mi fa l’amico, mentre ascoltiamo reciprocamente i nostri angosciosi sfoghi gonfi di partite IVA, freelancing e contratti a breve termine. E a quel punto mi chiedo in cosa consista questo ruolo, se sia effettivamente esisito, in che modo si sia estinto e cosa l’abbia sostituito. Provando a rispondere a queste domande, vorrei concentrarmi sul graphic design poiché è l’ambito da cui provengo e rappresenta a mio parere un caso paradigmatico all’interno delle cosiddette industrie creative.

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In questi giorni si sente parlare molto di gig economy, l’economia dei “lavoretti”. Piattaforme come Uber, AirBnB o Foodora stanno in fretta diventando i diretti intermediari, inevitabili in quanto tendenti al monopolio, di qualsiasi tipo di servizio. Il graphic design non fa eccezione: marketplace online come Fiverr e TaskRabbit offrono accesso a progettisti grafici in grado di realizzare un logo, un sito web, una locandina.

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Su Fiverr, il cui motto è “non limitarti a sognare, fai”, un logo costa tra i cinque e i nove dollari, lo stesso vale per un’infografica o un’illustrazione. Su TaskRabbit (“sbrighiamo noi le faccende, tu vivi la tua vita”) le tariffe orarie sembrano oscillare tra i 20 e i 60 dollari l’ora. La descrizione di una tasker mi colpisce particolarmente: Barbara J., 25 dollari l’ora, dichiara di aver imparato a fare grafica autonomamente, dato che tutti i suoi precedenti lavori includevano compiti grafici. Questa generalizzazione del graphic design rappresenta la chiave di volta del mio discorso sul suo potenziale ruolo intellettuale.

Automazione, defaultismo e cultura del template

Leggendo i recenti titoli dei giornali, parrebbe di essere stati teletrasportati negli anni ’30, periodo in cui John Maynard Keynes, economista di tutto rispetto, poteva affermare senza il minimo tentennamento che in breve tempo le ore settimanali impiegate nel lavoro sarebbero calate a quindici. Tale pronostico rappresenta una vivida espressione dello spirito del tempo, intriso di fiducia nell’avvento della “società del tempo libero”. A permettere la riduzione degli orari di lavoro sarebbero state le macchine, che fedelmente avrebbero automatizzato un crescente numero di processi.

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Il futuro è adesso

Oggigiorno, l’hype intorno all’automazione è tornato ai massimi storici grazie soprattutto ai progressi nell’ambito dell’intelligenza artificiale e ad un ultracitato studio del 2013 secondo cui il 47% dei mestieri attualmente svolti negli Stati Uniti è a rischio computerizzazione. Lo studio include una classifica di circa 700 professioni ordinate per probabilità di automazione in ordine crescente. Il graphic design è al 161esimo posto. Non male, dai.

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Bot or not?

Tuttavia, ritengo che il graphic design (in cui includo il web design), abbia già subito i drastici effetti dell’automazione, almeno in senso lato. La Rete è piena di generatori in grado di produrre infinite permutazioni di loghi. Alcuni di questi generatori fanno uso di neural network e hanno dunque la capacità di “imparare” dai propri errori. Ma non c’è bisogno di scomodare Singolarità e compagnia bella per rendersi conto del rivoluzionario impatto della tecnologia digitale sul graphic design. Nei primi anni ’90 una serie di software grafici utilizzabili sia da professionisti che da gente comune ha trovato enorme diffusione. Qualche anno dopo “photoshoppare” è diventato un vero e proprio verbo e, assieme ad altri elementi del pacchetto Adobe, ha contribuito a popolare l’immaginario collettivo. Le dichiarazioni dei progettisti che per primi si sono ispirati al digitale sono piene di entusiasmo: “Siamo i primitivi di una nuova era tecnologica”, proclama il duo Emigre, non tenendo conto che lo sono anche tutti gli altri. A guardare i loro lavori, così pieni di errori rivendicati con orgoglio, sembra però di percepire una forma passivo-aggressiva di luddismo.

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April Greiman (1986)

Nel suo romanzo dalle tinte distopiche intitolato Piano meccanico (1952), Kurt Vonnegut descrive una società quasi completamente automatizzata in cui basta registrare i movimenti di un operaio su un disco per poi far sì che la macchina li ripeta con precisione all’infinito. Quando apro Word o InDesign mi imbatto in una situazione simile, dato che sul foglio, solo apparentemente bianco, sono già presenti delle scelte progettuali registrate a priori, come ad esempio l’ampiezza dei margini.

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Daniel Eatock (1998)

È così che prende vita la cultura del template, in cui ogni nuovo progetto in realtà muove da una lunga serie di progetti precedenti. A metà degli anni 2000, i settaggi di default sono diventati di moda. Perché compiere delle scelte progettuali quando si può celebrare l’aprioristica purezza del template? Non siamo come nani sulle spalle di giganti? Ecco, credo che non ci possa essere espressione più autentica della spinta idealista che permea l’ideologia modernista; come tutti sanno, less is more. Il designer britannico Daniel Eatock ironizzava su questa tendenza producendo un poster generico utilizzabile per qualsiasi tipo di evento. In tal modo, proprio come accade in Piano meccanico, Eatock non aveva fatto altro che rendersi obsoleto.

Appropriazione, vernacolo e relativismo visuale

Niente più regole. Così si intitola lo studio di Rick Poynor sull’influsso del pensiero postmodernista sul graphic design. Durante il periodo in analisi, che va dai primi anni ’80 ai primi anni 2000, i designer sovvertono, una per una, tutte le regole che fino a poco tempo prima apparivano scolpite nella pietra. Con un carattere senza grazie, ovviamente.

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Peter Saville (1981)

Tra le diverse tendenze che caratterizzano quest’epoca ce n’è una che mi interessa particolarmente e ha a che fare con l’appropriazione. Per capire di cosa sto parlando basta dare un’occhiata alla cover di The Man-Machine dei Kraftwerk, a dir poco ispirata al costruttivismo russo, o al lavoro di Peter Saville, il quale “clona” un poster futurista di Fortunato Depero per una cover dei New Order. Siamo nel 1981 o nel 1932? Nessuna speranza di progresso, solo un eterno ritorno all’origine.

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Tibor Kalman (1987)

Qualche anno dopo, Tibor Kalman rivolge lo sguardo alle culture visuali “basse”, vernacolari, con una mossa analoga a quella compiuta in architettura da Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour. È giunta l’ora di imparare da Las Vegas, ma anche dall’insegna del supermercato o dal menu della tavola calda. Ci si concentra allora sul “design senza designer”, come recita l’invito di un evento condotto appunto dallo stesso Kalman.

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Manuel Buerger (2009)

La fascinazione nei confronti della grafica di tutti i giorni, insieme ai rimpalli storici di un numero sempre maggiore di progettisti, hanno privato la grafica di qualsiasi punto fermo. A distanza di qualche anno però le regole sono tornate con vigore. Non a caso, molti grafici che hanno vissuto il periodo postmoderno lo considerano una sorta di medioevo del graphic design. Tuttavia il germe del dubbio non è stato mai del tutto estirpato e il relativismo visuale che ne consegue è una presenza costante nella pratica odierna. Come nel caso del grafico tedesco Manuel Buerger, il quale si reca in un copy shop di Mumbai per farsi progettare il suo biglietto da visita personale.

Intellettualizzazione: il designer scrittore

Forse in parte a causa di questo relativismo visuale e della democratizzazione degli strumenti, il graphic design, almeno quello prodotto nelle scuole d’avanguardia, ha avviato un processo di intellettualizzazione. Con questo termine intendo la tendenza a fare della scrittura e della ricerca il centro della propria pratica. Ovviamente, il fatto che un graphic designer produca dei testi non rappresenta certo una novità: nel 1963 Garland scriveva il manifesto First Things First mentre nel 1978 Albe Steiner pubblicava Il mestiere di grafico.

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Un saggio dello studio olandese Metahaven (2012)

Il cambiamento che rilevo riguarda una certa insufficienza del visuale. Mentre i testi prodotti da Steiner o Garland agivano in un modo o nell’altro come supporto alla loro pratica progettuale, i nuovi designer svolgono ricerche practice-based, che spesso consistono nella stesura di un testo e solo successivamente nella progettazione dell’artefatto che lo ospiterà (magari affidata a un altro designer), concentrandosi a volte principalmente sulla distribuzione. E così molti designer si allontanano pian piano dal fare graphic design per come lo si intende comunemente; designer che diventano principalmente scrittori.

Il design diluito

In seguito agli sviluppi che ho descritto, la cultura del graphic design, almeno superficialmente, è diventata parte della cultura popolare. Tutti sanno che il Comic Sans, carattere vernacolare per eccellenza, è motivo di dileggio. Il graphic design intellettualizzato, in cui si scrive di più e si impagina meno, resta invece il più delle volte dominio di un grappolo di scuole illuminate e di qualche galleria d’arte. In questo caso, il ruolo intellettuale del designer viene riconosciuto soltanto da altri designer. Le eccezioni non mancano, ma sono appunto eccezioni che confermano la generale insostenibilità di questo tipo di pratica.

Oltre a essere parte della cultura popolare, il graphic design è diventato una pratica comune, come nel caso della nostra tasker che, magari tra un foglio Excel e l’altro, si sarà trovata a dover impaginare una presentazione o buttar giù un logo. Secondo Ian Bogost, saremmo tutti “iperimpiegati”. Invece di praticare soltanto la professione che ci compete, ne svolgeremmo una miriade, prima, durante e dopo l’orario di lavoro. Mansioni quali gestire il proprio personal brand online, organizzare il proprio calendario, resettare la propria password. Molte di queste includono operazioni di graphic design. Dunque, se per design consideriamo –e io credo che sia doveroso farlo– la sostituzione di un’immagine di copertina su Facebook o l’adozione di un template per il proprio blog, la progettazione grafica acquista improvvisamente lo stesso valore professionale e culturale dell’invio di una mail. In un episodio dell’Età dell’oro, webserie sulle fatiche di un gruppo di creativi milanesi, vediamo l’art director rivolgersi al grafico con un perpetuo “due punti a destra, no no, due punti a sinistra”. Il graphic design diventa anche micromanagement, mentre il designer si tramuta kafkianamente in un mouse a controllo vocale.

In pochi, dopo un master in graphic design dietro l’altro, se la sentirebbero di avallare tale prospettiva, specialmente in Italia, paese in cui la nostalgia per i tempi d’oro della “grafica di pubblica utilità” è ancora forte. Un’epoca in cui i progettisti grafici potevano dedicarsi a grandi opere e dunque costruire, affermare e infine difendere il proprio ruolo direttamente e indirettamente culturale. Un’altra ragione per cui credo che quel periodo storico sia particolarmente rilevante per i designer contemporanei è che ha prodotto una serie di ideali, di nuovo legati in un modo o nell’altro al modernismo, facili da sposare poiché universali, puri, non inquinati da fastidiose ambiguità o contraddizioni.

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Genera la moda

Prima dell’avvento di TaskRabbit, i graphic designer italiani erano già attivi nella difesa della propria posizione professionale e culturale. Il campo di battaglia era quello dei concorsi non pagati, come quelli gestiti dal sito Zooppa. Una delle tattiche principali, oggi come allora, consisteva nel ridicolizzare l’assenza di buon senso del “cugino” di turno, il quale, povero sciocco, era colpevole di aver allineato il testo a destra o simili. Ed è proprio il buon senso la bomba a orologeria in seno al graphic design: come è diventato luogo comune il comandamento che proibisce di usare il Comic Sans per qualcosa che non sia appunto comico, così si stanno diffondendo i pochi precetti che bastano a creare un poster dignitoso. E se questi, insieme addirittura alle soluzioni di moda, vengono infine incorporati nei software e template di uso comune, come accade ad esempio con il generatore di Trendlist, la bomba potrebbe esplodere presto.

Quando attaccano i non professionisti, i grafici generalmente agitano lo spauracchio della qualità, sostenendo che il committente debba essere educato affinché la possa riconoscere. Forse è ancora lecito legare il concetto di qualità nel graphic design alle sue forme specializzate, penso al design dei caratteri, delle mappe o della segnaletica. O magari si può discutere di qualità con un certo grado di oggettività nel caso di progetti su larga scala, come l’identità di grandi musei o compagnie. Tornando però alla grafica diluita, vorrei concentrarmi brevemente su due casi che provano la debolezza di un approccio qualitativo. Entrambi includono a loro modo gli sviluppi da me descritti.

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Paul Elliman, Avigail Moss (2007)

Nel 2007 Paul Elliman crea assieme ad Avigail Moss un impaginato pieno di Word Art, trattamenti tipografici disponibili su Word e generalmente abusati dai novizi. Oltre a fare un uso per così dire “affermativo” di uno strumento alla portata di tutti, Elliman e Moss riprendono la grafica vernacolare delle locandine affisse ai muri delle chiese. La scelta ha senso poiché la locandina promuove una performance che si tiene in una cattedrale. La voce, tema dell’evento magistralmente evocato dalla tipografia, rappresenta una delle ossessioni di Elliman, il quale è sia designer che scrittore. Come distinguere questo progetto dalle comuni locandine amatoriali? Non ci rimane che arrenderci al fatto che il context è king.

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Ma la commistione di democratizzazione tecnologica, amatorialità e intellettualizzazione non coinvolge soltanto sparuti designer all’avanguardia. Lindsay Ballant propone un’analisi comparativa delle campagne di Hillary Clinton e Bernie Sanders. L’autrice sostiene che il sistema di comunicazione di Sanders, meno rigido e decisamente più incasinato (dal suo punto di vista più “autentico”) dell’impeccabile immagine coordinata sviluppata da Michael Bierut/Pentagram per la Clinton risulti paradossalmente più forte, poiché in grado di accogliere spinte differenti e addirittura contraddittorie, dunque in ultima analisi più “vere”.

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Alla luce dei risultati, pare che Ballant abbia omesso il vero uragano comunicativo delle ultime elezioni, esponenzialmente più incasinato e autentico (se per questo intendiamo non calato dall’alto) di quello di Sanders. La “meme machine” di Trump sembra aver svolto un ruolo cruciale nella sua ascesa: i meme forgiati su 4chan e 8chan, poi “andati a morire” su reddit, ripresi dunque dagli account ufficiali del candidato, sono stati ricondivisi su scala globale e discussi sulle maggiori testate giornalistiche sotto l’etichetta dell’Alt-Right, e addirittura sui canali della stessa Clinton. L’amatorialità radicale dei sostenitori di Trump mescola riferimenti cinematografici, appropriazioni di comics, simboli del Terzo Reich. Il tutto utilizzando a volte software liberi come Gimp o semplici generatori online. Inoltre il culto esoterico che anima la produzione di questi meme ha un indubbio valore letterario e non è poi così distante da complesse religioni satiriche con tanto di testi sacri come il Discordianesimo.

Mi è capitato di mostrare la locandina in Word Art e qualche meme di Pepe a studenti da poco introdotti al mondo della grafica.

Tutti loro, col sorriso sulle labbra, hanno pensato che il mio fosse uno scherzo. Come biasimarli? Dopotutto sono stati esposti per mesi a un sottaciuto manicheismo secondo cui le semplici astrazioni del design sono il Bene, mentre il mondo, pubblico e committenza inclusi, è il Male. E come biasimare questa società malvagia che non riconosce il valore del graphic design? Chiaramente non parlo del design prodotto ad esempio presso Google, offerto gratuitamente a milioni di utenti. Parlo della coda lunga, popolata da progettisti costretti, per poter sopravvivere, a convincere il proprio cliente che il layout sviluppato apposta per il suo blog, artigianalmente, con poche risorse, sia migliore dell’interfaccia di, per dire, Medium, impeccabile piattaforma gratuita.

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Per soppesare la percezione del valore economico attribuito dal pubblico alle opere di graphic design, basta riesumare la vicenda del logo del Madre, museo d’arte contemporanea di Napoli. Costo apparente del restyling: 20mila euro (briciole). Risultato: sommossa popolare sui social accompagnata da una pletora di parodie del logo portatrici di un evangelico messaggio: “lo potevo fare pure io”. Quest’anno, in seguito all’epic fail del Fertility Day, il ministro Lorenzin si è rivolta pubblicamente ai creativi, chiedendo loro di dare una mano a progettare la prossima campagna. A titolo gratuito, s’intende.

“Make the world a better place”

Se andassi a studiare graphic design a Yale, mi ritroverei tra i docenti Paul Elliman. Cosa mi insegnerebbe? Apriremmo insieme Word per cazzeggiare con i settaggi? Mi chiederebbe di scrivere un saggio di visual studies? Su quali basi è possibile fondare una didattica del graphic design, quando tutto ciò che lo riguarda appare relativo?

Invece di andare a Yale, ho fatto Disegno industriale al Politecnico di Bari, che non è certo noto per la sua eccellenza nel design. Ricordo uno dei primi giorni di università, quando un professore ordinario tutto sussiegoso proclamò senza la minima compassione che solo un paio di noi sarebbero effettivamente diventati dei designer. Ed è subito Highlander, la serie però, con il suo indimenticabile “ne rimarrà soltanto uno”.

Benché a differenza di altri dipartimenti, nell’ambito del design si lavori spesso in gruppo, la competizione fa parte del suo imprinting educativo. Un’attitudine che non solo coinvolge il rapporto con gli altri, ma anche quello con se stessi, dato che si è immersi in un mare di nottate, insonnia e abnegazione. Un atteggiamento che capitalizza sulla passione e sull’idea che il design non sia un lavoro bensì uno stile di vita. A un certo punto, tra i miei colleghi si era diffusa la pratica di includere nei ringraziamenti della propria tesi, oltre ad amici e parenti, anche il caffè, perché, come recita Coffee Company, “sleep is overrated”.

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Sandberg Instituut (2016)

Una volta superati se stessi e gli altri, a cosa dedicare il proprio talento? Qualche giorno fa leggevo un’intervista a Ruben Pater, designer di spicco, il quale insegna presso alcune delle migliori scuole di design presenti in Olanda, una delle patrie del graphic design contemporaneo. Rispondendo a una domanda sul suo metodo didattico, Pater dichiara di “provare a incitare i designer a produrre dell’ottimo lavoro, e nel frattempo, a immaginare i bisogni e gli interessi del restante 99%”.

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Questa spinta genera quello che è stato ribattezzato critical design, caratterizzato spesso da una curiosa situazione: aspiranti designer maturano l’urgenza di risolvere un problema che affligge qualche paese in via di sviluppo, mentre la sera o nel weekend fanno un “lavoro di merda” (bullshit job, termine tecnico coniato dall’antropologo David Graeber), magari in un call center. In pratica, mentre si concentrano sul restante 99%, dimenticano di farne parte essi stessi. Difficile non notare un’analogia con il mondo delle startup californiane, desiderose di “rendere il mondo un posto migliore”. E l’aspirante designer, che sia critical o meno, non è poi così diverso dallo startupper che lavora ininterrotamente nel suo scantinato per poi creare un prodotto rivoluzionario (magari riuscendoci, eh).

Inoltre startup tecnologiche e design sono entrambi affetti da ciò che Evgeny Morozov chiama soluzionismo, l’idea secondo cui per risolvere un problema sociale sia sufficiente una soluzione tecnica. E tale fiducia nella tecnologia e nella scienza mi pare alquanto dubbia quando espressa dal graphic design, pratica fondamentalmente umanistica le cui basi scientifiche appaiono assai confuse. Sarebbe forse meglio parlare di graphic design come linguaggio, evidenziandone in questo modo la componente ideologica.

Sia il designer nel call center che lo startupper nel garage sono vittime della dissonanza cognitiva di ciò che chiamo entreprecariato, ovvero la reciproca influenza tra la pressione imprenditoriale, che avviene innanzitutto a livello sociale, e una precarietà (materiale, professionale, esistenziale) sempre più diffusa. Il designer e lo startupper sembrano entrambi vivere al tempo stesso due vite parallele, entrambi sono soggetti divisi.

Una possibile via d’uscita per l’aspirante designer è proprio l’ambito educativo. Dato che le logiche di mercato raramente consentono di fare un design che sia critico, colto, intellettualmente appagante, si punta a diventare docenti, tutor, guest lecturer. Lo spazio protetto della scuola produce il contesto ideale per infinite discussioni su questioni sociali, accompagnate dall’immancabile workshop. Facendo riferimento ai master di scrittura creativa, Timothy Small parla di un grande schema Ponzi, “un processo per il quale uno scrittore senza soldi inizia ad insegnare ‘per arrotondare’, creando 15 scrittori senza soldi che inizieranno a loro volta ad insegnare ‘per arrotondare’ grazie alla raccomandazione del primo scrittore-insegnante, e che a loro volta produrranno altri 15 scrittori senza soldi, etc., etc.” Mi chiedo se il graphic design colto non segua la stessa logica. Nell’articolo, Small intervista un giovane scrittore di Brooklyn, divenuto a sua volta insegnante, il quale dichiara di aver scelto di fare un master per poter “comprare due anni di tempo per scrivere, […] due anni del tipo di vita che i ricchi hanno tutti gli anni, in cui i soldi non sarebbero stati un problema.”

Elite temporaneamente autonome

Al Politecnico di Bari, dove a malapena si poteva stampare un A4 in bianco e nero, la dichiarazione dell’altero professore non ci pareva convincente, quasi certi come eravamo che nessuno ce l’avrebbe fatta. Dato che la logica della competizione si era parzialmente inceppata, dovemmo accontentarci di un gioviale spirito di gruppo che coinvolgeva alcuni docenti e ci spingeva ad affrontare questioni locali (la mia tesi, prodotta in collaborazione con altri due colleghi, riguardava una caserma abbandonata nel cuore di Bari paragonabile, per estensione, al suo centro storico). Inutile dire che, potessi tornare indietro, non cambierei quel “modello educativo” per nulla al mondo. A distanza di anni designer lo siamo diventati in molti, ma non me la sento di dire che ce l’abbiamo fatta.

Fare design a Bari era come ascoltare in radio una fitta comunicazione che solo di tanto in tanto si riesce a captare. Credo che la marginalità geografica della mia università simboleggi adeguatamente l’attuale marginalità culturale e professionale del graphic designer. Propongo dunque che sia proprio la marginalità il punto di partenza per qualsiasi progetto didattico riguardante il graphic design. Tenendo tale premessa a mente, sarebbe più facile prendere atto della trasformazione del graphic design da lavoro creativo a lavoro cognitivo. Questa mutazione, che coinvolge molti altri settori dell’economia dei servizi, contiene in sè una tragica implicazione: la guerra contro il lavoro gratuito e la svalutazione del graphic design è stata persa. Magari si vincerà qualche specifica battaglia, ma in un contesto caratterizzato da un’incessante cascata di contenuti e strumenti gratuiti è sempre più difficile accettare di pagare anche una modica cifra per un bene immateriale.

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MyCreativity, 2006

Che fare? Prima di tutto è necessario prendere coscienza del fatto che avere problemi economici come lavoratore cognitivo è un fatto strutturale, non individuale. Negli anni 2000 Richard Florida teorizzava l’avvento della “classe creativa” e ne elogiava il protenziale trasformativo. Pochi anni dopo il gruppo MyCreativity riformulava pragmaticamente il concetto parlando di autosfruttamento, precariato e sottoclasse creativa. Bisogna ammettere che le scuole di design contribuiscono a popolare questa sottoclasse creativa. Quindi mi pare sensato parlare di scuole di design come anticamere del precariato. Al tempo stesso però queste scuole si potrebbero definire, parafrasando Hakim Bey, delle elite temporaneamente autonome, dato che costituiscono uno spazio in cui è possibile acquistare, letteralmente, un certo controllo del proprio tempo.

Ma a quale scopo? Quello di organizzarsi. Se la gratuità è inarrestabile, forse è ora di estendere il bersaglio delle proprie critiche. Ovvio, il cliente che non paga resta uno sfruttatore, ma la questione va affrontata a un livello più ampio. Per questo credo che proposte radicali come il reddito di base universale, pur essendo magari non realizzabili nella pratica o addirittura controproducenti, sono tuttavia in grado di riformulare il discorso sul significato del lavoro. Per quale motivo il lavoro di una madre o una casalinga non viene considerato tale? La ragione è semplice: poiché non produce reddito, è gratuito. Che la lotta per il reddito debba affiancare quella contro la gratuità? Immagino una scuola di design che agisca come un think tank attivo nella ridefinizione del senso del lavoro e che contribuisca a sviluppare strategie per una nuova egemonia culturale.

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Designers’ Inquiry (2012-13)

A pensarci bene, degli sforzi in questo senso sono stati già compiuti, proprio qui in Italia. I Brave New Alps, duo di graphic designer che militano nel cuore delle alpi trentine, da anni catalizzano il dibattito sulle condizioni lavorative dei designer. Nel 2013 hanno prodotto assieme al Cantiere per pratiche non affermative un’inchiesta, unica nel suo genere, che prova a mappare il profilo economico e sociale di chi si identifica come “designer”. La Designers’ Inquiry è stata lanciata non a caso durante il Salone del mobile, epitome del design imprenditoriale ricco, opulento e sfavillante. I Brave non si sono fermati qui e, assieme a Caterina Giuliani, hanno messo in piedi il Precarity Pilot, piattaforma fisica e virtuale che include una serie di “buone pratiche” per organizzare la propria carriera, ridefinire la nozione di successo, attivare dinamiche di cooperazione, e via dicendo. Chissà che non sia proprio questa la strada, quella politica, attraverso cui riaffermare il ruolo intellettuale del designer e, visto che ci siamo, del cognitariato in generale.


Elaborazione di una lezione tenuta alla Scuola Open Source di Bari