Come lasciare il segno nel corpo vivo della società: più potere agli artisti!

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    Una specie di mantra, rilanciato da decine di interventi rimbalza in questi giorni su media e social. La pandemia è soprattutto, e per ora, una crisi di “senso”, nella quale il paradigma di sviluppo che in una maniera nell’altra si fondava su un andamento lineare della storia, e che avevamo incorporato nelle nostre esistenze, mostra tutta la sua fragilità.

    Il sospetto già c’era, e da tempo, ma se fino a pochi mesi fa potevamo illuderci che questo smarrimento fosse dovuto ad una specie di difetto di funzionamento del nostro paese, la crisi climatica, prima e il virus dopo, ci hanno mostrato come le nostre difficoltà ad immaginare futuro, non erano dovute ad in atavico “ritardo” italiano, ormai assunto come una specie di profilo ideologico nazionale, ma di una crisi sistemica che ci accomuna a tutti i paesi del mondo. “Abbiamo bisogno di visioni e visionari”, si finisce inevitabilmente per concludere. Ma di quali visioni si parla?

    È molto tempo che vado alla ricerca dei desideri e delle speranze di chi abita i margini del nostro paese, quelli che vengono raccontati come luoghi del degrado, senza un domani, perennemente in “ritardo”, prigionieri nella trappola dei bisogni. Solo negli ultimi cinque anni ho percorso, nelle aree interne, decine di migliaia di chilometri.

    Ho visto abbandono e speranza di rinascita, spazi svuotati di uomini e significato e desiderio di riempirli con sperimentazioni altrove impossibili, silenzi che alimentano la ricerca di nuovi linguaggi universali, che partano dagli elementi costitutivi, come la pietra, il bosco, la terra, l’acqua, il cibo, per connettersi con il resto del mondo, per fecondare l’immaginario, ovunque, proprio a partire dai posti più remoti.

    E mi sono convinto che le “ visioni” non vengono a galla interrogando ossessivamente i bisogni e le emergenze che scatena questa crisi, ma si alimentano indagando le speranze e i desideri delle persone. Il mio viaggio nei margini si è trasformato in un viaggio verso il futuro anteriore, non ancora nato, del nostro paese.

    Sembra che nessuno oggi sappia immaginare cosa sarà delle migliaia di borghi di pietra del sud del paese o delle malghe alpine abbandonate, dopo secoli di sfruttamento pastorale e di estrazione delle materie prime utili allo sviluppo industriale delle pianure. Nel secolo delle metropoli globali sembra non esserci posto per un pensiero sul futuro delle aree interne. Ma non è del tutto vero: ai margini, tutt’altro che invisibili, gruppi di artisti si stanno impegnando a ripensare i luoghi, proiettandoli nel futuro e prefigurando un nuovo valore d’uso a spazi che l’hanno smarrito, attraverso un percorso di immersione, di astrazione, di concretizzazione.

    Il più delle volte sono giovani pionieri profughi della modernità, espulsi dalle città, o in fuga da esse, dall’individualismo che non paga, dal mercato dell’arte che percepiscono come una finzione. Visionari che parlano di arte pubblica, di oggetti o gesti che diventano fatti sociali, di arte ricorsiva, impegnata, militante, che è passione per il cambiamento. Altre volte sono ubiqui, sono cittadini temporanei, sospesi tra centri e margini, tra desiderio di posizionamento nel mercato metropolitano e necessità di sperimentazione, di ricerca di autenticità, in posti “fuori dal mondo”.

    Ma quali sono questi luoghi “fuori dal mondo”? In Europa occidentale, le foreste primordiali erano già quasi del tutto scomparse nell’epoca neolitica. Oggi le aree interne sono porzioni sempre più grandi di terra abbandonate o dimenticate dalla determinazione ordinatrice della civiltà, luoghi d’elezione delle piante pioniere, alloctone, dell’alianto, del pino mugo, dove sono tornati a mostrarsi anche i grandi predatori, l’orso, il lupo, ma in forme ibride, se non volgarizzate. Di fatto i “posti fuori dal mondo”, almeno dalle nostre parti, sono il regno del selvatico, i luoghi della destinazione incerta, l’alter ego delle città, con cui hanno una relazione osmotica, di reciprocità.

    D’altra parte, se Roma esiste da quasi tremila anni, è perché è stata sempre in grado di rinascere dalle proprie rovine, andandosi a “nascondere”, nei momenti critici, in ciò che la circonda: nel Lazio (dal latino latere, nascondersi). Gli artisti dei margini ci si rifugiano per intessere relazioni inedite, invisibili al controllo del potere, e fare esperienze creative di riappropriazione. Da un lato sentono che nelle città le combinazioni possibili sono esaurite, che non c’è più spazio per la produzione artistica, che si sono ridotte a luoghi di consumo, che sono devastate dalla natura corrotta e megalomane del capitalismo mercantile.

    Dall’altro la ricerca di un linguaggio universale li porta a cercare di costruire ponti con le altre parti del paese, in un momento nel quale le diseguaglianze territoriali si vanno approfondendo, ricucendo le periferie con i centri attraverso una pratica artistica militante.

    Per questo gli artisti dei margini sono così importanti per chi voglia fare una politica per la rigenerazione del nostro paese devastato dalla pandemia, che abbia l’obiettivo di invertire i trend negativi che non riguardano più solo le aree interne, e combatterne l’inevitabile impoverimento.

    Per far questo c’è bisogno di operare sul piano tecnico e politico. Sul piano tecnico, è indispensabile ripensare completamente le politiche culturali, fino ad oggi quasi del tutto concentrate nel sostegno al managing culturale, mentre i consumi culturali cambiavano rapidamente e si spostavano dalla fruizione, dove si il management ha una funzione insostituibile, alla produzione.

    Ne è dimostrazione il fatto che oggi si spende di più in dispositivi per fotografare che per andare al cinema, e si usano più soldi in corsi di scrittura creativa che per comprare libri. Una nuova committenza pubblica deve porsi il problema di arrivare anche a sostenere direttamente la produzione artistica in se, non solo nella sua funzione di riproduzione sociale.

    D’altra parte, su di un piano più strettamente politico, per accogliere le capacità visionarie degli artisti, trasformarle in strumenti di sviluppo dei luoghi, bisogna ceder loro capacità decisionale. Bisogna avere il coraggio di investire in utopie concrete, e di accettare i fatto che in mano oggi, non abbiamo nessuna soluzione se non la sperimentazione. Messo in questi termini non siamo più di fronte ad un problema tecnico, ma a una questione che chiama direttamente in causa il potere, e porta con sé il conflitto.

    Chi, infatti, cederebbe un pezzetto di potere agli artisti? Di certo non sarà la politica che costruisce il consenso solo sulla riduzione degli investimenti e sull’espansione dei consumi a farlo, nè tantomeno le burocrazie ossessionate dal controllo e dell’appiattimento di ogni disegno strategico al calcolo costi/benefici. Perché il pubblico ritrovi una sua capacità di committenza c’è bisogno di ricostruire consenso popolare intorno al valore dell’arte. Il lavoro sulle aree interne deve avere l’obiettivo di far crescere maggiore attenzione verso il ruolo che ha l’arte nei luoghi.

    La scommessa oggi, per i singoli e le istituzioni, sembra esser quella di riuscire a dare maggiore forza e continuità alle azioni artistiche sul territorio, perché lascino traccia nel corpo vivo della società, che torni così a sentirne il bisogno. E che i cittadini chiedano, insieme al pane, anche le rose. Si dice che le cose cambino quando cambiano le condizioni culturali. Dal mio punto di osservazione posso dire che le condizioni culturali stanno già cambiando.

    Non è un tumulto, piuttosto un mormorio crescente. Un futuro possibile sta nascendo nei margini, parla di nuove forme di socialità, di nuove economie, di nuove istituzioni. E il progetto di ricostruzione del paese dopo il coronavirus, come tutte le rivoluzioni, ha bisogno di una sua estetica consapevole.


    L’articolo prende le mosse da un capitolo di un cahier fatto con stefania Crobe, Michelangelo Pistoletto ed altri intorno all’esperienza di Arte Pollino

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