Pubblichiamo una trascrizione di un talk tenuto presso la Yale School of Arts il 5 aprile 2022 nella serie “Paul Rand”, un ciclo di lezioni tenute da ospiti internazionali su design, grafica e architettura.
In una fase di inflazione dei titoli, lo scarto tra le aspirazioni prodotte dal sistema scolastico e le possibilità reali che esso offre, diventa un fatto strutturale, che colpisce in misura diversa, a seconda della rarità del rispettivo titolo, ed a seconda del rispettivo capitale sociale, tutti i membri di una generazione scolastica. – Pierre Bourdieu
Buongiorno. Oggi vorrei parlarvi di qualcosa che conoscete fin troppo bene: la scuola d’arte e design. Uso di proposito un’espressione generica perché credo che ciò su cui mi soffermerò accomuni diverse istituzioni dedicate all’insegnamento delle discipline progettuali (accademia, università, scuola privata, master, summer school ecc.). Le ragioni per cui insisterò un po’ puntigliosamente nel tenere insieme arte e design diventeranno ovvie, spero, nel corso della presentazione.
Negli ultimi anni mi sono dedicato al tema del lavoro, inteso come attività, sistema di relazioni e soprattutto come mito, ovvero come storia che ci raccontiamo a vicenda. In altre parole, ho tentato di offrire una prospettiva quanto più possibile realistica (e proprio per questo nient’affatto immune da idealizzazioni e patine retoriche) sul cosiddetto ‘mondo reale’, quella dimensione che segue, in teoria, al periodo di studi. È proprio questa sequenza che, secondo me, va riconsiderata. Iniziamo da qui.
La scuola è il mondo reale
La scuola è spesso concepita come uno spazio protetto dalla disorientante brutalità del mondo del lavoro. Tradizionalmente si identifica nella scuola il luogo privilegiato della vita contemplativa, contrapposto al contesto lavorativo, dominio della vita attiva. Sono parecchi i motivi per cui le cose non stanno così, e alcuni di essi si legano specificatamente al campo del design. Anni fa Enzo Mari, designer assurto a “coscienza critica del design”, notava che, a patto di reputare un diploma in design alla stregua di un prodotto, è legittimo affermare che il settore più imponente di questo campo, anche in termini di fatturato, è l’“industria” delle scuole di design. Quindi le ragioni strutturali del mercato interagiscono già a scuola con le “speranze, strategie e ingenuità” dei futuri designer. Qui non solo si riproduce la cultura del design, ma si generano i soggetti che ne fruiranno.
Atlante secondo Lenin, Enzo Mari, 1974.
Tuttavia c’è un’altra ragione, più generale e più allarmante, per considerare la scuola come un organo del mondo reale. In tempi di crisi, essa mette sempre meno al riparo dalle preoccupazioni tipiche dei lavoratori: non sono estranei agli studenti affitti salati, alloggi che scarseggiano, debiti di vario genere, lavoretti malpagati o stage curricolari non pagati affatto. Inoltre l’instabilità del mondo del lavoro cambia il senso dell’esperienza scolastica: in un clima di incertezza, non serve sapere chi sia Gary Becker per adottare istintivamente il prisma dell’investimento quando si parla di formazione. Insomma, i problemi della scuola sono difficilmente distinguibili dai problemi della vita.
Giuseppe de Mattia, 2021.
Benché meno protetta di quanto non la si immagini, la scuola d’arte e design resta, nel migliore dei casi, uno spazio che consente di pensare criticamente. Se in passato la critica del design e tramite il design si è rivolta principalmente verso l’esterno (esaminando, per esempio, le piattaforme tecnologiche dominanti, l’inquinamento, le ideologie che orientano gli stili), oggi assistiamo sempre più a una critica autoriferita, che nasce nelle istituzioni e punta il dito contro di esse, biasimandone valori e modelli organizzativi. Lo spettro della critica istituzionale, che fino a qualche tempo fa perseguitava principalmente i musei e le biennali dell’arte, si manifesta ora anche nelle scuole di design.
Qui in Olanda (e non solo) si è sviluppata una rete di pagine Instagram non ufficiali legate alle varie accademie. Si tratta di account anonimi che si cimentano quotidianamente in una critica istituzionale a tutto tondo: assurdità burocratiche, sessismo, meritocrazia fasulla, precarietà dei contratti… il tutto veicolato attraverso il linguaggio al tempo stesso esoterico e accessibile dei meme, inside joke aperti a tutti privi della pedante seriosità tipica dei movimenti. È in queste pagine che nei mesi più bui della pandemia ho percepito il fervore di una comunità, molto più che nel paternalismo accorato delle comunicazioni ufficiali.
“12 ore di revisione. 15 minuti di pausa”. @wdka.teachermemes, 2021.
Il lunghissimo ’68
Non è peraltro la prima volta in cui i confini tra scuola e mondo reale si fanno così fragili e porosi. Scaturite, ieri come oggi, da un senso di alienazione e precarietà, le proteste studentesche del ’68 e del ’77 sono state eventi colossali in grado di rompere l’incantesimo che faceva della scuola un fenomeno naturale e perciò immutabile.
Foto di Enrico Scuro, 1977.
A Giancarlo De Carlo, che ha analizzato la crisi delle facoltà di architettura in Italia, gli studenti parevano “passeggeri accidentali ed estranei in una istituzione che dovrebbe essere fatta per loro e che si giustifica solo per la loro presenza.” Che dire allora del corpo docente temporaneo? “Spermatozoii alla febbrile ricerca di un ovulo che dia loro una configurazione concreta”. Avendo seguito con vivo interesse il dibattito studentesco, De Carlo riportava per esteso i comunicati degli studenti torinesi:
L’Università attuale non risponde alle esigenze poste dalla domanda di lavoro esistente nella società. Il nostro obiettivo tuttavia non è il semplice adeguamento alle esigenze della domanda di lavoro. Riteniamo che l’Università debba e possa fornire a chi la frequente, al tempo stesso, […] preparazione professionale adeguata e strumenti di critica.
Slogan formulato dagli studenti nel ’68.
Non molto mi pare cambiato. Gli studenti sono sempre più consci della “sorte che sarebbe stata loro riservata una volta usciti dalla scuola, senza arte né parte in un mondo indecifrabile.”
La scuola come mercato
Come suggerisce il comunicato, quando si parla di scuola ci si divide tra realisti e idealisti. I realisti si concentrano sull’impiego futuro, sulle competenze e i bisogni del mercato. Gli idealisti si dividono a loro volta tra pessimisti e ottimisti. I primi sostengono che la scuola sia un luogo di disciplinamento e repressione. Essi lamentano inoltre l’assoggettamento dell’istruzione al mercato del lavoro. La scuola, secondo questo punto di vista, rischia di diventare una fabbrica, solo apparentemente egualitaria, di quadri aziendali, liberi professionisti, operai o addirittura disoccupati. I secondi vedono nella scuola uno spazio di liberazione attraverso l’esercizio dello spirito critico e la sospensione dei preconcetti familiari. Da una parte Ivan Illich, dall’altra bell hooks.
Ovviamente hanno tutti ragione, almeno in parte. Come fondere però le rispettive posizioni in un modello? Sostenere che la scuola d’arte e design sia parte integrante del mondo reale non basta. Non è nemmeno sufficiente, per non dire scorretto, contrapporre preparazione professionale a sviluppo dello spirito critico. Ad esempio, siamo davvero sicuri che la scuola professionalizzante non possa essere liberatoria, o che l’emancipazione non sia, in alcuni casi, una forma di disciplina? Credo che Pierre Bourdieu offra una sintesi utile della questione. Per il sociologo francese la scuola è innanzitutto un mercato in cui il capitale culturale è formato e scambiato, ma soprattutto legittimato e sanzionato. Parlare di cultura come capitale è cruciale: significa sottolineare che la cultura, pensiero critico compreso, può essere convertita in capitale economico, cioè in denaro.
Il capitale scolastico, ovvero l’ammontare delle conoscenze legittimate dalla scuola, è un sottoinsieme del capitale culturale. A ogni livello d’istruzione, il discente porta con sé un’eredità più o meno sostanziosa (a volte addirittura negativa!) di capitale culturale, soppesata dunque dall’istituzione scolastica. Nessuno entra a scuola a mani vuote. La scuola d’arte e design è un caso particolare perché qui più che altrove lo studente è incoraggiato a fare del proprio bagaglio culturale, specialmente quello più personale (interessi, passioni, hobby, letture, ideali etici e politici ecc.) una ‘pratica’, ovvero l’attività attraverso cui la cultura diventa profitto e i consumatori culturali diventano produttori.
Mentre la ‘scuola emancipatrice’ si rivela nelle ambizioni apparentemente autonome di studenti e docenti, la ‘scuola conservatrice’ si nasconde nei meccanismi di legittimazione o sanzione di queste stesse ambizioni. Può dunque capitare che lo sdegno, manifestazione enfatica dello spirito critico, diventi un valore legittimo se non addirittura prescritto, come mi è capitato di osservare in alcune accademie. Tuttavia ciò non elimina il meccanismo di legittimazione in sé, spesso tacito e fatto di frizioni, impedimenti, micro-censure, che dalla scuola si estendono al mercato del lavoro.
Diventare se stessi
La casa era il luogo in cui ero costretta a conformarmi all’immagine di qualcun altro su chi e cosa avrei dovuto essere. La scuola era il luogo in cui potevo dimenticare quell’io e, attraverso le idee, reinventarmi.
La scuola di bell hooks, donna nera cresciuta in un ambiente patriarcale e segregato, è l’antitesi della casa: territorio di reinvenzione fuori dai bastioni della tradizione. La scuola d’arte e design va oltre e fa della reinvenzione una riscoperta. Qui si insiste spesso, infatti, sull’io autentico, su ciò che ‘tu e solo tu’ puoi fare o apprezzare. In altre parole, adottando una retorica dell’autenticità, si promette a produttori e fruitori di “diventare ciò che sono”.
A partire da questa considerazione vorrei affrontare l’annosa questione del rapporto tra arte e design. Non intendo però riesumare antiche distinzioni (committenza contro indipendenza, razionalità contro intuito…), bensì propongo di considerare la relazione tra progetto di sé e progetto delle cose. Prevedo un certo scetticismo. Non è il design una pratica riflessiva con cui progettando il mondo si riprogetta se stessi? E non è l’arte a sua volta un elaborare artefatti indipendenti da colui che li crea? Tutto vero, eppure credo che esista una distinzione essenziale tra progetto del sé e progetto delle cose, distinzione resa evanescente dai continui elogi del progettista glorioso che riversa la sua personalità nelle cose che concepisce. Questa figura, calco sbiadito dell’artista romantico, sopravvive nelle promesse della scuola e nelle speranze degli studenti. Si tratta, in fondo, di una questione di valore. Mentre la dimensione progettuale della scuola d’arte e design tende a valorizzare cose e servizi, quella artistica – che non è certo priva di progettualità – tende a valorizzare l’espressione di un’identità autonoma e distinta.
Spot dell’Accademia del lusso, 2020.
Personal branding, capitale umano, identity politics: oggigiorno il progetto del sé è un impegno che si mette in atto consapevolmente. Bisogna dunque chiedersi: in quale misura si può considerare una prassi liberatoria? Per rispondere è necessario chiarire che la progettazione di sé, ciò che possiamo definire self-design, è uno dei fatti chiave della modernità, opportunità e condanna di chiunque abiti un ambiente non del tutto tradizionale. Poiché non ci sono traiettorie o ‘carriere’ predefinite, non ci si può esimere dal progettarsi. La vita si presenta a ciascuno come un ventaglio, più o meno ristretto, di rischi e possibilità. In tal senso, la spinta espressiva che generalmente si associa all’arte non è che il riflesso dell’ineluttabilità autoprogettuale tipicamente moderna. Non è un caso che la creatività, sinonimo popolare dell’arte come espressione individuale (e forse proprio per questo mal sopportata dai designer), abbia acquisito negli ultimi decenni tale primato.
Sono parecchi i libri che mescolano elementi di self-help con la cultura del design. Il cerchio si chiude: l’espressività artistica diventa strumento della realizzazione del proprio progetto di vita e lavoro.
Il self-design porta con sé dei rischi. Nelle sue forme estreme risulta ombelicale e patologicamente autoriflessivo: è cattiva letteratura. Misurandosi ossessivamente con il fantasma dell’identità, è turbato da un’essenza che non sempre si manifesta. Non è difficile comprendere allora la delusione di quegli studenti giunti a scuola credendo di cimentarsi con un sistema di idee, e che si ritrovano invece piazzati di fronte a uno specchio. Rovescio speculare della scuola emancipatrice di bell hooks, a livello pedagogico il self-design estremo si presenta come una facile scorciatoia, poiché delega la definizione dei contenuti agli studenti (“cosa ti sta a cuore?”).
L’identità si esprime per differenza, attraverso quel dispositivo di distinzione che è il gusto. Non dobbiamo pensare il gusto come l’attitudine snob del connoisseur, bensì come quel sistema di preferenze (dalle serie tv agli orientamenti politici) che di fatto costituiscono gli stili di vita. La scuola di arte e design, operando come mercato delle differenze, individua e legittima componenti identitarie facendone delle skill distintive (come quelle, ad esempio, del genio folle) da spendere successivamente nel lavoro, presentando alcune di esse come autentiche e dunque inalienabili. Tuttavia, quello dell’autenticità è, almeno in parte, un dispositivo che si nasconde agli altri e perfino a se stessi. Attraverso l’autoipnosi dell’autenticità, un aspetto della propria persona può apparire vero. È così che il soggetto può diventare ciò che è. È dunque possibile essere inautentici e sinceri, o insinceri e autentici. Questo meccanismo permette di spiegare almeno in parte il turn autobiografico delle scuole, già notato anni fa da diversi osservatori. Tuttavia, mentre si incoraggia l’autobiografia si tende a omettere che non tutte le biografie sono parimenti spendibili, non tutte le identità si prestano a una conversione simbolica vantaggiosa.
Aspirazioni professionali
Il design è, al pari dell’arte, proteiforme: i suoi confini mutano costantemente e riflessivamente. Non a caso buona parte della letteratura di settore, piuttosto che chiarirne la natura, prova a indirizzarne gli scopi. Le scuole, in quanto fucine di correnti e manifesti, partecipano attivamente a questo proposito. Ciò fa sì che nel design possano convergere il carisma del maestro, il kitsch del progettista star, la nostalgia dell’artigiano, l’orgoglio dell’esperto e, sempre più, la lotta dell’operaio.
Potremmo dire, parafrasando Bourdieu, che essendo quello del design un campo fluido e confuso, permette obiettivi professionali anch’essi fluidi e confusi. La sua ambiguità dà adito ad aspirazioni mai completamente realizzate né del tutto frustrate, un’ambiguità peraltro utile a quei giovani ambiziosi che non vogliono rinunciare né al “lavoro vero” né a degli ipotetici benefici simbolici. Verrebbe quasi da sostituire il diktat modernista “less is more” con il più vago “more or less”…
L’intrinseca vaghezza del design possiede dunque una sua logica precisa. Ad essa si accompagna però un fenomeno recente: la professionalizzazione, intesa come promozione del ruolo del designer da parte di associazioni di categoria, pare un problema superato. Aggie Toppins, designer e docente statunitense, ha recentemente sostenuto che “oggi l’imperativo più urgente del campo non è più la professionalizzazione; è quello di rendere la pratica del design una parte responsabile della costruzione di un futuro equo e sostenibile.” A riprova della riuscita dell’impegno professionalizzante, Toppins riporta il fatto che “il graphic design è ora una specializzazione universitaria in voga ed è più visibile nei media popolari”. Un’affermazione che conferma la tesi di Mari della scuola come principale industria del design.
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È fondamentale riconoscere, come fa Toppins, che la professione è stata storicamente uno strumento di esclusione di donne, minoranze e fasce oppresse. Ma è anche importante ricordare che oggigiorno la questione professionale è tutt’altro che risolta. Per non annoiarvi, snocciolo soltanto un paio di dati. Uno studio fatto su 30.000 laureati in design nel Regno Unito (l’indirizzo universitario più popolare nelle triennali) ha dimostrato che solo un quarto di loro finisce per svolgere lavori altamente qualificati e ben pagati nel campo della progettazione. Entrando poi nello specifico del graphic design, il settore che mi è più familiare, è sufficiente dare un’occhiata alle sporadiche indagini professionali per rendersi conto che lo scenario non è certo roseo. Secondo il censo annuale dell’AIGA, ad esempio, un progettista su tre sarebbe insoddisfatto del proprio mestiere.
Elitismo di massa
Quando si parla di design e lavoro non si può fare a meno di parlare di tecnologia. Democratizzazione, automazione e disintermediazione sono parole chiave difficili da eludere. Ruben Pater, designer e autore olandese, riassume così il lungo dibattito intorno all’avvento del desktop publishing.
“Rendendo il nostro lavoro così facile da svolgere, stiamo svalutando la nostra professione”, ha avvertito lo storico del design Steven Heller. “Con tutto così democratico, rischiamo di perdere la posizione di élite che ci dà credibilità”. Non è stato così, come sottolinea Ellen Lupton nel suo libro sul design do-it-yourself, visto che “il campo si è allargato piuttosto che restringersi”.
Oggi che la parola élite è diventata quasi un insulto, stare dalla parte di Ellen Lupton è certamente comodo. Va però detto che la crescita del settore prevista nei prossimi 10 anni è inferiore a quella di altri percorsi di carriera (il 3% contro una media dell’8%). Inoltre – e ciò conta ancora di più – Heller evidenziava un reale problema di percezione che si traduce in un declino dei guadagni e, ancor di più, dei profitti simbolici. Un problema che la scuola non può prendere alla leggera: nel momento in cui parecchi studenti non hanno la possibilità di convertire il loro ingente investimento scolastico in una posizione di élite professionale, un problema c’è e non è certo un problema da poco.
L’espressione ‘élite professionale’ è quasi tautologica. Secondo il filosofo Donald Schön, il professionista è colui che “rivendica conoscenze straordinarie in questioni di importanza umana, ottenendo in cambio diritti e privilegi straordinari”. Questa definizione dimostra che la professione è un ruolo intrinsecamente esclusivo (ma non necessariamente escludente, come lo è stato in passato).
Se il sapere dei designer non è ritenuto, almeno in parte, una forma di competenza, non sarà loro riconosciuto lo status di professionisti. È quello che succede ad esempio nel graphic design, ambito il cui know-how ha perso la sua aura esoterica. La percezione comune è che, grazie ai dispositivi digitali e alla rete, chiunque possa progettare un logo o un libro. Per alcuni il fatto che il graphic design sia un indirizzo universitario è addirittura fonte di stupore.
La sola esistenza di questo tipo di propaganda dimostra che le aspettative qui criticate sono esse stesse una realtà.
Che questa percezione sia giusta o sbagliata è irrilevante. Essa plasma comunque le relazioni economiche generali tra clienti e designer, e quindi lo status di questi ultimi. Gli effetti sono già evidenti nel divario salariale tra gli specialisti dell’UX design, ambito tuttora considerato esoterico, e quelli della grafica, pratica ormai demistificata.
Nasce dunque il sospetto che la professionalizzazione sia considerata un problema superato da chi questo problema lo ha superato individualmente, ovvero chi è considerato a tutti gli effetti un professionista, magari membro di un’élite culturale, in grado di ottenere benefici sia materiali che simbolici.
Responsabilità economica
Qualche mese fa ho firmato senza esitazione la lettera aperta dell’associazione Platform BK intitolata “I laureati delle accademie d’arte meritano di avere più potere sul loro futuro”. Rivolgendosi ai consigli di amministrazione delle accademie d’arte olandesi, i firmatari sostengono che l’istruzione dovrebbe preparare gli studenti alla “caotica realtà del mercato del lavoro nel settore culturale”. Il piano include quattro punti: sviluppo di corsi post-precarietà; impegno sociale e auto-organizzazione; inchieste sul mondo dopo l’accademia; coinvolgimento degli studenti negli sviluppi istituzionali.
Una versione precedente della lettera auspicava un’“educazione artistica economicamente responsabile”. La domanda è: come definire la responsabilità economica? Fin qui ho provato a dimostrare che non si tratta soltanto di redditi e fatture, né di mero spirito imprenditoriale, ma anche di flessioni di capitale simbolico, tra percezione pubblica e propriocezione professionale.
In seno a varie scuole d’arte e design si comincia ad affrontare il problema della professione prendendo le parti di un proletariato sfruttato. Benché, come mostrano i dati, ci siano delle ottime ragioni per adottare questa posizione, vi è in essa qualcosa di autolesionistico: accettando lamentosamente la neo-condizione operaia, si celano le legittime aspirazioni professionali dei designer, ovviamente tutt’altro che operaie. Questa è, secondo me, la ragione per cui la chiamata alla sindacalizzazione non porta i risultati sperati. Siamo in presenza di un doppio vincolo: la scuola educa gli studenti come liberi professionisti ma chiede loro una presa di coscienza proletaria. Essa rischia così di tradire la sua promessa professionale, non solo “creando dei falliti”, ma facendo del loro risentimento materiale per corsi e sillabi.
Questo poster del duo The Rodina (2018) mette in scena il doppio vincolo professionale: lo slogan sindacale stride con il volto ingigantito di un membro dello studio, manifestazione più o meno cosciente dell’attività performativa necessaria a costituire un’aura professionale e culturale a partire dalla propria individualità.
Il designer come intellettuale
Il libro da cui è tratta la posizione di Ellen Lupton è stato scritto assieme agli studenti del MICA di Baltimora. È un libro che nasce a scuola. Nel testo introduttivo la storica americana accosta la figura del designer all’“intellettuale organico” di gramsciana memoria. Considerando il design “una funzione sociale, piuttosto che una professione o una disciplina accademica”, Lupton suggerisce che
Questi intellettuali organici potrebbero fondere lavoro fisico e mentale, generando “nuovi modi di pensare” a partire da azioni e costruzioni. Le loro abilità sarebbero sia tecniche che teoriche.
Ma che cos’è esattamente un intellettuale? A questa domanda, Tomás Maldonado, esponente complesso e profilico del campo del design, ha dedicato un intero volume di ampio respiro: si passa da Cervantes a Jonathan Swift, da Erasmo ad Heidegger. Secondo Maldonado l’intellettuale nasce impegnato. È una figura che “prende posizione” e firma manifesti. A volte ha una funzione esornativa all’interno del partito che sostiene e dal quale è sostenuto. Inoltre, nel momento in cui diventa moderno, non può fare a meno di lavorare su di sé:
Egli esprime “l’identità moderna”, un modo di essere intellettuale che privilegia la “riflessività radicale”. È l’intellettuale “dopo Montaigne”. Con Montaigne “entra in scena l’io”. Nasce l’intellettuale vòlto a se stesso, ma che si offre allo sguardo degli altri.”
L’affinità con il prototipo del designer immaginato e promosso dalla scuola mi paiono evidenti: si tratta di un intellettuale che si schiera, critica ed educa, che progetta sé stesso e fa di questo lavoro il suo proprio contenuto da disseminare, la sua voce.
Le due culture
Questo tipo di intellettuale risponde al criterio dell’agire, ma che ne è del fare tipico dei progettisti? In altre sedi, lo stesso Maldonado ha offerto una definizione fulminante: il designer è un intellettuale tecnico. Egli provava così ad abolire la falsa dicotomia che oppone cultura umanistica a cultura scientifica. Come spiega Giovanni Anceschi,
[…] “intellettuale tecnico” è un’espressione che colpisce come un ossimoro, ma è tale solo per il pensiero banale e per il pregiudizio schizoide che continua a credere nelle “due culture”.
Il tentativo di “scacciare quest’attività tanto concreta dal middle-brow professionalista e praticone” è meritevole, eppure le cose non sono così semplici. La difficoltà sta nel fatto che la distinzione tra tecnico e intellettuale sopravvive nella percezione generale dei ruoli professionali, e in linea di massima il designer è percepito più come un tecnico che come un intellettuale.
Sondaggio effettuato su un campione generico di cento partecipanti. La figura del designer si lega principalmente alla sfera dell’arte e della creatività. I partecipanti non esitano inoltre a considerare il progettista un tecnico. Invece vi sono dubbi evidenti rispetto al designer come intellettuale.
Che tipo di tecnico, però? È vero per molti designer ciò che Bourdieu sostiene a proposito di coloro che occupano le posizioni inferiori della classe dominante. Essi “si ritrovano relegati in posizioni di tecnici, cioè di esecutori privi di potere economico, politico o culturale vero e proprio.” Ciò appare evidente nelle lamentazioni dei vari sotto-settori, non solo nel graphic design, che è in declino, ma anche in quelli in ascesa come l’interaction design, che chiede a gran voce il suo seat at the table. C’è differenza dunque tra il tecnico e il tecnologo, professionista a tutti gli effetti, sintesi riconosciuta delle due culture.
Come si spiega allora la propensione intellettualistica, per così dire monoculturale, del design contemporaneo? Non essendosi stabilito autorevolmente nella sfera della tecnica il designer tenta di rifarsi nella sfera umanistica. Si tratta di una mossa sensata, benché di gran lunga inconscia, che consiste nel sostituire un’élite tecnica (che élite non è più) con una pseudo-élite intellettuale, che si pone come “coscienza” della tecnica. La scuola può così rivendicare un ruolo formalmente autonomo, che consiste nell’esercizio del pensiero critico e nella produzione di consapevolezza. Nel loro ultimo libro, Mieke Gerritzen e Geert Lovink inquadrano bene questo fenomeno principalmente europeo con un titolo spietato: Made in China, Designed in California, Criticized in Europe.
Il problema dei problemi
Il passaggio dall’intellettuale tecnico all’intellettuale della tecnica si manifesta in modo particolare nel design speculativo, anche detto design critico. Si tratta di una pratica che consiste nell’immaginare scenari futuri per ripensare – e dunque trasformare – il nostro presente.
Il manifesto fondante della corrente, firmato da Anthony Dunne e Fiona Raby nel 2009, mette in chiaro alcuni principi. Si passa dall’intenzione affermativa a quella critica; non si progetta più per la produzione bensì per il dibattito; la provocazione sostituisce l’innovazione e le applicazioni fanno largo alle implicazioni. Ne risulta una figura tutto sommato simile a quella tradizionale dell’intellettuale umanista. Non a caso il design critico è a volte chiamato anche design for debate.
“Consapevolezza”. Collage di descrizioni dei progetti di laurea della Design Academy di Eindhoven. Afonso Matos, 2022.
Ogni corrente ha le sue eccellenze e le sue mediocrità. Non mi interessa qui determinare la validità generale del design speculativo, bensì dare ragione della sua popolarità, specialmente in ambito pedagogico e accademico. Al netto di alcuni precedenti storici riconosciuti dagli stessi designer speculativi, la novità sta nel definire e ridefinire i problemi attraverso scenari e prototipi, piuttosto che dedicarsi alla loro risoluzione.
Così facendo, il design speculativo risolve il problema dell’accesso ai problemi. Creando finzioni legate alla realtà eppure del tutto autonome, può disconnettersi dalla dimensione concretamente sociale della tecnica, ovvero la cosiddetta tecnostruttura, che include CEO, policy-maker e quadri aziendali. Inoltre, a livello pedagogico tale pratica si presta all’isolazionismo: per creare un mondo di finzione basta a volte un tenue legame con la realtà. Una realtà che per molti designer è peraltro scadente: se la risoluzione dei problemi è ridotta a mera esecuzione, l’inquadramento dei problemi ha il fascino della produzione culturale, compito tradizionale degli intellettuali.
“Non risolvere il problema. Articola il problema.” Chris Ashworth, 2021.
È così che va letto lo scetticismo diffuso nei confronti del problem solving. Non si tratta soltanto di mettere in scena la “perfidia” dei problemi complessi, ma anche di evadere l’ostacolo sociale che non permette di partecipare alla loro risoluzione. Questo spiega anche la propensione a investigare problemi colossali, dato che essi si prestano perfettamente allo sguardo sbalordito del critico. Concentrandosi sui massimi sistemi, si possono ignorare quei sistemi concreti da cui si è esclusi o su cui non si ha alcun potere. Per dirla con Victor Papanek, “È anche nell’interesse dell’establishment fornire vie di fuga fantascientifiche per i giovani, affinché non prendano coscienza della durezza di ciò che è reale”.
L’etica impotente
Scrive la storica britannica Alison J. Clarke:
Gran parte del discorso attuale sul design insiste su un modello polarizzato nato nel paradigma vagamente neo-marxista degli anni ’70 […] esercitando una retorica che contrappone una pratica progettuale moralmente ed eticamente virtuosa (sostenibile, socialmente integrata, basata sulla comunità, coprogettata, ecc.) all’immagine del progettista ancella di una cultura aziendale guidata dal profitto.
Questo binarismo etico si collega all’inaccessibilità dei problemi. Generazioni di studenti hanno letto appassionatamente il manifesto First Things First di Ken Garland, aggiornato e ripubblicato più volte negli ultimi decenni. Tuttavia già la versione originale, esplicitamente anticonsumista, lamentava in filigrana la riduzione del designer a mero esecutore di un piano i cui “scopi banali” sono decisi da altri. La presa di coscienza di Garland non è dunque solo etica ma anche posizionale.
Riferendosi all’edizione del 2000 del manifesto, J. Dakota Brown sostiene che “al pari dei precedenti tentativi di capire e contestare lo status del design quale ‘istituzione di potere’, la critica del manifesto è stata rapidamente riabilitata come affermazione apolitica del ‘potere del design’”. A ben vedere, dunque, l’afflato etico del design esprime un’autocelebrazione per eccesso di responsabilità. Esempi eclatanti di questo eccesso li troviamo sia nei testi canonici (come Design for the Real World di Victor Papanek) che in pamphlet recenti, come quello di Mike Monteiro:
Il design è un mestiere che implica responsabilità. La responsabilità di aiutare a creare un mondo migliore per tutti. Il design è anche un mestiere con molto sangue sulle mani. Ogni pubblicità di sigarette è colpa nostra. Ogni pistola è colpa nostra. Ogni scheda elettorale che un elettore non riesce a capire è colpa nostra.
Questa sovra-responsabilizzazione si presta bene a fare da contenuto educativo per corsi e conferenze, dando l’impressione che il design sia meno una filosofia pratica che un quadro morale individualizzato. Rivolgere l’attenzione all’etica individuale, componente fondamentale del progetto di sé, è un modo per mascherare la propria subordinazione. Indubbiamente il designer influenza la realtà attraverso il suo lavoro e le sue scelte, ma generalmente questo avviene in maniere tutt’altro che spettacolari, che mal si attagliano al mito fumettistico del grande potere da cui derivano grandi responsabilità. Difatti molti designer concordano sul fatto che la buona riuscita di un progetto dipende in gran parte dalla bontà del cliente, intesa come fiducia nella competenza del progettista.
L’entità malvagia che seduce, manipola e inganna i consumatori, incarnata di volta in volta nell’organizzazione, nel committente o nello stesso designer, è spesso un fantoccio, perfetto obiettivo polemico di una scuola che legittima uno stile di vita distintivo – un’attitudine, per dirla con Moholy-Nagy – caratterizzato dall’appartenenza a una specie di avanguardia morale dove ciò che non può il posizionamento professionale, tutt’altro che garantito, può il posizionamento etico.
Economia politica
Questa occasione mi ha ricordato un famigerato articolo di Paul Rand particolarmente aspro. Immagino che alcuni di voi lo conoscano già, ma rileggiamone comunque uno stralcio:
Sia a scuola che a lavoro il graphic design rappresenta spesso un caso in cui il cieco guida il cieco. Fare della classe un forum perpetuo per questioni politiche e sociali, per esempio, è sbagliato; e vedere l’estetica come sociologia, è grossolanamente fuorviante. Uno studente la cui mente è ingombra di questioni che nulla hanno a che fare direttamente con il design; il cui obiettivo è imparare a fare e a realizzare; che viene gettato nella mischia tra l’imparare a usare un computer, proprio mentre sta imparando le basi del design; e l’essere sommerso da problemi sociali e questioni politiche è uno studente disorientato; questo non è quello che ha pattuito, né ciò per cui ha, in effetti, pagato.
È di nuovo Aggie Toppins a svelare i retroscena di questo vero e proprio rant. Infuriato dalla nomina di Sheila Levrant de Bretteville, designer femminista associata al postmodernismo, a direttrice del corso di graphic design di Yale, Paul Rand abbandonò il posto nel dipartimento convincendo Armin Hoffman a fare lo stesso. Citando Roger Kimball, Rand lamentava l’apparente predominanza dei “women’s studies, black studies, gay studies” rispetto a dei fantomatici “curriculum e modalità di indagine intellettuale tradizionali”. È come se lo spirito di Jordan Peterson si fosse impossessato retrospettivamente di lui.
Per una critica dettagliata dell’articolo rimando al paper di Aggie Toppins. Io vorrei provare invece a estrarre un grano di verità da un materiale a prima vista irrecuperabile. Lo studente disorientato dalle questioni politiche non è meno smarrito di quello gettato in un mondo indecifrabile, descritto da De Carlo nel ’68. Purtroppo la politica non rende il mondo un luogo meno complesso, e proprio lì sta il suo pregio. La disposizione etica rischia invece, come abbiamo visto, di ridurre il politico a binarismi elementari e roboanti manifestazioni di sdegno che servono a produrre skill distintive riconosciute, forse, soltanto dagli stessi designer. Sarà pure un bello spettacolo, ma il cosiddetto do-goodism non è granché come offerta formativa.
Music and Apocalypse, diretto da Max Linz nel 2019. La protesta studentesca appare qui depotenziata e ridotta a motivo ornamentale. Essa adopera inoltre lo stesso linguaggio genericamente politico dell’accademia.
Come trarre vantaggio dalla complessità politica nel contesto educativo? Prendendo atto, tra le altre cose, delle legittime aspirazioni professionali degli studenti, comprese quelle meno ‘rivoluzionarie’. L’inclusione ornamentale di questioni smaccatamente politiche, lo spettacolo dell’indignazione, i crocevia etici non assolvono la scuola dalle sue lacune professionalizzanti, possono contribuire anzi a oscurarle. Una scuola che voglia davvero agire nella cosiddetta complessità deve invece estendere il dominio del politico fino a farne una economia politica.
Compromesso
Isteresi. Bourdieu utilizza una parola difficile per descrivere un fenomeno tutto sommato semplice, che consiste nell’applicare una prospettiva obsoleta a un contesto ormai mutato. Scrive il sociologo:
L’effetto d’isteresi è tanto maggiore, quanto maggiore è la distanza dal sistema scolastico e quanto più scarsa o astratta è l’informazione sull’effettivo andamento del mercato dei titoli di studio.
“Io e i ragazzi che chiediamo a quell’unico professore che ha lavorato da Herzog 15 anni fa se è a conoscenza di qualche opportunità”. @b0ysfirm, 2021.
Sono numerose le testimonianze informali di questo effetto sia nel contesto dell’arte che in quello del design. Joshua Citarella, artista statunitense, dichiara al suo pubblico fatto di studenti e artisti emergenti che “questo percorso educativo e professionale vi sta formando per entrare a far parte di una classe professionale che, in realtà, non esiste più.” Roberto Arista, designer italiano, rincara la dose sostenendo che “il nostro percorso di studi professionalizzante è stato ideato a partire da un modello che si stava già sgretolando negli anni Novanta, e che negli anni Duemila era giusto un multiplo sbiadito della matrice originale.”
Il modo in cui la scuola d’arte e design concepisce il progetto di sé è dunque fuori sincrono. Il collante che lega i suoi ideali datati è il concetto di autonomia. Questa si declina in vari modi: distacco romantico dalle cose del mondo, autoconvincimento della necessità sociale delle proprie competenze, riposizionamento critico rispetto a un contesto che limita l’accesso alla risoluzione dei problemi, distacco dal presente e perciò dalla storia.
Nel 2003 Andrew Blauvelt, designer e curatore statunitense, ha sostenuto, in un testo divenuto poi canonico, la proposta di un’autonomia critica del graphic design, intesa come “disciplina capace di generare significato dalle proprie risorse intrinseche senza fare affidamento su commissioni, funzioni, o materiali e mezzi specifici.” Più effetto che causa, l’autonomia critica è un abbaglio, una bella storia da raccontare in classe e al museo. Con cosa sostituire allora questa apparente indipendenza che è in realtà frutto di un’estromissione? Riprendiamo Maldonado e Anceschi:
[…] l’intellettuale tecnico, pur praticando l’arte stoica e realista del compromesso progettuale non è mai gestore neutrale, indifferente alla cosa, al tema, alla sostanza.
“Docenti di pratica autonoma praticano la loro autonomia durante la pausa di maggio”, @wdka.teachermemes, 2021.
Il compromesso progettuale è l’antitesi dell’autonomia critica. È ammissione del fatto che il designer è, in fondo, inevitabilmente un bricoleur, ossia colui che si arrangia con ciò che trova, nelle condizioni in cui si trova. Il compromesso progettuale non è per questo docile o vittimistico, ma è anch’esso critico: è critica del compromesso, presa di coscienza delle ragioni che orientano le prese di coscienza. È compromesso storico: capacità e coraggio di distinguere il passato dal presente. Affinare l’arte del compromesso progettuale vuol dire prendere atto della compromissione della scuola quale parte integrante del mondo reale. Vuol dire superare la propriocezione professionale per fare i conti con la percezione altrui del proprio ruolo, specialmente quando questa si rivela spiacevole.
Vi ringrazio per l’attenzione.
L’autore è grato a Caterina Di Paolo, Michele Galluzzo e Gui Machiavelli per i preziosi commenti.
Immagine di copertina: Shouldn’t you be working? alla Kunstalle Mulhouse, 2020.