Please (don’t) like me. I social e la libertà di scelta per Jaron Lanier

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    Jaron Lanier è un pioniere dell’informatica, musicista e scrittore. Con il suo lavoro ha contribuito allo sviluppo di startup poi acquisite da Google, Adobe e Oracle, attualmente lavora a un grande progetto, non ancora reso noto, per Microsoft Research. Nel 2010 Time lo ha inserito tra i cento pensatori più influenti del nostro tempo. Jaron Lanier ha anche scritto un libro recentemente pubblicato da Il Saggiatore, Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account dai social.

    social

    Perché un pioniere dell’era digitale come Lanier ha scritto questo decalogo? Quali sono le sue ragioni e quali le nostre? Lanier ci propone di riprendere il controllo sulla nostra vita uscendo dai social, da oggi per tutta l’estate cheFare attraverso le sue autrici e i suoi autori prenderà in analisi punto per punto le ragioni del decalogo, seguiteci! Anche fuori dai social naturalmente.


    We knew that if we thought of our technology as a means to ever more power,

    if it was just a power trip, we’d eventually destroy ourselves.

    That’s what happens when you’re on a power trip and nothing else.

    Jaron Lanier, Ted Talk

    1. Il segreto delle lucciole

    Circa un mese fa, ero con alcune persone in un parco di Milano. L’atmosfera ricordava le feste di paese: c’erano banchetti d’artigianato locale e altri di libri e piccoli sentieri illuminati congiungevano un posto all’altro. La serata continuava con il solito chiacchiericcio, finché qualcuno ha detto, con una certa determinazione, “andiamo agli orti”. C’è voluta non poca insistenza per rompere l’inerzia a rimanere immobili, lì dove il destino ci aveva portati, e attraversare il sentiero che ci allontanava dalle luci. Poi, nello spazio di pochi minuti era stato come varcare una soglia spazio temporale. Si era fermata la musica. Il mondo si era fatto buio. La temperatura era scesa. Il calore diffuso aveva lasciato spazio all’umidità delle prime sere di giugno. Tra gli arbusti, una casetta di legno spiccava dalla cima di un albero mentre ripida una scaletta la congiungeva a terra. Il rumore dei grilli e la luna distante si fondevano al profumo dell’erba, mentre ogni tanto, come a salutarci, ci venivano incontro le lucciole.

    Non so voi, ma io non vedevo le lucciole da anni. Mi ci portava mia mamma, quand’ero bambina. Non erano tanto le lucciole in sé, a colpirmi, tuttavia. Era quella sensazione di porre, per un istante, fine al rumore. Non mi riferisco al rumore vivo della festa. Mi riferisco al rumore nella mia testa, il rumore di scadenze mancate o raggiunte, che ancora mi ronzavano dentro, il rumore delle conversazioni aperte, il rumore del dover dire e del dover essere, il rumore di una conversazione senza fine che sembra appiccicarci continuamente, volenti o nolenti, alla scansione cronologica del presente. In questo rumore mentale, il buio della notte aveva portato uno strano silenzio – silenzio o intimità – come se accanto alle lucciole fosse possibile esistere non solo come espressione di un concatenamento reattivo, ma in ascolto di quel che rimane di saggio in una notte di stelle.

     

    2. Nella gabbia di Skinner

    E chi se ne frega delle lucciole, direte voi.

    Bella domanda. Me lo sono chiesto anch’io. La metterei così. Dovessi dire in una riga perché il libro di Jaron Lanier disturba e parla in qualche modo, è che Lanier sembra dire, in ultima analisi, che a furia di rimanere avvolti in una nube reattiva di feedback digitali, stiamo deteriorando la nostra vita. La vita digitale sta lacerando la nostra sensibilità per sostituirla con – cito – l’“imperialismo metafisico” di Facebook e Google, dove l’espressione “imperialismo metafisico” evidenzia che le grandi compagnie digitali sono diventate imperi e che questi “imperi della modificazione comportamentale”, come Lanier li chiama, stanno rimpicciolendo il nostro universo sino a trasformarlo in una gabbia reattiva di concatenazioni nervose.

    Nel suo, “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account” (Il Saggiatore, 2018), la prima ragione su cui Lanier si sofferma riguarda il libero arbitrio: “State perdendo la libertà di scelta”, dice. Muovendo da Norbert Wiener, che nel 1950 scriveva “Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani”, Lanier mescola comportamentismo e cibernetica per dirci che la rete funziona un po’ come l’esperimento di B.F. Skinner. Tanti anni fa lo psicologo statunitense aveva provato a modificare il comportamento dei piccioni grazie a un sistema di punizioni e incentivi. Dopo aver messo un piccione in gabbia, l’ha addestrato a fare piroette per mangiare. Celebrata nei libri di sociologia, la scoperta di Skinner è che un piccione che ha fame è disposto a fare una piroetta per farsi dare del mangime. Solo un uomo un po’ sadico, pensavo al mio primo esame di sociologia, costringerebbe il povero piccione a fare dei balletti per sfamarsi. Mi sembrava, insomma, crudele costringere il piccione a fare una giravolta semplicemente per ricevere il mangime che avrebbe potuto procacciarsi da solo se fosse stato libero, esattamente come mi sembrava crudele servirsi dei bisogni altrui per esperimenti di laboratorio. Fatto sta che per Lanier quell’esperimento è il modello della nostra società. Per Lanier, i social funzionano come una Skinner box. Esattamente come la Skinner box, i social ci chiudono in una scatola di feedback in cui il nostro comportamento è continuamente sottoposto a incentivi o punizioni. Come ammetteva Sean Parker, il primo presidente di Facebook:

    “C’era bisogno di dare una piccola dose di dopamina ogni tanto, per esempio se qualcuno metteva un like alla tua foto o al tuo post […]. È un loop di feedback e validazione sociale […] esattamente quello che un hacker come me cerca, perché si sta sfruttando una vulnerabilità della psicologia umana […]. E noi, gli inventori, i creatori di questa cosa – cioè io, Mark [Zuckerberg], e Kevin Systrom su Instagram, insomma tutti noi – lo comprendevamo pienamente. […]. Questo cambia letteralmente il proprio rapporto con la società, degli uni con gli altri […]. Probabilmente ha qualche strana interferenza anche con la produttività. Dio solo sa come sta trasformando il cervello dei nostri figli” (Lanier, p. 19).

    Per Chamath Palihapitiya, i social sono diventati circoli viziosi alimentati da dopamina:

    “I circoli viziosi di feedback a breve termine alimentati dalla dopamina che abbiamo creato stanno distruggendo il funzionamento della società. […] Non c’è un discorso civile, nessuna cooperazione; è solo disinformazione, mistificazione. E non è un problema americano, non si parla delle inserzioni dei russi. Questo è un problema globale. […] Mi sento terribilmente in colpa. Penso che tutti in fondo lo sapessimo, ma abbiamo simulato un approccio diverso, come se non ci fossero conseguenze negative e intenzionali. Ma nei profondi recessi della nostra mente, io credo, sapevamo che poteva uscirne qualcosa di brutto […]. Adesso siamo in una situazione terribile, secondo me, che sta minando le fondamenta dei comportamenti delle persone e tra le persone. E non ho una soluzione adeguata. La mia soluzione è non usare più questi strumenti. Io non lo faccio da anni” (Lanier, p. 20).

    In breve, dice Lanier, il sistema di feedback nei social sta creando un loop di punizione e validazione sociale che fa leva sulle nostre vulnerabilità per manipolarci a piacimento. Si tratta di meccanismi “sostanzialmente additivi”, perché inducono a rincorrere il piacere della ricompensa, mentre la punizione e il rinforzo negativo rinnovano continuamente la paura di non essere abbastanza. “Profondamente sensibili a questioni come lo status sociale, il giudizio e la competizione” (p. 29), scrive Lanier, gli individui sono continuamente esposti a livello emotivo, oltre che puniti o premiati in base a ciò che gli altri pensano di noi. I social ci trasformano, insomma, di volta in volta in giudici dell’umanità. Ecco che, per Lanier, “quando abbiamo paura di non essere abbastanza…. non siamo felici. Quella paura è un’emozione profonda. Fa male” (p. 29). Fa così male che Lanier la descrive come una “tortura” che trasforma “gli altri” in un “inferno” e induce taluni a rispondere all’ansia permanente con comportamenti da bulli mentre altri ne diventano le vittime. C’è qualcosa di disturbante nel libro di Lanier, il fatto che, ritraendoci continuamente in una condizione di esposizione emotiva, ci descrive come piccioni in una scatola di Skinner. Per rimodellare una società, diceva Christopher Wylie nel parlare di Cambridge Analytica, devi prima romperla e poi plasmarla nuovamente. E allora bisogna rompere l’empatia umana e riprogrammare ciascuno ad agire come il carnefice di turno, sinché tutti saremo complici della nascita di una nuova gerarchia. E’ facile paragonare l’esperimento di Cambridge Analytica alla scatola di Skinner, da questo punto di vista, e pensare che la vulnerabilità di ciascuno possa essere divenuta il perno su cui far leva per legittimare una politica d’odio come quella perseguita da Trump. Simile è l’argomento di Lanier, che pur edulcorato sostiene che le tech companies si servano delle vulnerabilità di ciascuno per trasformare la società in una nuova gerarchia nella quale siamo uno contro l’altra, stupidi complici dell’agenda di una manciata di imperi privati, nostro malgrado.

     

    Please (don’t) like me

    Eppure il tema che mi preoccupa di più in tutto questo è assai più banale della manipolazione.

    Qualche tempo fa, ero a una presentazione di Realismo capitalista di Mark Fisher (Nero, 2018) a Bologna insieme a Valerio Mattioli e Franco Berardi Bifo. Non ricordo il contesto, ma ricordo di aver detto che il like funge oramai da miele nelle nostre interazioni quotidiane, riceverlo significa, sostanzialmente, essere rassicurati, da qualche parte nel nostro inconscio, di piacere almeno a qualcuno. Franco aveva reagito nervosamente, dicendo tranchant che non era d’accordo per nulla. Il punto è che io temo sia proprio così e per tutte le ragioni sbagliate. Il limite delle discussioni relative ai social, negli ultimi anni, è stato spesso che si soffermavano sul mondo digitale come questo esistesse su un piano separato rispetto alla nostra esistenza.

    Eppure la capacità manipolatrice degli imperi digitali dipende precisamente dalle condizioni della nostra vita incarnata. Il problema più grande non è tanto che alcuni cattivi usino le nostre vulnerabilità per manipolarle a proprio beneficio. Il problema è che queste vulnerabilità esistano. Se buona parte della popolazione mondiale non si sentisse in gabbia, costretta a fare un lavoro che odia tutti i giorni della sua esistenza, piena di buchi dentro o di desideri irrealizzati, non sarebbe così ricettiva alla manipolazione emotiva. Invece siamo a tal punto abituati a vivere in un tritacarne fatto di competizione al ribasso, che nell’esaurimento generale il sollievo più semplice è un like – un surrogato di affettività in un’epoca di competizione generalizzata. In questo contesto, mi preoccupa meno sapere che qualcuno s’ingegna a usare la nostra vulnerabilità per trasformarci in esecutori inconsapevoli dell’agenda di pochi, di quanto mi preoccupi sapere che questo stato di inadeguatezza competitiva è la condizione psichica normale della nostra società.

    Il libero arbitrio, in questo contesto, non è dato, non tanto o non solo perché esistono operazioni come quella di Cambridge Analytica, ma perché l’umanità si aggira sui social come un affamato disposto a tutto per elemosinare un balsamo emotivo che dura un attimo, senza ammetterlo mai. In questo contesto, ha ragione Lanier, le interazioni nei social somigliano quasi a una religione – una finalità metafisica cui dedicare tutta la nostra attenzione, di modo tale da ottenere quella parvenza di validazione sociale indispensabile per compensare l’atomizzazione sociale, la mancanza di riconoscimento, la percezione, tutt’altro che erronea, di vivere in una macelleria sociale in cui la vita vale sempre meno. Il punto è che io non credo sia sufficiente chiudere i nostri account per porre fine a tutto questo. Se è vero che viviamo come piccioni dentro una gabbia troppo piccola, mentre un sistema additivo di feedback ce la rende tollerabile, il problema della dipendenza è secondario – il vero problema è rompere la gabbia. La gabbia di valutazione continua in cui viviamo a lavoro prima ancora che nei social disegna un mondo troppo piccolo per un universo così grande – è una prassi troppo banale nelle sue finalità prima ancora di essere umiliante. In ultima analisi, è questa continua quantificazione che dovremmo rifiutare, a lavoro, nei social, nella vita privata. L’universo è troppo maestoso per mettergli un like.

    Please don’t like me. È quel che rimane di saggio in una notte di stelle.


    Immagine di copertina da Unsplash

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