I nuovi centri culturali diventano Spazi del possibile

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    Nel corso degli ultimi dieci anni si è assistito in tutta Italia alla diffusione di nuovi luoghi della cultura, contesti multidisciplinari e indipendenti in cui si sperimentano linguaggi e si indaga il contemporaneo, si incrociano e si contaminano discipline artistiche differenti. Sono centri in cui convivono spazi teatrali ed espositivi, biblioteche di territorio, atelier di artigiani, residenze d’artista, sale per concerti e proiezioni: contesti di attivazione e riattivazione che recuperano siti abbandonati restituendoli alle comunità. Sono luoghi ibridi in cui la pratica culturale si combina con altri settori: servizi, educazione e formazione, agricoltura, ristorazione, manifattura, coworking, cohousing, ecc. Aspirano a superare i confini tra mondi diversi, con la loro multifunzionalità sfidano i codici ATECO. Ospitano attività e servizi eterogenei, facilitando così l’incrocio di pubblici diversi, che spesso si sfiorano e a volte si incontrano davvero, ma comunque vengono invitati a partecipare attivamente. Esprimono le evoluzioni in corso nei nostri stili di vita, intrecciando arte, socialità, convivialità, svago, lavoro, politica. 

    Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Roberta Franceschinelli da Spazi del possibile. I nuovi luoghi della cultura e le opportunità della rigenerazione, un volume che analizza il fenomeno a partire dall’esperienza di culturability, il programma nazionale dedicato ai centri culturali riattivati promosso da Fondazione Unipolis. Il volume verrà presentato il 27 ottobre alle ore 17 al Ministero della Cultura.

     

    Questi luoghi rappresentano presìdi non solo di un nuovo modo di progettare, produrre, distribuire e fruire cultura fuori dagli spazi tradizionali, ma anche di creazione di un welfare generativo, che dà risposte innovative a vecchi bisogni o fornisce soluzioni a quelli emergenti. Non si limitano a formulare domande ed esigenze, aspettando una risposta dal decisore pubblico, ma diventano parte della soluzione e danno corpo al principio di sussidiarietà orizzontale. Spazi innesto da cui si attivano, talvolta anche in maniera inaspettata, processi di sviluppo e di empowerment territoriale più ampi, basati su esercizi di immaginazione collettiva e pratiche culturali collaborative, percorsi di community organizing e creazione pensati non solo per ma anche con le persone. Esplorano così nuove dimensioni spaziali della partecipazione e della co-creazione anche artistica, rendendola pratica di innovazione sociale e trasformando i concetti di audience development e audience engagement con un esercizio costante di manutenzione e cura. Sono le comunità di luogo di cui parla Ezio Manzini: aperte, leggere, intenzionali, contemporanee, la cui ragion d’essere è occuparsi del luogo in cui si trovano. 

    Centri di innovazione culturale, sociale e civica, che coinvolgono e abilitano territori e cittadini, generando nuove passioni civili e attivismo. Contesti della convivenza, ma non della coesione a tutti i costi, pronti ad affrontare anche il conflitto per esplorare universi altri e generare apprendimento. 

    I nuovi centri culturali ibridi spesso nascono da processi di recupero e riattivazione dal basso di spazi abbandonati, dismessi, parzialmente inutilizzati o rifunzionalizzati. Rigenerano e non riqualificano, perché insistono sui contenuti e non sul contenitore, sul software e non sull’hardware, sulla cultura e non sulle mura, sulle attività offerte per dare nuova linfa non solo agli immobili, ma a intere collettività. Conciliano la memoria storica di questi siti con l’innovazione e la trasformazione che la rigenerazione necessariamente richiede: rispettano il passato, ma sono calati nel presente e guardano al futuro. Le vere risorse che hanno a disposizione non sono gli immobili, ma le aspirazioni di chi li abita e se ne prende cura, attivando un processo in cui spazi vuoti di significati vengono trasformati in luoghi densi di relazioni. 

    L’esigenza da colmare è evidente a tutti. In Italia ci sono milioni di edifici, scuole, aree industriali, caserme, stazioni (e l’elenco potrebbe continuare), spazi di proprietà pubblica e privata dimenticati, rimasti incompleti, sottoutilizzati, caduti in disuso o mai entrati realmente in funzione, a causa di fenomeni complessi e intrecciati: processi di deindustrializzazione e crisi economica, infrastrutture e immobili talvolta mal progettati e inutili, trasformazioni delle città con la conseguente creazione di vuoti urbani che semplicemente “non funzionano più” nel contesto attuale. 

    Cinema che chiudono nei centri storici, luoghi culturali che hanno perso la propria funzione originaria e necessitano di ridefinire la propria identità attraverso forme nuove. Un problema che riguarda anche il patrimonio culturale sottoposto a tutela del Ministero della Cultura: come ricordato in un recente studio curato da Fondazione Fitzcarraldo (Fondazione CRC, 2019), secondo la Carta del rischio del patrimonio culturale 2012, esistono nel Paese oltre 110.000 beni immobili di valore culturale, di cui più del 60% è in stato di abbandono o di grave sottoutilizzo. Nonostante diversi progetti in corso, non esiste una mappatura nazionale esaustiva e riconosciuta dei luoghi potenzialmente riattivabili, ma è certo che disponiamo di un patrimonio edilizio vasto e multiforme non utilizzato, in gran parte di proprietà pubblica, che rappresenta una sfida complessa e onerosa da gestire. Molti di questi immobili non hanno appetibilità in termini di mercato, sono un costo per spese di sicurezza e manutenzione, talvolta generano forme di degrado. 

    Tuttavia, rappresentano anche una potenziale opportunità di rigenerazione e ripensamento per tante aree del Paese, a patto di non cadere in facili retoriche e apprendere dagli errori del passato. Negli anni precedenti, tentativi di rivitalizzazione di questi spazi secondo approcci totalmente top down hanno già mostrato i propri limiti e fallimenti, dovuti soprattutto all’ignoranza e al disinteresse delle esigenze reali dei territori, all’assenza di un disegno e di un progetto futuro per quei luoghi, alla mancanza di studi di fattibilità. 

    Cre.Zi Plus, Palermo

    In anni più recenti stiamo assistendo, invece, a forme diverse di attivismo dal basso e place based. A prendersi cura di questi beni compaiono attori nuovi, esperienze di auto-organizzazione sociale e culturale in cui si muovono realtà del terzo settore, cooperative, imprese sociali, srl, singole professionalità, ma anche policy makers e soggetti pubblici. 

    Organizzazioni imprenditive e ibride, che si assumono rischi, ricercano funding mix complessi, mettendo in discussione le distinzioni tradizionali tra for profit e non profit: perseguono obiettivi di interesse comune, cercando di produrre un reddito da attività commerciali che consenta loro di poter raggiungere la propria missione culturale. Pongono in essere un’idea di publicness più relazionale che giuridica, in cui l’interesse collettivo non dipende e non può essere garantito né dalla proprietà del bene né dalla natura pubblica o non profit dei soggetti che le promuovono, bensì dalla capacità di generare impatti positivi. Quaglia parla di un modello “post pubblico” che raccoglie esperienze integrative, complementari, ma a volte anche sostitutive di prestazioni e politiche pubbliche, il “piano B” che segue le politiche recessive. 

    Queste iniziative rappresentano il progetto di vita di numerosi professionisti animati da grandi passioni, cittadini coraggiosi che contribuiscono a immaginare un futuro collettivo diverso costruendo storie alternative (European Cultural Foundation, 2021), spesso trentenni e quarantenni con competenze eterogenee e non ancora “codificate” – e in parte necessitano di ampliarsi ed evolversi ulteriormente – che vi ricercano un lavoro coerente con i propri valori ed equamente remunerato. Quest’ultimo aspetto rappresenta un primo nodo critico per luoghi alla ricerca costante di una sostenibilità economica non facile da raggiungere, con il rischio di generare forme di autosfruttamento e precariato. 

    I nuovi centri culturali attuano alleanze e sperimentano partnership inedite, non sempre facili, fra pubblico/privato /terzo settore/cittadini per la rigenerazione come azione comune. Sono pratiche che nascono dal basso, spesso non inserite in una pianificazione organica o in un masterplan pensati a tavolino, che sfidano la pubblica amministrazione, a cui sta il compito di calarle in un progetto complessivo di città che ne riconosca la funzione di utilità comune. Nonostante spesso agiscano su immobili di proprietà pubblica, e debbano comunque sempre rapportarsi con gli strumenti urbanistici e regolativi vigenti, faticano a essere inquadrate perché il loro carattere innovativo determina domande e criticità alle quali la burocrazia non sempre è preparata. Necessitano di policy che vadano al di là delle distinzioni tradizionali fra i settori coinvolgendo diversi livelli e ambiti (cultura, urbanistica e qualità urbana, sociale, sviluppo economico, ecc.) e rispettando i tempi lunghi di questi processi, richiedono nuove forme di concessione e affidamento degli immobili che superino formule non più adeguate, reclamano un riconoscimento della funzione pubblica degli spazi anche laddove traggano la propria sostenibilità da attività commerciali, ricercano una piena comprensione del valore generato dai luoghi al di là della redditività economico-finanziaria di un immobile. 

    La risposta a queste sfide passa da un lato da un esercizio costante di flessibilità e da un processo di apprendimento delle istituzioni; dall’altro, da percorsi di advocacy promossi dai centri che raccontino e restituiscano efficacemente l’impatto generato sui territori e nei confronti di diversi stakeholder a livello culturale e artistico, sociale e relazionale, ambientale.

    La natura multidimensionale e integrata degli interventi, la molteplicità di obiettivi e ambiti coinvolti, l’eterogeneità e l’ampiezza dei portatori di interesse da considerare rendono l’operazione di valutazione molto complessa, ma al contempo fondamentale per verificare i risultati raggiunti e catturare la complessità degli impatti prodotti (LAMA, 2019). Nuove logiche di valutazione di impatto possono marcare il distinguo tra pratiche “positive” rispetto a processi di privatizzazione di beni pubblici o di gentrificazione e, parallelamente, essere un monito a evitare i rischi che la rigenerazione può portare con sé. 

    Ex fadda, San Vito dei Normanni

    Nuovi centri culturali rigenerati, luoghi della cultura innovativa, spazi culturali indipendenti e ibridi, pratiche di rigenerazione a base culturale, ecc. Sono molte le denominazioni, ciascuna delle quali evidenzia aspetti differenti, che vengono usate per indicare un fenomeno che attraversa l’Italia, dal nord al sud, dalle grandi città alle aree interne, dai centri storici alle periferie urbane di città che contribuiscono a rendere policentriche, isole di normalità trasformativa che disegnano una geografia inedita di pratiche e luoghi che collaborano fra di loro e disegnano arcipelaghi sconosciuti. 

    Una tendenza che è oramai avviata da oltre un decennio, con un po’ di ritardo e specificità proprie rispetto a pratiche simili diffuse in tutta Europa. Sebbene siano vissuti e attraversati da migliaia di persone differenti, i nuovi centri culturali rappresentano un universo solo in parte conosciuto, studiato e narrato. Qualcuno potrebbe definirle “pratiche in cerca di una teoria”, ma in realtà questi luoghi creati e immaginati da practitioner riflessivi stanno già lavorando per elaborare un proprio percorso di interpretazione e connessione, che però fa fatica ad emergere perché, oltre ad essere in continua trasformazione, è carente anche di dati e studi aggiornati che vengano tradotti concretamente in orientamenti che sappiano guidare le pratiche sul campo o ispirare lo sviluppo di politiche dedicate. 

    Il presente volume cerca di colmare questa carenza, approfondendo il fenomeno della rigenerazione di spazi a base culturale a partire dall’esperienza del programma culturability, uno dei principali bandi nazionali promosso da Fondazione Unipolis – la fondazione d’impresa del Gruppo Unipol e del Gruppo UnipolSai Assicurazioni – per intercettare e sostenere i nuovi luoghi della cultura nati attraverso processi di riattivazione. In particolare, le riflessioni contenute nella pubblicazione partono da due lavori di studio promossi da Unipolis e condotti da organizzazioni e ricercatori esterni per indagare le specificità dei centri, fornendo dati e informazioni interessanti e inediti. Queste indagini rappresentano la base su cui si innestano gli approfondimenti condotti da altri esperti nei campi dell’innovazione culturale, sociale e urbana. Un lavoro a più voci per garantire punti di vista, visioni e prospettive eterogenee in un ambito ancora non pienamente esplorato in termini di letteratura, sebbene oramai oggetto di grande interesse.

    Note