Rosetta. La vita culturale delle città

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    La vita culturale delle città è una cosa strana. Alla domanda “dove sta di casa la cultura?” si potrebbero dare molte risposte diverse: nelle scuole, nelle università, nei musei, nelle biblioteche, nelle librerie, nelle sale da concerto, nelle strade, su Internet, nei cinema, nei centri sociali, etc. Sarebbero tutte risposte giuste, ovviamente, e tutte terribilmente parziali.


    Il 30 marzo Rosetta arriva al Beltrade per parlare di migrazioni, degli immaginari e dei progetti che generano e portano con sé. Alle 18:30 il filosofo Umberto Curi, il regista Suranga Deshapriya Katugampala, lo studioso di design Ezio Manzini e l’artista Adrian Paci risponderanno alle domande di Valeria Verdolini, a seguire aperitivo con dj set a cura di Matteo Saltalamacchia. Alle  21:30 verrà proiettato per la prima volta il film “Per un figlio”, di Suranga Deshapriya Katugampala.


    Uno degli assunti forti che ci hanno spinti a far nascere cheFare è stata la consapevolezza del fatto che molti dei luoghi-cardine della produzione culturale del ‘900 stessero perdendo la loro centralità. O, più precisamente, che alle università, alle case editrici, ai musei si stessero affiancando altre tipologie di spazi dalla natura ibrida, difficilmente catalogabile e spesso quasi inafferrabile. Luoghi spesso multifunzionali che ricombinano a geometria variabile pezzi di pratiche e di identità spaziali che arrivano dai centri culturali indipendenti, dai coworking, dalle librerie, dai bar, dalle sale cinematografiche, dalle gallerie, dai makerspace.

    È una specificità italiana? Ovviamente no. L’Europa è un florilegio di organizzazioni culturali ibride, che hanno però la caratteristica di essere il risultato di processi decennali di sperimentazione costate finanziata pesantemente dal pubblico, dal privato o (sempre più spesso) da entrambi. Come i media center di Amesterdam e Rotterdam, che dai primi anni ’80 portano avanti percorsi di ricerca, produzione e disseminazione nel rapporto tra arte, media e tecnologia; i centri culturali di quartiere di Barcellona, nati sull’onda della pioggia di finanziamenti delle Olimpiadi del 1992; gli spazi inqualificabili di Berlino nati dai tessuti urbani mutageni post-89, e che ospitano alternativamente clubbing elettronico, corsi, conferenze e serate BDSM.

    In Italia, la differenza è tutta nei tempi. Come in altri paesi, i nuovi spazi culturali si insediano spesso negli spazi che una volta erano quelli dell’industria e della manifattura, in un processo di cambiamento delle logiche urbane che possiamo tranquillamente chiamare post-fordismo. A differenza di quello che succede altrove, in Italia questa germinazione (se si esclude l’esperienza fondamentale dei Centri Sociali Occupati e/o Autogestiti) è rimasta bloccata per quasi trent’anni per motivi molto diversi: incapacità di leggere il cambiamento; avversione politica e sociale a permettere la crescita di percorsi culturali non istituzionali; commistione tra tradizionalismo e provincialismo; concezione ancillare della cultura; predominanza non contrastata delle logiche baronali, dentro e fuori dall’accademia.

    Un aspetto importante di questa trasformazione ha sicuramente a che fare con la frammentazione della produzione del sapere accelerata dai mutamenti sociali ed economici. Nonostante la pletora di lamentele costanti, oggi produciamo e consumiamo molta più cultura di quanto non facessimo qualche decennio fa. Lo facciamo in forme spesso radicalmente nuove, perché nuovi sono i mezzi di produzione ed i canali di distribuzione e perché nuove sono le forme di precarizzazione lavorativa e biografica che ci attraversano.

    I nuovi luoghi della cultura sono il precipitato spaziale di questo cambiamento, dei tentativi di aggregazione temporanea o semi-permanente di quelle nuove figure che agiscono la trasformazione dando per scontato, volenti o nolenti, un orizzonte dal quale l’autorevolezza (e, perché no, l’autorità) delle istituzioni culturali tradizionali è nei casi migliori cedevole, nei casi peggiori caduta.

    Alcuni di questi nuovi spazi sono rigorosamente “dal basso”: nascono e sviluppano dall’incontro di giornalisti senza più quotidiani, ricercatori senza più università, designer senza più distretti industriali. Altri sono esperimenti imprenditoriali che cercano di investire al confine tra leisure, nuove forme di coesione sociale e disseminazione culturale. Altri ancora sono il risultato della trasformazione dei movimenti sociali degli ultimi decenni, che elaborano progressivamente nuove pratiche di cittadinanza basata sui beni comuni e gli usi civici. Altri, infine, sono istituzioni tradizionali che provano ad aprirsi e rendersi permeabili alla vita culturale del ventunesimo secolo.

    Qualsiasi cosa siano, è chiaro che stanno facendo crescere nuovi pubblici della cultura, alla ricerca di nuovi modi di affrontare le domande grandi e piccole, serie e facete che segnano il contemporaneo.

    È per questo che assieme alla Casa della Cultura, con il contributo di Fondazione Cariplo, a Milano abbiamo messo in piedi Rosetta.

    Perché i nuovi pubblici della cultura siamo anche noi, e assieme ad altri – come noi e diversi da noi – vogliamo incontrare i luoghi della cultura che ci piacciono e conoscerne di nuovi. Vogliamo mettere le mani in pasta e, ancora una volta, abbattere il confine tra la teoria e la pratica.

    Perché quella che trattiamo da anni con cheFare (con il bando, con le esplorazioni dell’Almanacco, con gli incontri con le comunità di base, con la ricerca Spazi, Cultura e Lavoro, con La Cultura in Trasformazione) non è solo un’astratta materia speculativa. È vita culturale vissuta.

    Immagine di copertina: ph. Vicko Mozara da Unsplash

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