Come co-working ed incubatori possono superare il Coronavirus

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    Negli ultimi anni si è assistito alla diffusione di nuovi spazi di lavoro come co-working, incubatori, fab-lab e parchi tecnologici. Questi spazi, chiamati anche spazi collaborativi in virtù della forte vocazione alla collaborazione che li contraddistingue, si caratterizzano per ospitare lavoratori eterogenei in termini formazione, attività svolta e settore di competenza 1Capdevila, I. (2015). Co-working spaces and the localised dynamics of innovation in Barcelona. International Journal of Innovation Management, 19(3): 1-25. 2Clifton, N., Füzi, A., & Loudon, G. (2019). Coworking in the digital economy: Context, motivations, and outcomes. Futures, 1–14.. Definiti a volte anche “luoghi terzi3(Oldenburg, R. (1989). The great good place. Cambridge, MA: Da Capo Press.), questi spazi rappresentano oggigiorno un fenomeno pervasivo anche delle città italiane.

    Ad esempio, secondo italiancoworking in Italia nel 2018 vi erano circa 500 spazi di coworking e nel 2019 circa 700.

    I motivi di questa proliferazione sono diversi. Innanzitutto, gli spazi collaborativi offrono una serie di risorse e servizi (postazioni di lavoro, sale riunioni, attività di formazione e consulenza, ecc.) a prezzi accessibili per i lavoratori autonomi, soprattutto quelli nelle prime fasi della carriera.

    In secondo luogo, si propongono come un ambiente di lavoro stimolante in grado di offrire la possibilità di incontrare altri professionisti sia del proprio settore sia di altri ambiti. Da questo punto di vista, l’elevata informalità che li caratterizza supporta processi spontanei di condivisione di idee, rendendoli luoghi privilegiati per la sperimentazione di nuovi prodotti, servizi e anche modelli di business. Infine, gli spazi collaborativi vengono spesso aperti in luoghi caduti in disuso (ex-fabbriche, edifici pubblici abbandonati, ecc.) diventando efficaci leve di rigenerazione urbana.

    In una recente ricerca, abbiamo mappato in modo puntuale gli spazi di questo tipo presenti nella regione Emilia-Romagna 4(Montanari, F. (a cura di) (2020). Lo sviluppo degli spazi di collaborazione e dei co-working: profilo, organizzazione e impatto su innovazione e trasformazioni del lavoro. Report di ricerca, OPERA Research Unit, Dipartimento di Comunicazione ed Economia, UNIMORE.). Le analisi hanno evidenziato la presenza di 151 spazi collaborativi che sono sorti soprattutto negli ultimi tre anni (si pensi, ad esempio, che nel 2015 ve ne erano solo 68, meno della metà).

    Questi spazi sono presenti su tutto il territorio regionale, non solo nelle città capoluogo. Ad esempio, nella provincia di Bologna si concentra una quota rilevante ma non maggioritaria (circa il 30%) e il 12% è operativo in comuni con meno di 20.000 abitanti. Per quanto riguarda la tipologia, a fronte della prevalenza di spazi di co-working (quasi un caso su tre), si registra un numero significativo di incubatori, fab-lab, hub culturali e spazi polifunzionali (cioè spazi che offrono più attività tipiche delle altre categorie).

    Realtà distintiva della regione è quella dei Laboratori Aperti che sono stati inaugurati nel 2019 in tutti i capoluoghi di provincia per mezzo di fondi europei destinati a supportare processi innovativi e inclusivi nelle aree urbane. L’elevata varietà contraddistingue anche il pubblico che li frequenta. La ricerca, infatti, ha fatto emergere come questi spazi siano frequentati non solo da liberi professionisti, ma anche da lavoratori dipendenti di imprese che hanno deciso di spostare (o aprire) la propria sede in questi spazi oppure che hanno dato la possibilità di lavorare in regime di smart working.

    In quest’ultimo caso, le persone preferiscono lavorare (in modo stabile o temporaneo) in questi spazi per ovviare ai problemi tipicamente riscontrati da coloro che lavorano da casa (mancanza di spazi adeguati, senso di isolamento e difficoltà di mantenere un equilibrio soddisfacente tra vita lavorativa e vita privata).

    Le interviste condotte su un campione di 160 utilizzatori hanno confermato i benefici offerti da questi spazi in termini di creatività, innovazione e work-life balance. Inoltre, è emersa l’importante funzione di sostegno alla costruzione di un’identità professionale. In tempi in cui i lavoratori sono sempre meno legati in modo stabile alle organizzazioni, frequentare gli spazi collaborativi aiuta i lavoratori ad avere una maggiore legittimazione professionale e a sviluppare una rete professionale che li aiuta a navigare le complessità degli attuali processi di trasformazione del mondo del lavoro5(Merkel, J. (2019). ‘Freelance isn’t free.’ Co-working as a critical urban practice to cope with informality in creative labour markets. Urban Studies, 56(3), 526-547.).

    Questi risultati si riferiscono però a una realtà precedente la grave crisi sanitaria che ha colpito il nostro Paese a partire da febbraio. Nel mese di giugno, dunque, abbiamo condotto una ricognizione di come gli spazi collaborativi precedentemente mappati avessero reagito inizialmente al lockdown e, successivamente, alle misure di distanziamento sociale. La ricerca condotta è stata inizialmente di tipo desk, cioè basata sulla consultazione dei siti e dei profili social dei 151 spazi precedentemente individuati.

    Questo primo step di analisi ha evidenziato come il lockdown abbia portato alla chiusura definitiva di un solo spazio collaborativo in tutta l’Emilia-Romagna (un co-working nella provincia di Bologna). Secondo la nostra indagine condotta all’inizio della fase 2 della gestione della pandemia, il 10% dei 150 spazi attivi risultava ancora temporaneamente chiuso, mentre la maggior parte (77%) erano aperti e operativi (non siamo riusciti a reperire informazioni sui rimanenti 18 spazi che pur risultavano formalmente esistenti).

    La nostra analisi ha dimostrato come già durante il lockdown, oltre un terzo degli spazi fosse rimasto aperto, in quanto operanti in un settore di attività con codice Ateco compatibile con l’apertura. Tuttavia, anche molti spazi con un codice di questo tipo, come per esempio l’incubatore AlmaCube di Bologna, hanno comunque deciso di chiudere e di consentire l’accesso agli utilizzatori solo per il recupero di pc e materiali.

    La maggior parte degli spazi collaborativi, dunque, ha chiuso temporaneamente le proprie attività a metà marzo, ottemperando alle indicazioni del Governo italiano che ha imposto la chiusura delle attività economiche non essenziali. Alcuni spazi hanno deciso di anticipare la chiusura a fine febbraio, come il FabLab Valsamoggia a Bologna, il Drama Teatro di Modena e lo spazio That’s motion a Piacenza.

    Dopo questa prima ricognizione abbiamo approfondito tramite intervista via e-mail e/o telefonica gli effetti generati dal lockdown, la reazione degli spazi all’inizio della fase 2 e i possibili scenari futuri. Su circa 70 spazi che hanno risposto, circa un terzo ha dichiarato che durante la chiusura ha effettuato attività online soprattutto attraverso l’organizzazione di incontri virtuali per mezzo di strumenti e piattaforme digitali quali whatsapp, youtube, zoom, google meet.

    Circa venti spazi hanno organizzato dirette sui social network, videoconferenze e webinar con l’obiettivo di mantenere attiva la loro community di coworker e di promuovere il loro spazio facendolo conoscere a potenziali nuovi clienti e fruitori.

    Per esempio, lo spazio collaborativo Impact Hub di Reggio Emilia ha organizzato per la sua comunità di hubbers un ritrovo virtuale giornaliero (per una pausa caffè da remoto) e ha collaborato alla realizzazione del primo Startup Weekend Italia Online.

    Anche l’incubatore di Bologna AlmaCube ha portato online molte attività precedentemente svolte in presenza (aperitivi, seminari, incontri formativi, ma anche di coaching e mentoring), mentre altre come gli eventi di team building sono state sospese in quanto troppo difficili da trasferire online. Anche l’hub culturale reggiano SD Factory ha ripensato le proprie attività in forma virtuale attraverso dirette streaming, podcast, e webinar.

    Le iniziative erano accomunate dall’hashtag #creativiremoti e dall’obiettivo di ridurre la distanza sociale tra i suoi utenti. Interessante è anche il caso dei Laboratori Aperti di Forlì, Ferrara, Modena, Piacenza e Ravenna che sono tutti gestiti dalla Fondazione Giacomo Brodolini. Questi spazi, infatti, hanno organizzato un elevato numero di attività online coordinate e pensate in modo complementare rispetto alle vocazioni di ciascun spazio. Il risultato è stato quello di ottenere sinergie tra i diversi spazi e di evitare sovrapposizioni.

    Non tutti gli spazi hanno organizzato attività online. Ad esempio, il co-working BNBIZ – nato dall’estensione di un servizio erogato dall’omonimo hotel in provincia di Piacenza – ha deciso di non promuovere attività online di tipo seminariale, considerando l’offerta già presente molto elevata, e ha invece puntato su progetti alternativi molto centrati sui bisogni della comunità locale.

    Ad esempio, in collaborazione con alcune attività commerciali della val d’Arda ha organizzato il lancio di un portale in cui bar e ristoranti, durante il lockdown, potevano pubblicare le loro proposte di take away.

    Sia pur con le eccezioni di spazi (ad esempio, il Darsena office park di Ferrara o il Michelangelo Business Center di Modena) che hanno ripreso la normale operatività già ad aprile in quanto ospitanti professionisti o imprese con attività a codice ATECO compatibile con l’apertura, solo un terzo degli spazi ha riaperto all’inizio della fase 2, cioè a inizio maggio. Ovviamente, tali spazi hanno potuto riaprire poiché in grado di rispettare tutte le misure stabilite dal decreto ministeriale, in particolare quelle sulla distanza sociale minima, il materiale necessario (gel igienizzanti, guanti e mascherine) e la sanificazione degli ambienti. Per molti spazi, la riapertura è stata resta possibile dalla disponibilità di ampi open space che hanno agevolato la riorganizzazione degli spazi, degli uffici e delle postazioni.

    Grazie anche alla riduzione del numero di postazioni e/o alla collocazione di plexiglass divisori, è stato così possibile far rientrare i propri dipendenti negli uffici e i coworker nelle proprie postazioni. Altri spazi, tra cui il coworking ferrarese Domino space, hanno dovuto invece scaglionare gli ingressi dei coworker così da non registrare troppo affollamento. Il Cowo Giardini Margherita di Bologna ha eliminato gli spazi comuni, come la cucina condivisa, e riconvertito la sala riunioni in spazio ufficio con più postazioni di lavoro per poter riaprire.

    Nella maggior parte dei casi, la riapertura ha segnato una ripartenza con una presenza di utilizzatori ridotta rispetto a quella pre Covid-19: si passa da una riduzione di circa un terzo (ad esempio, in AlmaCube e nel coworking Edera di Modena) fino anche alla metà (per esempio in Cowo Giardini Margherita). Inoltre, sembra manifestarsi la tendenza a un utilizzo più temporaneo dello spazio da parte dei coworker affiliati. Molti infatti hanno dichiarato di avere meno volume di lavoro oppure di voler continuare a lavorare anche da casa per poter meglio gestire le esigenze familiari come la presenza di figli in età scolare. Tuttavia, il bisogno di questi spazi non sembra essere complessivamente in riduzione in quanto diverse realtà intervistate hanno segnalato un aumento di richieste di postazione, soprattutto da parte di chi ha sperimentato i benefici del lavoro da casa durante il lockdown o di chi non può ancora recarsi in ufficio. In questi casi, i potenziali nuovi utilizzatori vorrebbero usufruire, per uno o qualche giorno alla settimana, di un luogo di lavoro che garantisca maggiore tranquillità e favorisca maggiormente la concentrazione rispetto alla propria abitazione.

    Per gli spazi che hanno già riaperto, la grande incognita rimane l’organizzazione di tutti quegli eventi (molto diffusi prima del lockdown) che coinvolgono i propri utilizzatori e la comunità locale. Su questo aspetto, la maggior parte degli intervistati non è stata in grado di dire quando si potrà ripartire. In questo senso conta molto la disponibilità di spazi all’aperto. In ogni caso è interessante come le sperimentazioni virtuali effettuate durante la fase 1 non verranno abbandonate anche in caso di riapertura totale.

    Nel complesso, i dati presentati suggeriscono che gli spazi collaborativi hanno tenuto e reagito alla crisi pandemica. Il livello di incertezza da affrontare però è ancora molto elevato, anche perché la piena ripresa delle attività è ancora lontana dal realizzarsi. In tal senso, è importante cercare di combinare attività in presenza con quelle digitali avviate durante il lockdown, con l’auspicio che queste vengano anche riconosciute e sostenute dai finanziatori pubblici dello spazio. Quella che sembra emergere, dunque, è l’idea di una modalità blended, che ibridi fisico e virtuale in modo da preservare la socialità e le interazioni che sono le caratteristiche fondanti di molti spazi e l’essenza delle comunità che li popolano.

    Gli spazi intervistati hanno idee molto chiare su quello che le istituzioni pubbliche possono fare per sostenerli. Al di là delle misure immediate utili a ‘tamponare’ la situazione di emergenza come la cassa integrazione, la sospensione di tasse e imposte o il sostegno alle spese di messa in sicurezza, i gestori degli spazi collaborativi chiedono la concessione gratuita di ampi spazi pubblici, risorse per investimenti tecnologici destinati a sostenere il processo di digitalizzazione e l’emissione di voucher che possono essere utilizzati da aziende e lavoratori che stanno operando in modalità smartworking. Dietro a questa richiesta c’è la consapevolezza che gli spazi collaborativi rappresenteranno sempre di più in futuro un luogo di lavoro non soltanto per liberi professionisti e lavoratori autonomi che non hanno un’organizzazione di afferenza che offra loro un ufficio dal quale lavorare, ma anche (e in misura sempre più rilevante) per i lavoratori dipendenti. Come suggerito anche dai fondatori di Stars&Cows (spazio di coworking a Fiorano Modenese), gli spazi collaborativi possono rappresentare per le aziende e i loro lavoratori una soluzione non solo più funzionale e rispettosa del work-life balance rispetto al lavoro da casa, ma anche più flessibile e conveniente rispetto agli investimenti nei tradizionali uffici aziendali.

    Sicuramente il futuro è quanto mai incerto. Tuttavia, questa incertezza non sembra ridurre il potenziale ruolo degli spazi collaborativi. Anche nello scenario peggiore di una nuova ondata invernale, questi spazi potranno svolgere un’importante funzione di sostegno per tutti quei lavoratori che, a causa della crisi economica, avranno bisogno di una comunità che li accolga e li supporti, sia sul piano funzionale (contatti, opportunità) che emotivo (sostegno reciproco), in una fase di riconversione professionale, di avvio e/o rilancio della propria carriera lavorativa. Ecco, dunque, che pare importante per i policy maker cercare di capire come sfruttare ancora di più il potenziale di questi spazi (che già ottengono nella maggior parte dei casi un finanziamento pubblico) in termini di azioni di welfare e sviluppo economico.

    Note