Smart city e il controllo dell’intelligenza

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    Qualche mese fa ho comprato una Playstation 4 e nella confezione era incluso un videogame dal titolo Watch Dogs. Il gioco è ambientato in una versione alternativa di Chicago in cui infrastrutture e servizi sono gestiti da un sistema operativo centrale. Il protagonista può usare il suo smartphone per penetrare i dispositivi elettronici e controllarli a proprio piacimento, per esempio cambiando i colori dei semafori o spegnendo l’illuminazione stradale. Inoltre può spiare le persone, i loro conti in banca e le parole cercate più sovente su Google.

    Watch Dogs rende l’idea dell’immaginario urbano che circonda le smart city. Ovviamente si tratta di un prodotto di finzione, ma alcune idee – l’interconnessione delle infrastrutture, i big data e la possibilità di accedere a informazioni personali – sono ben radicate in idee collettive sulla città del futuro. Inoltre, secondo l’azienda che ha prodotto il videogioco, tutte le tecnologie hacker presentate sono potenzialmente ‘reali’.

    L’idea di smart city non è di facile definizione. Si tratta di un concetto sviluppato nell’ultimo decennio da giganti dell’industria informatica come IBM, Cisco, Siemens, Hitachi e Toshiba. La città smart è sostanzialmente efficiente e pulita grazie a sistemi di gestione informatizzati, ed esistono già numerosi esempi di città che hanno affidato la gestione di servizi sanitari, di sicurezza o energetici a tecnologie sviluppate da queste imprese multinazionali.

    L’idea probabilmente più popolare è che la città smart riceva costantemente feedback dai cellulari dei cittadini e da sensori sparsi nello spazio urbano; quindi, attraverso l’analisi dei big-data, la città può adeguare la fornitura di servizi, per esempio mutando il comportamento dei semafori al variare del traffico o attivando l’illuminazione pubblica solamente in presenza di passanti. Si tratta di idee che risuonano con la speranza che le innovazioni tecnologiche possano risolvere i nostri problemi – per esempio quelli collegati alla questione ambientale, alla sicurezza urbana, alla crescita economica – senza mettere in discussione i nostri insostenibili stili di vita. Non è quindi un caso che la smart city sia entrata nel novero delle parole-chiave dei documenti europei e che i progetti in quest’ambito siano supportati da sostanziosi finanziamenti.

    Nonostante gli evidenti effetti positivi dell’innovazione tecnologica sulle città e sulla vita quotidiana, è però importante sottolineare alcuni elementi critici. La città è un luogo di elevata complessità: l’idea di poterla assimilare, controllare e governare con dispositivi tecnologici è per molti versi presuntuosa e riconducibile alle vecchie filosofie moderniste, come quando si costruivano dighe e si modificava il tragitto dei fiumi per aumentare l’efficienza dei sistemi idrici senza rendersi conto dei disastri ambientali prodotti in molti casi.

    La filosofia della smart city tende infatti a ridurre complessi problemi sociali e ambientali a semplici questioni tecniche risolvibili con una app. La maggior parte di noi, inoltre, non è in grado di comprendere appieno le logiche di queste tecnologie; si finisce così col fidarsi degli algoritmi della IBM sperando che in futuro si potrà continuare a mantenere la temperatura di casa stabile a 23 gradi in tutte le stagioni senza sentirsi in colpa per i danni ambientali. E ancora, la maggior parte di queste tecnologie sono sviluppate e vendute da imprese private, ed è possibile che logiche di profitto possano insediarsi nella fornitura di servizi pubblici, accelerando la spinta al neoliberismo.

    Fra i vari pericoli, uno dei più sentiti riguarda il rapporto fra smart city e sorveglianza. Occorre premettere che vi è una lunga storia di politiche urbane che, in nome della sicurezza, hanno assunto posizioni violente nei confronti di soggetti deboli. Si pensi alla tolleranza zero della New York di Giuliani: in nome della sicurezza sono stati rimossi senzatetto e prostitute, soggetti senza dubbio poco ‘pericolosi’ in senso stretto. Una norma che criminalizza il dormire in pubblico non è una politica di sicurezza, ma un modo per rimuovere dal paesaggio urbano gli homeless. E ancora, le note gated communities che proliferano in tutto il mondo (un po’ meno in Europa) separano una minoranza privilegiata dall’incontro con esperienze urbane di povertà e/o di insicurezza, ma difficilmente possono essere immaginate come strumenti per aumentare la sicurezza urbana. È quindi necessario domandarsi sicurezza di chi? e da chi?.

    Una tesi plausibile è che le tecnologie smart non faranno che accelerare alcune tendenze già in atto. Si provi a osservare l’immagine qui sotto, estratta da un sito della polizia inglese. Invita a riportare comportamenti strani e accenna all’utilità delle telecamere, strumento cruciale delle smart city. Ma cosa significa strano? Eccentrico? Fuori luogo? Arabo? Devo controllare i miei vicini? Questo tipo di approccio è socialmente pericoloso, perché implicitamente si sovrappone a un’idea di profiling etnico che degenera facilmente in marginalizzazione, stigmatizzazione e disintegrazione sociale.

     

    Le nuove ‘telecamere intelligenti’, però, operano proprio in questa logica: attraverso sistemi di riconoscimento facciale e complessi algoritmi, seguono i soggetti che si comportano in modo strano. Ma ci sono molti modi in cui possiamo essere strani, e cercando sul web si possono trovare innumerevoli esempi di persone che sono state individuate e spiate in seguito a segnalazioni generate da telecamere intelligenti o da sistemi di controllo delle parole chiave contenute nelle email. Se siete interessati al tema, suggerisco il documentario della BBC Naked citizen.

    Ma vi è altro. Proprio come in Watch Dogs, l’analisi dei big data ha originato tecniche di polizia predittiva, ossia modelli statistici che permettono di individuare il profilo dei soggetti e dei luoghi in cui è più probabile che prendano forma crimini, in modo da poter concentrare le forze di polizia in specifici luoghi e momenti della giornata. Tutto questo può sembrare efficiente a un manager urbano, ma è pauroso per chi lavora nelle scienze sociali. Significa stigmatizzare e militarizzare sempre più i luoghi pericolosi.

    Si consideri l’esempio delle favelas brasiliane, sempre meno percepite come spazi di povertà e marginalità, quanto piuttosto come aree pericolose da sorvegliare e pulire con forze, tecnologie, armi e linguaggi tipici degli scenari di guerra (blitz, raid, ecc.). Ma siamo sicuri che gli abitanti li considerino una soluzione, e non invece una parte dei problemi del luogo?

    Tutti questi problemi sono ovviamente soltanto potenziali. Ci possono essere tecnologie smart buone e cattive, e certamente la tecnologia – vecchia e nuova – può migliorare le nostre vite. Ma l’idea che le tecnologie saranno la nostra salvezza le protegge da sguardi critici. Non è così semplice: siamo sicuri che sia sostenibile gettare via la mia vecchia lavatrice per comprarne una nuova eco-efficiente e smart?

    Forse è meglio continuare a usare quella vecchia il più a lungo possibile; probabilmente non vi è una singola risposta e dipenderà dalle circostanze. Siamo sicuri che le auto elettriche risolveranno la crisi energetica e ri problemi della mobilità urbana, e che non occorrano invece altri strumenti di pianificazione?

    L’ipercelebrazione delle tecnologie promuove l’idea che esse generino automaticamente città migliori, come se si trattasse solamente di affrontare problemi tecnici, da risolvere con il giusto software, a prescindere dalla varietà dei percorsi di sviluppo delle società locali, dalla difficoltà di ridurre il caos e la complessità delle città a una manciata di indicatori statistici da monitorare e controllare, dalla necessità di dibattiti, regole e forme di controllo per plasmare l’innovazione tecnologica, e dall’opportunità di controllare il comportamento dei soggetti privati che gestiscono servizi pubblici. Occorrono dibattiti sulle possibili alternative tecnologiche da scegliere, tenendo a mente che ogni città è unica.

    In definitiva, non credo esista una singola possibile città intelligente. L’espressione smart city sembra autogiustificarsi, in quanto una città non-smart è necessariamente stupida. Vi sono però un gran numero di modi di essere intelligenti e avanzati.

    Possiamo avere piccoli eco-villaggi (anche se difficilmente immaginabili per 7 miliardi di persone), oppure grattacieli in grado di ospitare migliaia di persone. Possiamo avere tecnologie che espandono la nostra libertà e altre che aumentano sorveglianza e controllo. Davvero vogliamo essere costantemente monitorati per la nostra sicurezza? Forse cominceremmo a comportarci in maniera differente sapendo che qualcuno ci sta controllando. Forse sarà meglio evitare parole come bomba, e magari anche protesta e dissidente.

    Possiamo anche avere una grande varietà di città, tecnologie e problemi urbani. Certamente, le imprese che forniscono soluzioni tecnologiche e smart app massimizzano il profitto vendendo lo stesso prodotto a un più città: in economia si chiamano economie di scala. Inoltre, con la crisi economica, molti governi sono felici di aprire le porte a investimenti pubblici e privati in progetti di città smart. Le imprese stanno quindi diventando attori chiave nella produzione di spazi urbani. Ma non è forse pericoloso indirizzare percorsi e strategie delle città in un’unica direzione, in tutte le parti del pianeta, attraverso un modello universale?

    La standardizzazione dei percorsi di sviluppo e degli stili di vita limita fortemente la possibilità di immaginare e sviluppare alternative, suggerendo tra l’altro in modo implicito che le soluzioni da cercare siano strettamente tecniche, e non sociali e politiche. È per questa ragione che occorre mantenere alto il profilo del dibattito critico sulle smart city e interrogarsi sul tipo di città del futuro in cui si intende vivere.

    Questo intervento di Alberto Vanolo è il primo di un serie (qui la presentazione) a cura di Roberta Marzorati e Marianna D’Ovidio sui temi urbani. Uno spazio sviluppato da cheFare in collaborazione con il dottorato UrbEur di Milano.

     

    Foto di Federico Beccari su Unsplash

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