Scelta e cambiamento: le domande, prima delle risposte
Per una strana alchimia di contesto di questi tempi inciampo in due parole: scelta e cambiamento. Parole che si rincorrono, si intrecciano, l’una offre il pretesto all’altra, si scindono e si reincontrano in uno spazio magmatico di riflessioni collettive e individuali. Diurne e notturne. Solitarie o corali.
– Ma non eri un angelo? – sono l’angelo che abita nel punto in cui le linee si biforcano. Chiunque risalga le cose divise mi incontra, chiunque scenda al fondo delle contraddizioni, chi torna a mescolare il separato
Italo Calvino, Il castello dei destini Incrociati
Se ne è parlato al Festival delle Comunità del Cambiamento organizzate da Rena, qualche settimana fa. Ne discuto con i compagni di strada di sempre e con quelli nuovi incontrati proprio sul confine di quelle parole. Leggo libri che mi offrono spunti . Sottolineo a penna, per lasciare traccia.
Avvertiamo un’urgenza, ci giriamo intorno. Diamo significanza culturale, sociale, politica, etica, individuale a quelle due parole. Ciascuno nel suo pezzo di vita – professionale, politico, civico – si interroga e trasporta bisogni, ansie, tentativi ed errori.
Scelta/cambiamento sono delle GrundWorte (M.Buber, Ich und Du, 1957) – delle parole base, vale a dire delle idee che hanno senso solo a coppie, mai isolatamente?
Oppure, nel significato che attribuiamo loro trasportiamo punti di vista ambigui, impliciti?
Quanto c’è dell’ovvio, dello scontato in questa accoppiata?
Ci può essere cambiamento senza scelta: è lo spazio della ricerca di nuove strade, l’adattamento darwiniano al contesto. Il pollice opponibile conseguenza della discesa dagli alberi è stato un cambiamento enorme per i sapiens. Non è stato frutto di una scelta. E’ successo, ha prodotto cambiamento.
È determinato dal caso e dalla necessità (J. Monod: “Gli eventi iniziali elementari, che schiudono la via dell’evoluzione ai sistemi profondamente conservatori rappresentati dagli esseri viventi sono microscopici, fortuiti e senza alcun rapporto con gli effetti che possono produrre nelle funzioni teleonomiche”, Il caso e la necessità, 1970)
Il tropismo del cambiamento senza scelta non è determinabile, ne’ nei tempi ne’ negli esiti. Soprattutto non è equo: si salva chi ha gli strumenti, chi è predisposto geneticamente, chi è forte, chi ha tempo per aspettare
Oppure, al contrario, ci può essere scelta senza cambiamento: accettando o rifiutando le regole del gioco. Si sceglie di giocare o di non giocare, senza porsi il problema del cambiamento. Nascondendosi, come il Tenente Farina in Mediterraneo, in un barile di olive senza farsi trovare dallo ZeitGeist, dallo spirito del tempo.
SLR- Tonino, sta cambiando tutto. C’è da rifare l’Italia, ricominciamo da zero. C’è grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente! Dai? Andiamo. Costruiremo un grande e bel paese per viverci. Te lo prometto. Ma dai, è anche il nostro dovere.
F- Ma che dovere, Nicola, lo hai detto anche tu. Ti ricordi? Si sono dimenticati di noi? Ecco, io voglio dimenticarmi di loro. Rifare l’Italia, cambiare il mondo, io non ci credo, non sono capace, non so. Io rimango qui.
SLR- In un barile d’olive? Su un’isola deserta? Questa sarebbe la tua dimensione?
Si può – anche e più o meno inconsapevolmente – scegliere di indossare gli abiti “degli uomini in grigio, secondo la bella definizione di Carlo Greppi (un altro con cui discuto di scelte e di urgenze):
“C’è una domanda che non mi da pace da anni (…), è un dubbio che mi trascina nel tempo di guerra.
Se un giorno, un ipotetico giorno, nel luogo in cui vivo si desse la caccia a una “categoria” di esseri umani e in una notte silenziosa come questa in cui scrivo una persona – o una famiglia- bussasse alla mia porta, avrei il coraggio di aprire’? Saprei valutare ogni possibile conseguenza della mia scelta, saprei farlo in un attimo?” (Carlo Greppi, Uomini in grigio, Feltrinellli, 2016)
La domanda che Carlo Greppi ha il coraggio di porsi interroga a fondo quella banalità del male che ciascuno di noi ha, rimuove, finge di non vedere.
Le riflessioni più interessanti – quelle che appartengono a quello spazio che solo i visionari, gli insonni o gli irrequieti hanno voglia di abitare – sono quelle che rendono l’accoppiata scelta/cambiamento una GrundWorte. Una coppia potenzialmente formidabile. Quelle che ponendosi il problema della scelta si interrogano sulla qualità del cambiamento. Sui suoi esiti, quantitativi e qualitativi.
A coloro che avvertono l’urgenza – perché visionari, insonni o irrequieti – interessa il cambiamento che rimetta al centro un dispositivo valoriale, una prospettiva di senso, un modo per evitare la costruzione di macerie – quelle a cui stiamo assistendo. L’ossimoro per eccellenza, la costruzione di macerie. Lo sgretolarsi di parole a cui attribuiamo un significato sempre più esile, fragile, stanco, noioso: democrazia, inclusione, pubblico, privato, politica, potere, istituzioni, solidarietà, giustizia, diritti, sviluppo, economia.
Parole che ciascuno di noi declina in forma contratta, non occupandosi nemmeno più della loro semantica, della loro storia, delle radici etimologiche da cui sono nate. E quindi lasciandole lì, in uno spazio indeterminato di senso che non ci dice nulla della storia che ci sta passando sotto i piedi. Che non ci da codici interpretativi e che, quindi, ci impedisce di vedere cosa sta succedendo. Ci limita nella visione, offuscano lo sguardo quando, poi, ci chiediamo “che fare”. Ci fa scuotere il capo e rimandare.
In quelle domande, in quell’urgenza c’è l’ansia dell’agire, dell’individuare strumenti, percorsi, sentieri. Individuali e collettivi.
Paolo Di Paolo, nel suo bel libro Tempo senza scelte lancia uno sguardo generazionale alla questione della scelta che chiama in causa noi, la generazione dei padri o dei fratelli maggiori:
“la scelta è dubbio, responsabilità, costruzione di sé e del futuro. Ma dove la Storia non chiede risposte nette è ancora possibile prendere decisioni radicali, accettare il rischio? (..) Cresciuto in anni in cui la vita pubblica è stata sempre prossima alla farsa, allenato dalla generazione dei padri a spendermi al minimo, circondato da pagliacci torvi, ho rischiato di credere che fosse tutto, si davvero, uno scherzo infinito. Ma non lo è”
La domanda che la mia generazione – nata a metà degli anni ’60 – ha implicitamente posto ai suoi nonni – “tu da che parte stavi, dove eri?” a noi ha indicato una strada. Ci ha fatto scegliere il campo. Da lì è partita la nostra avventura nel mondo. Ci siamo schierati, bene o male.
Noi abbiamo ereditato il campo della scelta dai testimoni o dai protagonisti diretti.
Ce la portiamo sulle spalle – con il suo bagaglio di stanchezza e fatica – perché un lungo piede nel secolo breve lo abbiamo avuto. Ci siamo formati nelle sue contraddizioni, abbiamo avuto a che fare con le sue organizzazioni del potere, della società, della cultura, dell’economia e della politica.
Nel conflitto che provoca cambiamento, perché frutto di una scelta, ci siamo stati o, almeno, osservavamo i nostri fratelli maggiori e i nostri padri nella pugna. Ne abbiamo memoria.
Noi generazione di mezzo sentiamo una mancanza. Noi viviamo nella mancanza. Per questo rischiamo semplicemente di coltivare nostalgia e rimpianto per le occasioni perdute. Di depositare negli scaffali della storia le parole senza che queste producano nuovi grappoli di significato. Giudicando e descrivendo mondi che non sono più. Adattandoci al cambiamento. Mugugnando infelicemente sulla fine della storia. Manco fossimo stati noi 50enni a compiere delle scelte assumendoci il rischio. Noi, la domanda di Carlo Greppi e di Paolo Di Paolo, non ce la siamo posta nella sua urgenza. Noi l’abbiamo ereditata.
Lasciando il tempo senza scelte a chi viene dopo. Giudicando la loro difficoltà a schierarsi, ad assumersi quella responsabilità nella costruzione del sé e del futuro.
Le nuove generazioni – qui, in questa parte di mondo – non hanno campo, non hanno conflitto , non hanno rottura apparente. Rischiano semplicemente di muoversi in un contesto adattandosi darwinianamente al cambiamento.
Rischiano di essere molecole che si aggregano e si disaggregano nel tumulto del cambiamento. Qualcuno produrrà nuovi pollici opponibili. Altri cercheranno tuberi sotto le macerie che abbiamo costruito. Altri, tanti, partiranno. Altri, tanti, arriveranno ed avranno colori, lingue, storie diverse. Attraversando confini permeabili all’arrivo ma incapaci di costruire – da questo – un nuovo senso dello stare insieme.
Baumann recentemente ha affrontato il tema della crisi europea all’accoglienza opponendo due parole – che stanno tutte alle nuove generazioni: precarietà/fuga. Precarizzazione dei diritti e delle prospettive, qui. Fuga dalla deprivazione, dalla violenza e dalla paura, là.
Il cambiamento senza scelta è questa ordalia di diseguali che si fronteggiano e non si riconoscono. Che si temono, si scontrano. Che non hanno voce semplicemente perché non sanno organizzarla, non sanno quale bandolo afferrare per uscire dal labirinto del tempo senza scelte. Un’ordalia sulla quale si producono parole nuove ma vecchie quanto il mondo.
I makers ce la faranno e produrranno cambiamento, probabilmente. Infinitesimale, su scala ridotta ma ci riusciranno. Gli altri si agiteranno in un campo da gioco il cui regolamento è stato scritto nell’altro millennio ma non romperanno le regole, non le sovvertiranno. Perché non produrranno conflitto ma soltanto, forse, rivolta.
Perché non hanno il campo della politica: glielo abbiamo consumato tutto e continuiamo a fare finta che esista e che ci si possa giocare. Fischiando quelli che inciampano. Applaudendo quelli che si adattano. Ignorando quelli che ci provano.
Forse è tempo di indurire i perimetri delle linee di crescenza, quei tessuti molli di cui parlavo a Rena, due settimane fa. Mettersi a disposizione spolverando le parole, togliendo loro le ragnatele della nostalgia e della mancanza.
Forse è il momento di ricreare il campo delle scelte. Decidere da che parte stare ed accettare il fatto che noi generazione di mezzo abbiamo la responsabilità del sacrificio, perché i nostri nipoti possano farci quella domanda che noi abbiamo fatto ai nostri nonni. Occuparsi del campo da gioco intanto provando a togliere qualche maceria. Perché il tempo ritorni ad essere fatto di scelte che altri erediteranno.
Perché scelta/cambiamento ritornino ad essere delle GrundWorte. Delle parole dall’accoppiata potenzialmente formidabile.
Dobbiamo trasformarci in angeli che stanno nel nel punto in cui le linee si biforcano. Dobbiamo tornare a mischiare il separato.
Dobbiamo scendere al fondo delle contraddizioni. Senza dare per scontato niente, tracciando nuovi sentieri a mente aperta, usando semplicemente quella bussola che ci orienta nel cielo stellato sopra di noi.