L’editore dovrebbe saper perdere il proprio tempo

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    Pensiamo al tempo come a un fenomeno pervasivo, con caratteristiche scientifiche di esattezza e misurabilità: in un giorno ci sono 24 ore, in un’ora sessanta minuti, in un minuto sessanta secondi. Niente incertezze, equivoci, ambiguità: quando sono le otto, sono le otto. E se non segna le otto, è l’orologio ad avere torto.

    Questa visione del tempo è indiscussa e condivisa universalmente, ma non è da molto che l’umanità la pensa così. Fino a poco più di due secoli fa, il tempo era fluido, incerto: un fenomeno locale più che universale, scandito più dal ciclo circadiano che dal movimento di una meccanica raffinatissima o dalla frequenza di risonanza di un atomo di cesio.

    L’idea moderna di tempo si è formata durante la prima rivoluzione industriale: quella della macchina a vapore e della ferrovia. Proprio in funzione dei trasporti di massa, per merci e passeggeri, diventa fondamentale “sincronizzare gli orologi”, creando un tempo standard condiviso da tutti in un dato areale geografico. Prima di allora, ogni campanile era regolato su un’ora locale, determinata sulla base del momento in cui il sole raggiungeva lo Zenith. Le differenze, fra un villaggio e l’altro, non erano sostanziali; ma fra Parigi e Berlino erano di ben 44 minuti. E bastano pochi minuti per perdere un treno o per causare una catastrofe ferroviaria.

    Solo in un contesto che permea la cultura dell’occidente industrializzato da più di un secolo può germogliare l’idea che il tempo possa essere guadagnato o perso

    Con la seconda rivoluzione industriale, quella del motore a combustione interna e della catena di montaggio, del fordismo e del taylorismo, il tempo standardizzato diventa lo standard di riferimento della produzione. L’efficienza produttiva, necessaria per sbaragliare la concorrenza comprimendo i costi ed espandendo i margini, si ottiene facendo in modo che ogni parcella del processo produttivo venga eseguita – dall’uomo o dalla macchina – in un tempo dato, teoricamente determinato e sperimentalmente verificato, che funge da parametro per la valutazione dell’efficienza sulla base del quale il singolo operatore viene valutato, premiato o punito.

    Sembra storia antica, ma non bisogna essere vecchi per ricordare Lulù, l’operaio cottimista interpretato da Gian Maria Volonté ne “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri (1971), per il quale l’efficienza nella produzione era motivo di un orgoglio e gli inimicava i compagni, che lo consideravano servo dei padroni, ma erano costretti a «spezzarsi la spina dorsale per stargli dietro».

    Solo in un contesto di questo genere, che permea la cultura dell’occidente industrializzato da più di un secolo, può germogliare l’idea che il tempo possa essere guadagnato o perso. E questa idea è percolata, goccia a goccia, dalla fabbrica taylorista con i suoi eccessi – raccontati mirabilmente da Charlie Chaplin in “Tempi moderni” (1936) – alla nostra vita quotidiana, nella quale nessuno sembra più disposto a sopportare la minima inefficienza dell’uomo e delle sue macchine nella smania, appunto, di non perdere tempo.

    Dobbiamo lasciare che il tempo venga perso, scialacquato, scorra dove noi non lo vediamo e non lo sappiamo, si disfi, si frammenti, si disordini insieme alla materia del pensiero

    Eppure, negli ultimi cinquant’anni, i modi e le caratteristiche della produzione sono radicalmente cambiati. Un indice del cambiamento è la costante diminuzione della massa del PIL, il prodotto interno lordo mondiale. Oggi il PIL è diventato leggero: l’acciaio ha lasciato il posto ai cosiddetti beni immateriali. Oggi, le economie occidentali producono principalmente servizi; e i servizi vengono prodotti secondo modi e metodi che privilegiano e premiano il contenuto di creatività (in tutte le sue infinite forme), relazioni e conoscenza infuso nei processi produttivi.

    Rimangono – relitti di un passato prossimo – comparti nei quali il volume della produzione e l’efficienza produttiva nel senso “classico” del termine sono ancora il fondamento del successo delle imprese e della convenienza del prodotto; ma in tutti gli ambiti dell’economia della conoscenza, tutto questo suona ormai vuoto.

    Come noi, molti si saranno domandati, all’inizio della grande espansione di Internet e delle imprese che lo hanno creato, promosso e diffuso, per quale ragione i principali attori di questa straordinaria fase di crescita e progresso offrissero ai propri dipendenti, accanto e dentro allo spazio di lavoro, luoghi di relax e di intrattenimento. I mezzi di comunicazione ci raccontavano, a cavallo del millennio, la stravaganza dei grandi parchi, delle aree di conversazione e di benessere, dei bar e delle sale giochi integrati nello spazio di lavoro.

    Quella che sembrava un’eccentricità, permessa solo dagli ingenti profitti che queste imprese realizzavano o promettevano di realizzare, era il germe della consapevolezza del fatto che, fondate sulla conoscenza e sulla creatività, queste imprese avevano la necessità di allestire per i propri dipendenti un ambiente che si prestasse a stimolare e favorire il germogliare di nuove idee e a promuoverne la discussione e l’applicazione. In qualche modo un ambiente che incoraggiasse la ‘perdita di tempo’.

    Questo cambio di paradigma si rifletteva anche sui biglietti da visita di chi per queste imprese lavorava. Ricordiamo che, qualche anno fa, ci capitò di incontrare il “daydreamer” (cioè, il sognatore ad occhi aperti) di una delle prime cinque società al mondo per volume d’affari il quale, attraversato l’oceano, veniva a incontrare noi, neonati e minuscoli editori per ragazzi, per fare due chiacchiere e capire che cosa pensavamo di un certo fenomeno che cominciava allora a manifestarsi.

    Il problema è l’implicita, intima contraddizione fra efficienza e creatività

    Come abbiamo detto sopra, siamo editori di libri illustrati per ragazzi. Rientriamo quindi nella categoria di imprese la cui sorte economica dipende in larga misura dalle qualità del contenuto immateriale infuso in un bene materiale. Certamente, non abbiamo l’allure e il carisma dei grandi inventori di Internet, dei creatori di servizi virtuali legati al web; ma ci confrontiamo con problemi analoghi ai loro. O, meglio, queste imprese si confrontano, a una dimensione assai più grande e con un’intensità amplificata appunto dalla dimensione, con lo stesso problema con cui l’editoria in generale, e l’editoria libraria in particolare, si scontra da qualche secolo.

    Il problema è l’implicita, intima contraddizione fra efficienza e creatività. Una contraddizione aggravata dalla dialettica, anch’essa implicita, fra l’efficienza e la creatività proprie e l’efficienza e la creatività degli altri: coloro con cui si lavora e si collabora (autori, illustratori, grafici, stampatori, distributori, librai). È però necessaria una precisazione, per evitare di finire nel calderone delle banalità: la contraddizione non implica contrapposizione o negazione; dove c’è efficienza può esserci creatività e viceversa, anche se efficienza e creatività tendono ad avere modi e tempi diversi nel loro manifestarsi.

    Il problema sta esattamente qui: dobbiamo – noi editori ma anche molti altri imprenditori che nelle proprie attività implicano processi creativi – essere estremamente efficienti per non vanificare la creatività che abbiamo promosso e sviluppato; ma non dobbiamo illuderci che l’efficienza basti da sé o permetta di promuovere e sviluppare il talento di cui abbiamo bisogno per sopravvivere e prosperare.

    Dobbiamo lasciare che il tempo venga perso, scialacquato, scorra dove noi non lo vediamo e non lo sappiamo, si disfi, si frammenti, si disordini insieme alla materia del pensiero. Dobbiamo lasciare che accada, insomma, qualcosa di simile a quello che mostra la terra passando dalle perfezioni della primavera all’incolore fango invernale. Quel tempo grigio, morto e poco attraente che l’imprenditore non controlla (e nemmeno il creativo), ma senza il quale nulla ha luogo.

    L’editore dovrebbe saper perdere il proprio tempo per concederne a chi contribuisce a creare il libro

    Con l’acume e la lucidità che gli erano soliti, Italo Calvino, ne “Le lezioni americane”, nella lezione dedicata alla “Rapidità”, descrive il processo dal quale scaturiva la sua scrittura, individua due forme alternative di tempo: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano; il tempo dell’illuminazione e il tempo del lavoro lento, metodico e sotterraneo. Afferma Calvino che «La concentrazione e la craftsmanship di Vulcano sono le condizioni per scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano diventino portatrici di significato e dalla ganga minerale informe prendano forma gli attributi degli dei, cetre o tridenti, lance o diademi.» (Italo Calvino, Lezioni americane. Milano: Garzanti, 1988. p. 53)

    Come il lavoro dello scrittore, anche quello dell’editore (e di tutti coloro che agiscono in campi a cavallo fra creazione e industria) deve tenere conto di tempi diversi. Ma c’è una differenza che è importante mettere in luce: l’editore, in quanto imprenditore, non ha a che fare solo con se stesso, con la propria creatività e con la propria industria.

    In questo senso, alla coppia di dèi esemplata da Calvino, ci permettiamo di aggiungere (sperando che ci venga perdonata l’intemperanza), un altro modello di tempo: quello di Cerere, dea delle messi. Il suo tempo è quello di chi regola i cicli di crescita e riposo della terra, ovvero quello biologico delle stagioni e insieme quello umano dell’agricoltura, fatto di gesti che devono essere eseguiti con precisione ed efficienza nel momento giusto, quando non è immaginabile perdere anche un solo istante, intervallati da periodi in cui si può solo osservare, attendere, curare un lavoro che avviene silenziosamente e invisibilmente, lontano dal controllo e persino dalla possibilità di comprensione.

    L’immagine di copertina è stata pensata appositamente per l’articolo di Giovanna Zoboli e Paolo Canton da Elisabetta Bianchi – https://bianchielisabetta.com/

    A questo proposito, Calvino conclude la lezione sulla Rapidità, con una storia folgorante: «Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno di un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e, in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.»

    Come il re di questa storia, l’editore dovrebbe saper perdere il proprio tempo per concederne a chi contribuisce a creare il libro, e anche essere pronto a riconoscere e a raccogliere immediatamente il frutto della sua attesa.

    Ma c’è molto di più, naturalmente, dietro questa affilata parabola. Nessuno dei due, il re e il pittore, ha alcuna garanzia di riuscita. Chuang-Tzu potrebbe non raggiungere mai il proprio intento. E il re potrebbe stancarsi di aspettare. Ma senza il re Chuang-Tzu non disegnerebbe mai il granchio. E senza Chuang-Tzu il re non lo avrebbe mai. E, tuttavia, qualora questa fosse l’evenienza, persino questa colossale perdita di tempo potrebbe avere un senso.

    Note