Lo spazio pubblico è sfigurato, una conversazione con Massimo Cacciari e Nadia Urbinati

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    L’intelligenza sociale del Covid-19 sembra pari alla sua contagiosità epidemiologica. Ogni risvolto, che finisce per scoperchiare, ci appare sempre più profondo dello strato di emergenza in cui ci avvolge.

    Nelle nostre strade è calato il silenzio; mentre si cammina rapidi, non ci si avvina agli altri e ci si fa piccoli sotto la mascherina, eppure mai come in questi mesi ci ha costretti a pensare tanto, a parlare tanto, a sintonizzarsi al coro sconnesso che si alterna ad ogni ora nelle dirette social e in tivù. Le decisioni nel frattempo hanno rimpicciolito il loro percorso e corrono nelle reti corte, frenetiche e confuse, dei decreti del premier sotto il parere di un comitato scientifico. Lo spazio pubblico è sfigurato e quello privato messo sotto sopra; il primo si è rimpicciolito, l’altro trasborda dai terrazzini alle scrivanie. Ma cosa significhi tutto questo e quali effetti lunghi e duraturi stia disegnando rimane sottotraccia nella discussione pubblica.

    Abbiamo provato a parlarne con due osservatori abituati a misurarsi con le trasformazioni del contemporaneo. Un filosofo: Massimo Cacciari, classe 1944, ex-sindaco di Venezia, una lunga parabola da protagonista tra accademia, istituzioni e battaglie politiche. Una politologa: Nadia Urbinati (1955), docente di Teoria politica al Dipartimento di Scienze Politiche della Columbia University. Di fronte agli stessi interrogativi, mettono a fuoco letture diverse, finendo per aprire nuove piste su cui muoverci.

    Prendere le decisioni, innanzitutto. È inevitabile che i processi decisionali si siano centralizzati fino a questo punto? «Sì, è inevitabile perché è necessario prendere decisioni efficaci e molto velocemente, per affrontare un’emergenza che è sanitaria, ricordiamolo – riflette Nadia Urbinati – Quello che ci impressiona è il fatto che si protrae, che è un’emergenza così lunga. E mai abbiamo affrontato una cosa simile. Ma di sicuro tutti i contrappesi, dall’opinione pubblica agli organi istituzionali, tutti funzionano, possono prendere parola e la prendono».

    Eppure, pensiamo alle comunità locali: sembrano ai margini. Anni a parlare di devoluzione, di rafforzamento dei poteri locali, di processi partecipativi e comunità di prossimità, eppure le città sembrano ammutolite. Là dove più forte è lo stravolgimento della vita quotidiana, più sono estranee ai processi decisionali. «Forse emergono meno, ma a me sembra ci siano molti casi di città attive, di sindaci che usano al meglio ordinanze e gli spazi di manovra che anno a livello locale».

    Più pessimista è Massimo Cacciari: «Autonomie locali e Regioni avranno un ruolo solo all’interno di un sistema compiutamente federalistico, dove a funzioni corrispondano responsabilità precise nel reperimento delle necessarie risorse. Se un Ente gode esclusivamente o quasi di finanza di trasferimento non sarà mai autonomo, anche dovessero riconoscergli tutti i poteri. Il sistema istituzionale italiano, con la sgangherata riforma del Titolo V, non potrà mai funzionare. L’epidemia lo ha messo a nudo».

    Le città restano il luogo privilegiato dove osservare l’emergenza e le politiche dell’emergenza. Qui pulsava la socialità e se ne codificavano i riti, ora d’obbligo sono i divieti e l’isolamento. Qui si pesava il Pil e ora non è che un’infilata di serrande abbassate. Dove si distinguevano cosmopolitismo o provincialità, ora si è ripiegato in uno spazio domestico. «Sì, è un trauma urbano – continua Cacciari – Ma la città aveva subito trasformazioni traumatiche già da molto tempo. Gli spazi pubblici sono andati perdendo di significato almeno a partire dagli anni ’70. La trasformazione della città in spazio metropolitano “equivalente” e la perdita di rilievo pubblico delle attività culturali al suo interno costituiscono processi in atto da decenni. Basti pensare ai rapporti nulli tra amministrazione politica e università». E quindi, da dove ripartire? «Non saranno interventi “urbanistico-architettonici” a rovesciarli, con buona pace del mio amico Renzo Piano, ma la formazione di nuove soggettività culturali-politiche». Quali? «Sulla natura e sulle possibilità di queste nuove soggettività non ho la minima idea».

    «E se l’esaltazione della vita sociale che abbiamo conosciuto fino a ieri non fosse che un grande meccanismo di gregarietà? Siamo stati appiccicati uno con l’altro: quanto potremmo definirlo sociale? – si chiede Nadia Urbinati – Forse dovremmo ridefinire quel “sociale”. In realtà, i rapporti sociali non si interrompono e non si sono interrotti». Tuttavia il lessico è crudele: l’altoparlante delle stazioni ci ripete continuamente di rispettare le “distanze sociali”, eppure abbiamo sempre pensato fosse una priorità ridurle. «Sì, è nostro dovere tenere distanze fisiche. Ma le distanze sociali non si sono mai accorciate, né prima né dopo la pandemia. E intendo tutte le distanze, di classe, di ceto e di genere. Chi vive nei condomini di periferia e chi in una palazzina del centro non erano vicini socialmente neanche ieri. Il virus ce l’ha solo svelato: avevamo più relazioni fisiche, ma in un contesto dove le relazioni sociali non c’erano proprio».

    Forse bisognerebbe ripartire da qui. Ma qui lo spazio sociale è in gran parte spazio digitale e i tempi di vita e di lavoro, privati e sociali, sono indistinguibili. L’epidemia ha esaltato anche questo, ha reso evidente ciò che già vivevano milioni di persone. «E’ stato un processo di apprendimento, pur in cattività – sottolinea la politologa – Ad esempio, dover fare lezione a distanza, mi ha costretta a cambiare linguaggio, modalità, approccio. Allo stesso tempo non ho più l’aula piena di ragazzi dove ci si relaziona con le prime fila e gli altri restano degli sconosciuti: la dimensione on-line ci ha avvicinati, ci ha costretti a conoscerci, a guardarci e ad ascoltarci. Dico questo perché ancora una volta il virus ci ha fatto scoprire delle cose e ne ha messe in discussione delle altre e dovremmo essere in grado di farci i conti, di non dare per scontato nulla. E’ una grande lezione».

    È in atto, riflette Cacciari, «una profonda riorganizzazione del lavoro, fondata sulla sua atomizzazione – eliminazione del suo concentrarsi in spazi che mantenevano un significato pubblico e di socializzazione. Il tempo di lavoro irrompe nel privato e vi si confonde. Le vecchie distinzioni cessano di valere». Attenzione, avverte il filosofo: «I nuovi mezzi tecnologici sono tutto questo, altro che mera “tecnica”! L’ideologia che li ha accompagnati nel loro affermarsi – quella del venir meno di ogni distanza – si è rivelata per quello che era ab origine: il disgregarsi dell'”uomo animale politico”, un disgregarsi tanto più efficace quanto più la sua idea procede nell’universale chiacchiera tra solitudine e solitudine».

    Qui si dovrebbe innestare la capacità della cultura di capire, tessere, curare. Le pratiche culturali avrebbero un potenziale strategico per ricostruire senso. Eppure, le filiere culturali sono state tra le più colpite e si sono silenziate le sale prima di qualunque impresa. «Trovo scandaloso come sono state trattate dalle norme centralistiche le attività culturali – sbotta Cacciari – Stadi sì e teatri no, supermercati sì e musei no, e via dicendo. Ma va detto che la protesta è stata minima, sono tutte attività che dipendono da contributi governativi, e quindi….». E quindi, sembra chiedersi il filosofo, di quale autonomia del culturale stiamo parlando? «Paradossalmente c’è stato un aumento della produzione culturale on-line: pièce teatrali, radiodrammi, podcast, piattaforme di cinema e di musica, una miriade di conferenze e presentazioni di libri, musica», rimarca Urbinati. «Quel che resta aperta è la drammatica vulnerabilità dei lavoratori di quelle filiere».

    Forse è questo il punto chiave. La questione del lavoro (e della nuova generazione del lavoro). La pandemia ha svelato proprio quella vulnerabilità di cui parla Urbinati e che i lavoratori della cultura e tutto il mondo del lavoro cognitivo già conoscevano da prima del lockdown. Ai margini o ben fuori com’erano (e come sono) da qualunque coperta di welfare, evanescenti nell’intermittenza di contratti, compensi, previdenza. Ora che la loro condizione è diventata eclatante per loro e si è estesa al resto del lavoro “tradizionale”, il ritardo accumulato per il fatto di mantenerli in una zona oscura delle politiche pubbliche, fa precipitare tutte le altre questioni: la qualità dei livelli decisionali e partecipativi, il senso della dimensione urbana e metropolitana, la realtà digitale e materiale, i sommersi nella precarietà e i salvati dal vecchio mondo (post)fordista. Le nuove soggettività di cui parla Cacciari. «Non bisogna dare niente per scontato», ci ha avvertito Urbinati. Il che significa una radicale riscrittura del welfare e forse questo ci porta dritti a intrecciare la sfera della cittadinanza e quella dell’universalità del reddito. Quello che sembrava impronunciabile ieri, potrebbe avere l’uscio socchiuso oggi.

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